Padre Pio si sottrae alle categorie legate al tempo, non appare “vecchio”, “contemporaneo” o “nuovo”. È semplicemente “originario”, situato nel principio della fede in Cristo e del tempo di Cristo, e da lì parla agli uomini di ogni epoca e di ogni luogo. La cella del convento nel Gargano del XX Secolo può divenire un luogo angusto, se non la si riconduce alla sua topografia spirituale, caverna dell’antica Tebaide preparata da sempre dal Signore per ospitare il suo santo servo.
Giovedì 23 febbraio 2017
E’ pervenuta in redazione:
Carissimo Alessandro Gnocchi,
sono un devoto di padre Pio e anche un discreto conoscitore della sua vita e della sua opera. Avevo già letto “L’ultima Messa di padre Pio” che lei aveva scritto con Mario Palmaro e ora ho visto che ha pubblicato un nuovo libro su questo grande santo. Devo dire che mi sorprende l’impostazione del suo lavoro. Per ora sono riuscito solamente a scorrerlo e devo confessare non mi è mai capitato di trovare qualcuno che paragonasse padre Pio ai padri del deserto in modo sistematico, come fate lei e padre Serafino Tognetti. Come è nata questa scelta?
Un cordiale saluto
Giovanni De Carlo
Caro Giovanni,
in effetti, può sorprendere la collocazione di padre Pio nel coro degli antichi Padri. A prima vista, ma sarebbe meglio dire “a prima svista”, potrebbe sembrare incauto l’accostamento di colui che viene giustamente ritenuto un chiarissimo esempio di fedeltà alla tradizione a coloro che sono stati presentati come modelli dagli archeologismi rivoluzionari di ogni epoca. In realtà, il deserto del IV, V e VI Secolo fu popolato da monaci dediti a tutto ciò che gli archeologismi rivoluzionari hanno sempre eliminato dai loro programmi di riforma: la rinuncia guerreggiante al mondo, il lavoro manuale, il silenzio, il digiuno, il canto dei salmi, l’orazione, la contemplazione, il sacrificio del proprio ego incenerito sull’altare del Signore. Tutto ciò che in padre Pio tocca vertici raramente raggiungibili.
L’idea di verificare tale legame è nata studiando, ma anche pregando, sui testi dei Padri del deserto e di altri autori del cosiddetto periodo patristico. Dopo aver frequentato con una certa attenzione e con un po’ di amore padre Pio, solo un’anima miope fino alla cecità non avrebbe colto l’identità perfetta delle due vie. Osservato con tale sguardo, il santo sannita si sottrae alle categorie legate al tempo, non appare più “vecchio”, “contemporaneo” o “nuovo”. È semplicemente “originario”, situato nel principio della fede in Cristo e del tempo di Cristo, e da lì parla agli uomini di ogni epoca e di ogni luogo. La cella del convento nel Gargano del XX Secolo può divenire un luogo angusto, se non la si riconduce alla sua topografia spirituale, caverna dell’antica Tebaide preparata da sempre dal Signore per ospitare il suo santo servo.
Ora, caro Giovanni, non posso scrivere tutto quanto troverà nel libro. Posso però dirle che la prima scintilla mi è scoccata sotto gli occhi verificando la completa sovrapponibilità fra certe pagine dell’Epistolario di padre Pio e alcuni passi della Scala del Paradiso di San Giovanni Climaco su temi come il desiderio della morte, la vanagloria o la penitenza. Allora, per saggiare la consistenza di questa idea, ho parlato con padre Serafino Tognetti, un monaco che conosce bene l’essenza e la storia del monachesimo e ha frequentato padre Pio anche più di me. Così è nato il libro di cui lei mi chiede notizia.
Devo dirle che, esplorando con attenzione questo territorio, ho capito perché padre Pio fosse, e sia ancora, incompreso dentro la Chiesa cattolica. Da chi ne fa un santino da rotocalco, da chi lo erige a campione di una misericordia postcattolica, ma anche da chi non ci vede altro che un esempio di reazione codina e bacchettona. Se non si lavora di fino e in umiltà, lasciandosi guidare da veri maestri dello spirito, si finisce fatalmente per cercare questo santo in luoghi spirituali in cui non è mai stato.
Un esempio da manuale di tale fraintendimento sta nel fatto che oggi, appena pochi decenni dopo la sua morte, padre Pio non è più comprensibile ai figli del suo stesso ordine, che si sono concessi al linguaggio degli uomini. “Cacciateli via”, aveva inveito il padre dalla sua Tebaide pugliese contro i giovani frati che chiedevano di scrivere le nuove Costituzioni cappuccine secondo un codice spirituale invertebrato e gradito al mondo. I suoi stessi contemporanei non capivano la durezza del suo linguaggio perché non comprendevano più la durezza della sua fede. Se si prende a misura la vita religiosa di oggi, non c’è cappuccino meno cappuccino di padre Pio. Così come, secondo la stessa cifra, non c’è francescano meno francescano di San Francesco d’Assisi. Il figlio ha seguito il destino del padre, ingurgitati, rimasticati e vomitati entrambi secondo i dettami di una religiosità mondana.
Non poteva essere altrimenti poiché il padre e il figlio avevano fatto del rifiuto del mondo il loro credo, il loro atto di sottomissione al Dio. Gli sventurati profeti della fuga in avanti non potevano, non possono, non potranno dare albergo e comprensione a chi ha scelto di radicarsi nella sorgente della tradizione monastica, di essere un antico Padre che, secondo la lingua di Dio, torna a “dire sempre la stessa cosa”.
Per nulla francescano secondo la vulgata mondana, San Francesco, fu essenzialmente un eremita che continuava a “dire sempre la stessa cosa” già detta dagli antichi Padri. Per nulla cappuccino secondo la stessa vulgata, padre Pio visse come un Padre del deserto, assediato dalle folle anelando la solitudine. Non è un caso se il frate sannita è il figlio di San Francesco che ha sentito meno di tutti la necessità di parlare del fondatore. Gli bastava la consapevolezza di bere alla sua stessa sorgente.
Prima che nelle Vite o nei Fioretti del frate di Assisi, il calco della missione di padre Pio si trova nell’Egitto del III e del IV Secolo, codificato da Sant’Atanasio nell’esemplare Vita di Antonio. “Veramente Dio l’aveva dato all’Egitto come medico” scrive il vescovo di Alessandria d’Egitto del fondatore del monachesimo. “Chi andò da lui nel dolore e non tornò nella gioia? Chi andò da lui piangendo i suoi morti e non depose subito il lutto? Chi andò da lui nella collera e non si convertì a sentimenti di amore? Chi, afflitto per la sua povertà, venne a trovare Antonio e ascoltandolo e vedendolo non disprezzò la ricchezza e trovò conforto nella sua povertà? Quale monaco scoraggiato andò da lui e non divenne più saldo? Quale giovane salì alla montagna e, veduto Antonio, non sentì subito inaridirsi i piaceri e non amò la temperanza? Quando mai andò da lui qualcuno tormentato dal demonio e non ne fu liberato? E chi andò da lui tormentato dai pensieri e non trovò la pace della mente?”.
Non le pare il ritratto di padre Pio, caro Giovanni? E poi penso a San Pacomio o a San Teodoreto, solo per fare alcuni esempi, che potevano conoscere il cuore degli uomini. San Paolo il semplice, al solo scorgere chi entrava in chiesa, ne vedeva i pensieri buoni o cattivi. Scorgeva gli angeli festanti accompagnare coloro che avevano il volto sereno e i demoni trascinare con una corda passata nel naso gli individui foschi e tristi. Ancora una volta, fra il deserto dei padri e il Gargano di padre Pio non vi è soluzione di continuità nello spazio e nel tempo. Don Alessandro Lingua, penitente del frate cappuccino scrive nel suo libro Padre Pio, Credo…: “È un confessore psicologo. Intuisce dopo poche battute se il penitente è tale in sostanza o solo in aspetto. (…) conosce tutto e legge nei cuori i più intimi segreti. Una stupefacente capacità di penetrazione lo mette in grado di misurare di colpo le virtù e le debolezze dei penitenti: li affronta di giorno in giorno, tranquillo come chi non aspetta né chiede nulla a nessuno”.
Non si contano le conversioni frutto di quello sguardo che trafiggeva i cuori. L’avvocato Cesare Festa, presidente del Tribunale Massonico della Liguria, andò a San Giovanni Rotondo per sfidare le insistenze del cugino e farsi beffe del fenomeno da baraccone che avrebbe trovato laggiù. Quando padre Pio lo vide, gli si avvicinò e gli chiese: “Come, lei qua fra noi? Lei è massone…”. Tanto bastò perché, un’ora dopo l’avvocato genovese uscisse dal confessionale riconciliato con quel Dio e quella Chiesa che aveva sempre combattuto.
Come riduceva alla vera ragione i recalcitranti uomini di cultura, allo stesso modo e con lo stesso strumento, padre Pio vinceva la beata incredulità degli illetterati. Nei suoi detti e nei suoi fatti brillava l’invincibile sacra ignoranza prescritta dai Padri a ciascun uomo di Dio e sinteticamente codificata da Evagrio Pontico nel suo Trattato pratico: “La scienza di Cristo non ha bisogno di un’anima dialettica, ma di un’anima che vede; il sapere dovuto allo studio si può possederlo anche senza essere puri; la contemplazione appartiene solo a coloro che sono puri”. Nei Detti si racconta che “Un tale disse al beato Arsenio: ‘Come mai tanta cultura e scienza non ci servono a nulla e questi zoticoni di egiziani possiedono tali virtù?’. Il padre Arsenio gli dice: ‘A noi non serve a nulla la cultura mondana, ma questi zoticoni di egiziani hanno conquistato le virtù con le loro fatiche’”.
Il dialetto con cui padre Pio correggeva e insegnava, così incomprensibile al balbettare delle intelligenze moderne, nasceva da questa stessa radice, la lingua di Dio, che si manifestava nel “dire sempre la stessa cosa”. In nulla diverso dal San Francesco che ammoniva: “La molta scienza non giova alla salute spirituale; chi vuole molto sapere, deve lavorare molto e inchinare molto il capo”. E neppure distante dall’ora et labora su cui San Benedetto fondò il monachesimo occidentale. Il “guaglio’” con cui il frate di San Giovanni Rotondo apostrofava o carezzava penitenti e figli spirituali non rispondeva alle povere esigenze di un popolo di bocca buona, ma era fine e dorata calligrafia del linguaggio divino. Arte appresa attraverso un’ascesi e una preghiera per nulla inclini alle debolezze degli uomini.
Il fatto che la Provvidenza non ci lascia soli, caro Giovanni, non è attestato da qualche ecclesiastico intento a giocare improbabili partite a scacchi per la fede. Ma è testimoniato dai santi uomini di Dio che continuano a camminare sulla via giusta. Che è una sola, stretta e spesso priva di consolazioni.
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
E’ pervenuta in redazione:
Carissimo Alessandro Gnocchi,
sono un devoto di padre Pio e anche un discreto conoscitore della sua vita e della sua opera. Avevo già letto “L’ultima Messa di padre Pio” che lei aveva scritto con Mario Palmaro e ora ho visto che ha pubblicato un nuovo libro su questo grande santo. Devo dire che mi sorprende l’impostazione del suo lavoro. Per ora sono riuscito solamente a scorrerlo e devo confessare non mi è mai capitato di trovare qualcuno che paragonasse padre Pio ai padri del deserto in modo sistematico, come fate lei e padre Serafino Tognetti. Come è nata questa scelta?
Un cordiale saluto
Giovanni De Carlo
Caro Giovanni,
in effetti, può sorprendere la collocazione di padre Pio nel coro degli antichi Padri. A prima vista, ma sarebbe meglio dire “a prima svista”, potrebbe sembrare incauto l’accostamento di colui che viene giustamente ritenuto un chiarissimo esempio di fedeltà alla tradizione a coloro che sono stati presentati come modelli dagli archeologismi rivoluzionari di ogni epoca. In realtà, il deserto del IV, V e VI Secolo fu popolato da monaci dediti a tutto ciò che gli archeologismi rivoluzionari hanno sempre eliminato dai loro programmi di riforma: la rinuncia guerreggiante al mondo, il lavoro manuale, il silenzio, il digiuno, il canto dei salmi, l’orazione, la contemplazione, il sacrificio del proprio ego incenerito sull’altare del Signore. Tutto ciò che in padre Pio tocca vertici raramente raggiungibili.
L’idea di verificare tale legame è nata studiando, ma anche pregando, sui testi dei Padri del deserto e di altri autori del cosiddetto periodo patristico. Dopo aver frequentato con una certa attenzione e con un po’ di amore padre Pio, solo un’anima miope fino alla cecità non avrebbe colto l’identità perfetta delle due vie. Osservato con tale sguardo, il santo sannita si sottrae alle categorie legate al tempo, non appare più “vecchio”, “contemporaneo” o “nuovo”. È semplicemente “originario”, situato nel principio della fede in Cristo e del tempo di Cristo, e da lì parla agli uomini di ogni epoca e di ogni luogo. La cella del convento nel Gargano del XX Secolo può divenire un luogo angusto, se non la si riconduce alla sua topografia spirituale, caverna dell’antica Tebaide preparata da sempre dal Signore per ospitare il suo santo servo.
Ora, caro Giovanni, non posso scrivere tutto quanto troverà nel libro. Posso però dirle che la prima scintilla mi è scoccata sotto gli occhi verificando la completa sovrapponibilità fra certe pagine dell’Epistolario di padre Pio e alcuni passi della Scala del Paradiso di San Giovanni Climaco su temi come il desiderio della morte, la vanagloria o la penitenza. Allora, per saggiare la consistenza di questa idea, ho parlato con padre Serafino Tognetti, un monaco che conosce bene l’essenza e la storia del monachesimo e ha frequentato padre Pio anche più di me. Così è nato il libro di cui lei mi chiede notizia.
Devo dirle che, esplorando con attenzione questo territorio, ho capito perché padre Pio fosse, e sia ancora, incompreso dentro la Chiesa cattolica. Da chi ne fa un santino da rotocalco, da chi lo erige a campione di una misericordia postcattolica, ma anche da chi non ci vede altro che un esempio di reazione codina e bacchettona. Se non si lavora di fino e in umiltà, lasciandosi guidare da veri maestri dello spirito, si finisce fatalmente per cercare questo santo in luoghi spirituali in cui non è mai stato.
Un esempio da manuale di tale fraintendimento sta nel fatto che oggi, appena pochi decenni dopo la sua morte, padre Pio non è più comprensibile ai figli del suo stesso ordine, che si sono concessi al linguaggio degli uomini. “Cacciateli via”, aveva inveito il padre dalla sua Tebaide pugliese contro i giovani frati che chiedevano di scrivere le nuove Costituzioni cappuccine secondo un codice spirituale invertebrato e gradito al mondo. I suoi stessi contemporanei non capivano la durezza del suo linguaggio perché non comprendevano più la durezza della sua fede. Se si prende a misura la vita religiosa di oggi, non c’è cappuccino meno cappuccino di padre Pio. Così come, secondo la stessa cifra, non c’è francescano meno francescano di San Francesco d’Assisi. Il figlio ha seguito il destino del padre, ingurgitati, rimasticati e vomitati entrambi secondo i dettami di una religiosità mondana.
Non poteva essere altrimenti poiché il padre e il figlio avevano fatto del rifiuto del mondo il loro credo, il loro atto di sottomissione al Dio. Gli sventurati profeti della fuga in avanti non potevano, non possono, non potranno dare albergo e comprensione a chi ha scelto di radicarsi nella sorgente della tradizione monastica, di essere un antico Padre che, secondo la lingua di Dio, torna a “dire sempre la stessa cosa”.
Per nulla francescano secondo la vulgata mondana, San Francesco, fu essenzialmente un eremita che continuava a “dire sempre la stessa cosa” già detta dagli antichi Padri. Per nulla cappuccino secondo la stessa vulgata, padre Pio visse come un Padre del deserto, assediato dalle folle anelando la solitudine. Non è un caso se il frate sannita è il figlio di San Francesco che ha sentito meno di tutti la necessità di parlare del fondatore. Gli bastava la consapevolezza di bere alla sua stessa sorgente.
Prima che nelle Vite o nei Fioretti del frate di Assisi, il calco della missione di padre Pio si trova nell’Egitto del III e del IV Secolo, codificato da Sant’Atanasio nell’esemplare Vita di Antonio. “Veramente Dio l’aveva dato all’Egitto come medico” scrive il vescovo di Alessandria d’Egitto del fondatore del monachesimo. “Chi andò da lui nel dolore e non tornò nella gioia? Chi andò da lui piangendo i suoi morti e non depose subito il lutto? Chi andò da lui nella collera e non si convertì a sentimenti di amore? Chi, afflitto per la sua povertà, venne a trovare Antonio e ascoltandolo e vedendolo non disprezzò la ricchezza e trovò conforto nella sua povertà? Quale monaco scoraggiato andò da lui e non divenne più saldo? Quale giovane salì alla montagna e, veduto Antonio, non sentì subito inaridirsi i piaceri e non amò la temperanza? Quando mai andò da lui qualcuno tormentato dal demonio e non ne fu liberato? E chi andò da lui tormentato dai pensieri e non trovò la pace della mente?”.
Non le pare il ritratto di padre Pio, caro Giovanni? E poi penso a San Pacomio o a San Teodoreto, solo per fare alcuni esempi, che potevano conoscere il cuore degli uomini. San Paolo il semplice, al solo scorgere chi entrava in chiesa, ne vedeva i pensieri buoni o cattivi. Scorgeva gli angeli festanti accompagnare coloro che avevano il volto sereno e i demoni trascinare con una corda passata nel naso gli individui foschi e tristi. Ancora una volta, fra il deserto dei padri e il Gargano di padre Pio non vi è soluzione di continuità nello spazio e nel tempo. Don Alessandro Lingua, penitente del frate cappuccino scrive nel suo libro Padre Pio, Credo…: “È un confessore psicologo. Intuisce dopo poche battute se il penitente è tale in sostanza o solo in aspetto. (…) conosce tutto e legge nei cuori i più intimi segreti. Una stupefacente capacità di penetrazione lo mette in grado di misurare di colpo le virtù e le debolezze dei penitenti: li affronta di giorno in giorno, tranquillo come chi non aspetta né chiede nulla a nessuno”.
Non si contano le conversioni frutto di quello sguardo che trafiggeva i cuori. L’avvocato Cesare Festa, presidente del Tribunale Massonico della Liguria, andò a San Giovanni Rotondo per sfidare le insistenze del cugino e farsi beffe del fenomeno da baraccone che avrebbe trovato laggiù. Quando padre Pio lo vide, gli si avvicinò e gli chiese: “Come, lei qua fra noi? Lei è massone…”. Tanto bastò perché, un’ora dopo l’avvocato genovese uscisse dal confessionale riconciliato con quel Dio e quella Chiesa che aveva sempre combattuto.
Come riduceva alla vera ragione i recalcitranti uomini di cultura, allo stesso modo e con lo stesso strumento, padre Pio vinceva la beata incredulità degli illetterati. Nei suoi detti e nei suoi fatti brillava l’invincibile sacra ignoranza prescritta dai Padri a ciascun uomo di Dio e sinteticamente codificata da Evagrio Pontico nel suo Trattato pratico: “La scienza di Cristo non ha bisogno di un’anima dialettica, ma di un’anima che vede; il sapere dovuto allo studio si può possederlo anche senza essere puri; la contemplazione appartiene solo a coloro che sono puri”. Nei Detti si racconta che “Un tale disse al beato Arsenio: ‘Come mai tanta cultura e scienza non ci servono a nulla e questi zoticoni di egiziani possiedono tali virtù?’. Il padre Arsenio gli dice: ‘A noi non serve a nulla la cultura mondana, ma questi zoticoni di egiziani hanno conquistato le virtù con le loro fatiche’”.
Il dialetto con cui padre Pio correggeva e insegnava, così incomprensibile al balbettare delle intelligenze moderne, nasceva da questa stessa radice, la lingua di Dio, che si manifestava nel “dire sempre la stessa cosa”. In nulla diverso dal San Francesco che ammoniva: “La molta scienza non giova alla salute spirituale; chi vuole molto sapere, deve lavorare molto e inchinare molto il capo”. E neppure distante dall’ora et labora su cui San Benedetto fondò il monachesimo occidentale. Il “guaglio’” con cui il frate di San Giovanni Rotondo apostrofava o carezzava penitenti e figli spirituali non rispondeva alle povere esigenze di un popolo di bocca buona, ma era fine e dorata calligrafia del linguaggio divino. Arte appresa attraverso un’ascesi e una preghiera per nulla inclini alle debolezze degli uomini.
Il fatto che la Provvidenza non ci lascia soli, caro Giovanni, non è attestato da qualche ecclesiastico intento a giocare improbabili partite a scacchi per la fede. Ma è testimoniato dai santi uomini di Dio che continuano a camminare sulla via giusta. Che è una sola, stretta e spesso priva di consolazioni.
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
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