La coscienza dispersa nelle acque di Malta
Che il capitolo ottavo della Amoris Laetitia (AL) non sia affatto chiaro diventa ogni giorno sempre più evidente. Infatti, l’interpretazione della AL che traspare dalle linee guida pastorali date dalla diocesi di Roma è diversa da quella di Firenze, quella della Conferenza Episcopale Polacca è contrapposta a quella Argentina, quella di Milano è diversa da quella di Malta, quella data dal card. Kasper è assolutamente opposta a quella data dall’arciv. Chaput di Filadelfia, e così via.
Il perché di questo clamore, come si può vedere, è dato dal fatto che il discrimine che consente ad una persona divorziata e risposata di ricevere l’eucaristia è dato dalla sua coscienza, formata ed illuminata, che si sente a posto con Dio.
E’ superfluo dire che il passo è in netto contrasto con quanto affermato in generale da tutta la Tradizione millenaria della Chiesa su questo tema e, volendo fare qualche esempio particolare, si potrebbe far riferimento al n. 915 del codice di Diritto Canonico, al n. 84 della Familiaris Consortio di San Giovanni Paolo II, al n. 1650 del Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 29 della Sacramentum caritatis, o al testo della lettera del 1994 della Congregazione della Dottrina della Fede, prefetto era Ratzinger, indirizzata ai vescovi per chiarire questo tema dove si legge: “L’errata convinzione di poter accedere alla Comunione eucaristica da parte di un divorziato risposato, presuppone normalmente che alla coscienza personale si attribuisca il potere di decidere in ultima analisi, sulla base della propria convinzione, dell’esistenza o meno del precedente matrimonio e del valore della nuova unione. Ma una tale attribuzione è inammissibile”.
I sostenitori di una lettura “meno ortodossa” della Amoris Laetitia affermano che la Familiaris Consortio era troppo legalistica, pretendeva che fosse il peccatore a doversi pentire prima di accedere alla Comunione, mentre, a loro parere, l’Amoris Laetitia ci dice che è la Chiesa che cerca di raggiungere il peccatore. In questo movimento un compito fondamentale lo riveste la coscienza. I pastori devono “formare” la coscienza, non porsi al suo posto. In altre parole, la coscienza diventa il “tribunale” dove la legge e la vita vengono sottoposte ad un contraddittorio. La coscienza è il santuario più intimo della persona in cui essa si trova a contatto diretto con Dio ed il suo giudizio, nel quale essa si assume la sua responsabilità e dove il processo di “discernimento” è centrale. Come dice Austen Ivereigh, in un articolo scritto per Crux, il 15 gennaio scorso: “Dio va oltre (non contro) la legge, e parla direttamente al cuore dell’uomo – ed un ministro di Dio, avendo accompagnato ed ‘assicurato’ il processo, può solo rispettarlo. (…) Questa è la ‘via cattolica’ di applicare la legge in modi che rispettano la libertà di agire di Dio”.
Si ravvisa in questa interpretazione un grosso limite che è quello di cadere nel soggettivismo più spinto, che è il tratto caratteristico della società moderna. Non a caso il card. Caffarra, sabato scorso, in una intervista rilasciata al Foglio, ci avvertiva che oggi: «nel nome della coscienza si distrugge la vera coscienza» poiché «si eleverebbe il giudizio privato a criterio ultimo della verità morale». La Chiesa, infatti, è chiamata a giudicare solo la situazione “oggettiva”, cioè quello che è “manifesto”, non si permetterebbe mai e poi mai di indagare ciò che è “soggettivo”, cioè della rettitudine dell’intenzione della coscienza, poiché questo compete a Dio, che conosce le profondità del nostro cuore. Se, al contrario, il fattore centrale diventa la coscienza, nella quale e attraverso la quale il fedele dopo una “auto-analisi” giunge ad una autonoma decisione se ricevere o meno la Comunione, è facile che il sacramento della confessione diventi “superfluo” se non addirittura inutile. Non è un caso che il presidente dei teologi moralisti italiani, Basilio Petrà, sulla rivista Il Regno, a proposito del capitolo VIII della Amoris Laetitia, arrivi a scrivere che: “Il fedele illuminato potrebbe giungere alla decisione che nel suo caso non ci sia la necessità della confessione”. Notare come Petrà usi per il fedele l’aggettivo “illuminato” e l’azione di “giungere alla decisione”.
Una tale posizione, a mio parere, sottovaluta abbondantemente il rischio che il nostro giudizio possa essere influenzato da una forza potente che prende il nome di “conformismo”, o che la nostra coscienza potrebbe essere obnubilata o, infine, che essa potrebbe essere abbondantemente erronea. Per capire il rischio della giustificazione mediante la “coscienza erronea”, basterebbe, come ci suggerisce Ratzinger, leggere il salmo 19,13: “Chi si accorge dei propri errori? Liberami dalle colpe che non vedo!”. Continua ancora Ratzinger: “l’ammutolirsi della voce della coscienza in così numerosi ambiti della vita è una malattia spirituale molto più pericolosa della colpa”. E la ragione della colpa del fariseo che ringrazia Dio per non essere come il pubblicano è proprio perché “è completamente in pace con la sua coscienza”. Dice infine Ratzinger che “l’identificazione della coscienza con la consapevolezza superficiale, la riduzione dell’uomo alla sua soggettività non libera affatto, ma rende schiavo: essa ci rende totalmente dipendenti dalle opinioni dominanti ed abbassa anche il livello di queste ultime giorno dopo giorno. La riduzione della coscienza alla certezza soggettiva significa nello stesso tempo la rinuncia alla verità”.
Le linee guida dei vescovi di Malta credo abbiano trascurato quanto la Veritatis Splendor dice a tal proposito: “Si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un’istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male. All’affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta l’affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l’imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di ‘ACCORDO CON SE STESSI’, tanto che si è giunti ad una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale”. (maiuscolo mia sottolineatura, ndr)
Non so quanto sia un guadagno per l’uomo l’essere oggetto di uno sguardo sì misericordioso ma anche rispettoso delle “illuminate” auto-analisi di coscienza; un rispetto che rischia, ultimamente, di lasciarlo impantanato nelle sue 50 sfumature di grigio, potenzialmente autoconsolatorie.
L’uomo ha invece bisogno di uno sguardo materno, quello della Chiesa, e di una mano sicura e ferma che lo accompagni lungo la strada della sua vita verso l’unica “sfumatura” che realmente conta, quella luminosa della Verità, anche quando questa risultasse difficile e dolorosa.
Don Giussani ci ricordava spesso alcuni passi dai Cori da “La Rocca”, del grande drammaturgo T. S. Eliot, convertito al cristianesimo, Nobel per la letteratura, uno dei quali credo faccia proprio al nostro caso:
“Perché gli uomini dovrebbero amare la Chiesa?
Perché dovrebbero amare le sue leggi?
Essa ricorda loro la Vita e la Morte,
e tutto ciò che vorrebbero scordare.
E’ gentile dove sarebbero duri,
e dura dove essi vorrebbero essere teneri.
Ricorda loro il Male e Il Peccato, e altri fatti spiacevoli.
Essi cercano sempre d’evadere
dal buio esterno e interiore sognando sistemi talmente perfetti
che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono.”
Autore: Paciolla, Sabino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
venerdì 20 gennaio 2017
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