ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 5 dicembre 2016

Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti?(2 Sam 7)

In morte della bellezza

    Ogni volta che viene consacrata una nuova chiesa sono contento, perché Dio ha una nuova casa e le persone un luogo dove pregarlo. Se poi il luogo in cui la chiesa è consacrata è una periferia desolata, ancora meglio: in mezzo ai palazzoni-dormitorio, dove magari non c’è neanche una piazza per incontrarsi, la chiesa diventa un’isola di umanità e di speranza in un mare di grigiore reale ed esistenziale.
Tra le periferie più desolate ci sono quelle romane, e dunque quando su «Roma sette», supplemento di «Avvenire», ho letto che a Ponte di Nona sarà presto consacrata una chiesa intitolata a Santa Teresa di Calcutta, ho pensato: che bello!
Poi purtroppo ho visto la foto.
Questa nuova chiesa, devo dire, non è brutta. È orrenda. E allora mi sono chiesto: perché? Voglio dire: perché una chiesa così orrenda? E perché le chiese nuove sono tutte immancabilmente orrende? Che cosa abbiamo fatto di male noi cattolici contemporanei per meritarci chiese che fanno letteralmente spavento? Quale colpa dobbiamo espiare?

Mi piacerebbe chiederlo ai vescovi e ai responsabili diocesani che si occupano di queste cose. Qui non posso pubblicare immagini, ma vi chiedo di andare a vedere in internet. Se cercate la nuova chiesa dedicata a Santa Teresa di Calcutta, a Ponte di Nona, a Roma (via Guido Fiorini, 12) la trovate subito. Purtroppo.
Penso che se avessero chiesto di disegnarla a un bambino di sei anni il risultato sarebbe stato di gran lunga migliore. Come definire questa presunta chiesa? Un magazzino? Un hangar? Un pezzo di fabbrica? Un bunker? Una casamatta?
Secondo l’architetto, del quale per carità non faccio il nome, vista di profilo la chiesa può contenere l’immagine di Madre Teresa in preghiera. Ci vuole una certa immaginazione. Il problema è che, di profilo o non di profilo, questo edificio resta orrendo. Quello che dovrebbe essere il campanile sembra una lunga zanna cariata, oppure una specie di torretta industriale, o una cabina elettrica non terminata. Quanto al corpo centrale, potrebbe sembrare la tribuna di uno stadio, ma una brutta tribuna di un brutto stadio.
E vogliamo parlare dell’interno? Un grande vuoto. Di una freddezza sconcertante. Penso che un deposito di frigoriferi, al confronto, trasmetta più calore.
Ora torno alla domanda di prima: perché? Perché le chiese di questi nostri tempi devono essere così orrende? Perché ci siamo condannati alla bruttezza estrema, senza speranza? Perché gli architetti ai quali vengono commissionate non sanno fare altro che tirare linee dritte come se fossero alle prese con il progetto d’un supermarket? Perché ignorano del tutto il bisogno di raccoglimento e di intimità spirituale? Perché non possiedono nemmeno una briciola di senso del sacro? Ma, soprattutto, perché le nostre diocesi si rivolgono proprio a questi architetti che sembrano ignorare tutto della vita della Chiesa? Perché, a dirla tutta, i nostri vescovi commissionano chiese a chi, con ogni evidenza, la Chiesa la odia? Possibile che non ci sia in giro un architetto dotato di un minino di pietà per i fedeli e di un minimo di amore per nostro Signore?
Mentre scrivo, mi viene in mente una possibile risposta. Forse è tutto un calcolo astuto. Siccome le liturgie, in queste nostre chiese di questi nostri tempi, sono spesso, a loro volta, orrende, ecco che i signori vescovi pensano: per liturgie orrende ci vogliono chiese orrende, è una questione di coerenza. Per liturgie sciatte, a base di schitarrate e canti sguaiati, con altoparlanti che ti sfondano i timpani, cori stonati,  preti che pensano di essere a un talent show e fedeli che si comportano come se fossero al centro commerciale, è giusto mettere a disposizione chiese adeguate.
Non so se questo sottile ragionamento – che comunque è un’ipotesi –  sia animato anche da un intento pedagogico, ma penso di no. Probabilmente l’intento è soltanto punitivo.
Ma ecco che mi si propone un’altra risposta. E se fossimo davanti, ancora una volta, al vecchio complesso d’inferiorità che immancabilmente coglie molti nostri pastori? Se, semplicemente, facendo costruire queste chiese che sembrano magazzini, i nostri pastori pensassero di essere «moderni»? Probabilmente anche loro le considerano orrende, ma per non mostrarsi arretrati e inadeguati dicono che sono belle, innescando così un equivoco terribile e senza fine, a causa del quale gli architetti presentano progetti sempre più orrendi e i vescovi dicono che sono sempre più belli.
Il problema è che le vittime finali siamo noi poveri fedeli, costretti a frequentare luoghi di culto dai quali, se non fossero stati consacrati ufficialmente, staremmo certamente alla larga, tanto sono repellenti.
Mi viene da sorridere, amaramente, pensando che noi contemporanei, capaci solo di sfornare chiese orribili e agghiaccianti, ricorriamo all’espressione «secoli bui» per parlare del medioevo, quando i nostri progenitori costruivano cattedrali meravigliose, capaci di indurre a pensieri di fede perfino gli atei più incalliti. Se quelli erano «secoli bui», i nostri che cosa sono? Una cosa è certa: le chiese nuove, al contrario delle cattedrali medievali, riescono a indurre pensieri di ateismo perfino nei cattolici più devoti.
Non so se ci avete fatto caso, ma nelle chiese nuove, in questi ambienti terribili che non sembrano case di Dio ma luoghi di punizione e perdizione, non si sa letteralmente dove guardare. Non avendo un’anima, non hanno un centro. Per trovare il tabernacolo, un visitatore può impiegare un bel po’, e magari alla fine non lo trova. Non c’è niente che conduca lo sguardo e lo spirito verso il cuore della chiesa. Tutto sembra pensato, piuttosto, per sviare e confondere. Tutto sembra pensato e progettato perché tra lo spazio di fuori, quello della quotidianità, e lo spazio di dentro, quello che dovrebbe essere lo spazio sacro, non ci sia alcuna differenza. Bruttezza fuori, bruttezza dentro. Anonimato fuori, anonimato dentro. Appiattimento fuori, appiattimento dentro.
Ora, io so bene che il buon Dio non si fa problemi e abita tra noi ovunque. Ma perché noi non siamo più capaci di rendergli gloria? Perché facciamo di tutto per accoglierlo male? Perché i nostri pastori si ostinano a trovargli case così terribili, così inospitali, così fredde, quasi che, anziché invitarlo a entrare, lo volessero cacciar via?
Sento già la risposta: ma tu sei un vecchio conservatore e consideri brutto tutto ciò che è moderno e bello solo ciò che è antico!
Eh no, cari miei. Io sarò pure un vecchio conservatore, ma considero brutto ciò che è oggettivamente brutto, e rivendico il diritto di dirlo a voce alta. E forse, se ci mettessimo in tanti, a dirlo, qualcosa potrebbe cambiare.
Da Platone a san Tommaso, la bellezza è un attributo della verità e dunque di Dio. Noi invece inseguiamo la bruttezza. Perché? Solo stupidità? Solo sciatteria? No, senz’altro c’è di più. Immersi in un  pensiero che prova odio per l’idea stessa di verità e considera inesistente il bene oggettivo, non possiamo far altro che consegnarci al brutto. È fatale. Ma che questo avvenga con il timbro dei pastori mi mette una grande tristezza.
Se è vero, come scrisse Dostoevskij, che la bellezza salverà il mondo, mi sa tanto che noi dobbiamo considerarci spacciati.
Aldo Maria Valli

Chiese sempre più brutte. E’ ora di dire basta!

Carlo Cresti (Firenze 1931), architetto e ordinario di Storia dell’Architettura nell’Università di Firenze, è tra i maggiori studiosi italiani nel settore, con interessi che spaziano dalla storia dell’architettura rinascimentale, moderna e contemporanea, all’archeologia industriale, alla storia della città e del territorio, alla museologia. Tra le sue numerosissime pubblicazioni: Architetti e ingegneri nella Toscana dell’Ottocento (1978); Architettura e fascismo(1986); Orientalismi nelle architetture d’Occidente (1999); Museologia e museografia. Teoria e prassi (2006). Collaboratore di quotidiani e riviste d’architettura italiane e internazionali, è stato direttore della rivista La Nuova Città fondata da Giovanni Michelucci. Attualmente dirige Architettura & Arte, il cui fascicolo 2-4/2012, dedicato al temaArchitetture e culto cattolico, si apre con il testo che qui riportiamo. L’appello appassionato di Cresti pone il problema dell’oblio, da parte dei committenti come dei progettisti, di una topica di riferimento valida, plausibile, capace di reggere il tempo. Ringraziamo l’editore Angelo Pontecorboli, al cui link il saggio di Cresti è consultabile1.

Se negli ultimi anni sono state costruite e ancora oggi si continuano a edificare tante orribili chiese che offendono le città, il paesaggio, e il sentimento religioso, la colpa è certamente da assegnare agli architetti, ma anche, in egual misura, alle autorità ecclesiastiche le quali disinvoltamente affidano gli incarichi di progettazione e sovvenzionano le realizzazioni di simili turpitudini. Anzi, siccome gli architetti sono sempre stati mercenari (ossia servitori per mercede), disponibili ad assecondare qualsiasi capriccio del committente, viene fortemente da sospettare che le colpe maggiori, le responsabilità riguardanti le recenti chiese orribili siano da attribuire alla committenza di preti cosiddetti “progressisti”, dispensatori di premi e di incarichi preferibilmente alle archistar, col consenso delle commissioni diocesane di arte sacra che approvano i suddetti orrori. E’ pure da supporre che ciò avvenga perché i componenti delle commissioni d’arte sacra, spesso ignari di competenze architettoniche, ambiscono esibizionisticamente ad apparire “moderni”, e di larghe idee “avanguardiste”. E’ sintomatico che San Vincenzo de’ Paoli dicesse, non tanto paradossalmente: «La Chiesa non ha nemici peggiori dei preti».

Richard Meier, Chiesa di Tor Tre Teste, 1998-2002, Roma. Giorgio Adelmo Bertani, Francesca Vezzali, Centrale per il teleriscaldamento, 1995-97, Reggio Emilia.

A cominciare da due orrori che hanno preceduto quelli attuali, ossia dalla cattedrale di La Spezia progettata da Adalberto Libera nel 1969 (una torta rotonda neanche ben lievitata), e dalla chiesa di Gibellina Nuova ideata da Ludovico Quaroni dopo il terremoto del Belice del 1968 (una infantile, instabile palla di cemento davanti ad una inutile cavea), viene da domandarsi chi ha offerto credito alle scarse attitudini progettuali degli autori delle successive, innumerevoli e sacrileghe chiese-garage, chiese-discoteca, chiese-depositi industriali, chiese-palasport, chiese-supermercati. Un tempo nella chiesa il fedele vedeva la prefigurazione del paradiso, la Gerusalemme celeste, il mistero della fede, l’incarnazione eucaristica. Oggi invece, molte delle chiese di “ultima generazione” si configurano come veri e propri vilipendi alla religione e atti di violenza al senso del sacro. Ormai sempre più si realizzano chiese che istigano alla imprecazione piuttosto che invitare alla preghiera. Sempre più si commissionano, con compiacimento, progetti ad architetti miscredenti, in odore di estremo nichilismo. Non si lamentino quindi i sacerdoti se le chiese “moderne” e “progressiste” vanno spopolandosi di fedeli e se, esponenzialmente, va crescendo l’invasione e l’arroganza degli infedeli.

Pierluigi Spadolini, Chiesa di Tor Bellamonaca, 1985-87, Roma.

È giunto dunque il momento di dire basta alla troppo lunga e recente stagione delle chiese indecenti, che vanificano il concetto di sacralità; ossia necessita denunziare, ad esempio ed emblematicamente, le oscenità architettoniche costituite dalle gratuite vele (misere e mal riuscite imitazioni di quelle dell’Opera House di Sidney) di cui è dotata la chiesa di Dio Padre Misericordioso a Tor Tre Teste (2003), alla periferia romana, disegnata dalla immancabile archistar a stelle e strisce; necessita esprimere medesimo dissenso per il macchinoso profilo a lanciamissili della chiesa di Santa Maria Madre del Redentore a Tor Bellamonaca (1987), palesemente mutuato dal retorico e comunista monumento moscovita allo Sputnik (1964). È doveroso altresì indicare al pubblico ludibrio il kitsch hi-tech del tempio santuario di San Giovanni Rotondo (2004) che pare la macroapertura di un forno multiplo o l’ingresso di una esorbitante aviorimessa, nonché il repellente brutalismo del cubo-bunker in cemento armato (blasfema versione della Kaaba) destinato alla chiesa di San Giacomo a Foligno (2004), dovuto alla sinistra, pontificante presuntuosità di un raccontatore di pseudo “nuvole”. Altrettanta indignazione deve essere manifestata per la cappella al mare a Marsascala in quel di Malta, proposta nel 1991 dalla scarsa progettualità di un geometra-laureato, con croce irriverentemente messa in diagonale, copiata dalla croce inclinata della cappella funebre Bausano realizzata nel 1952 dall’architetto Venturelli nel cimitero di Torino, e ancora per il meschino connotato di scatolare, prosaica sede di supercoop assegnato dallo stesso geometra-laureato alla chiesa di San Giovanni Apostolo a Ponte Oddi di Perugia (2006) con la croce sdraiata sul tetto per essere avvistata da fedeli che forse si recano a Messa in elicottero.

A.P. Faydisch-Krandievsky, A.N. Kotchin, M.O. Barshch, Monumento allo Sputnik, 1958-64, Mosca.

Dio perdoni gli architetti, dall’appellativo più o meno stellare, che generano tali mostri.

Si può inoltre esprimere tutto il legittimo disprezzo per la gigantesca autorimessa che dovrebbe conferire misticità al santuario di San Gabriele al Gran Sasso, e per quella sorta di capannone da cementificio edificato all’ingresso di Borgo San Sepolcro. Ma l’elencazione potrebbe proseguire in quantità inenarrabile. È pertanto necessario che le autorità religiose non perseverino nell’accettazione di oltraggiose chiese firmate da architetti-Attila, da progettisti senz’anima, ma si preoccupino di far costruire chiese idonee a ricevere i superstiti fedeli per il raccoglimento e la preghiera; non stiano ad ascoltare le vuote argomentazioni giustificative degli archi-snob; evitino di dare incarichi a progettisti che non condividono la fede, che disprezzano la religione cattolica e i suggestivi cerimoniali liturgici; evitino di seguire la moda corrente della globalizzazione che è l’alibi dell’abdicazione alla propria identità; non rinunzino alla opportuna visibilità dei tradizionali, insostituibili segni della cristianità; decidano saggiamente di tornare al valore del messaggio architettonico della forma, rifuggendo dal “minimalismo” che non è espressione di “sensibilità sociale”, bensì dimostrazione di assenza di creatività.

Così facendo, ossia rivalorizzando la funzione dottrinale e simbolica della chiesa, si può sperare di frenare il montante processo di scristianizzazione. Tornando a dare importanza all’educazione della bellezza, come forma sensibile mediante la quale si rappresenta la verità, si può sperare di restituire autenticità e vitalità al rapporto tra architettura e dimensione del sacro.

Altrimenti si moltiplicheranno le chiese ecomostri, gli scempi deturpanti, gli aspetti degradanti degli edifici che anziché destinati al culto della preghiera sono soltanto adatti ad ospitare predicatori di sociologie da marciapiede. Bisogna impedire il ripetersi della triste evidenza che «Il Verbo non si fece Carne bensì Cemento», come qualcuno, con ragione, ha scritto. ΔΔΔ

1http://www.pontecorboli.com/architetturaarte/aa/cattolico_2-4-2012.pdf
Sotto: Renzo Piano, Chiesa di Padre Pio, 1994-2004, San Giovanni Rotondo.

1 commento:

  1. Prima di essere accreditati come architetti specialisti in urbanistica sacra evidentemente occorre superare l'esame professionale di bruttezza.

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