C’è tutta una serie di fenomeni, nell’attuale congiuntura ecclesiale, che stanno portando all’acme la già gravissima crisi che affligge la Chiesa Cattolica. Ci sono le comunità di adoratori della Bibbia che vorrebbero convertire perfino il Papa al loro cosiddetto cammino. Ci sono i promotori di forme di isteria collettiva che si preparano a celebrare cinquant’anni di esercizio selvaggio di pretesi carismi. Ci sono gli entusiasti dei nuovi culti sorti da un’inflazione di presunte rivelazioni private, pronti a sbranarti non appena ti azzardi ad esprimere una benché vaga perplessità in proposito. Ci sono gli assatanati della Tradizione che hanno fatto della ribellione una ragione di vita e sbraitano con impressionante rancore contro qualunque ipotesi di regolarizzazione. E così di seguito…
La lista potrebbe continuare, ma l’atteggiamento che sembra comune a tutti è una sovrana indifferenza nei confronti dell’autorità costituita – quella che, almeno a parole, riconosciamo ogni volta che, recitando la professione di fede, menzioniamo l’apostolicità come nota caratteristica della Chiesa. È pur vero che, in questo momento, l’esercizio dell’autorità ecclesiastica da parte di molti Pastori presta il fianco a più d’una critica; ma è questo un motivo per creare di fatto tante “chiese” parallele quanti sono gli orientamenti? La divisione – ahimè – è lo sport preferito del demonio, che proprio per questo (glosseranno i saputelli) si chiama diavolo. Pensate quanto sta godendo in questo periodo… e poi chiedetevi chi mai può esserci all’origine di tanta frammentazione.
So bene che sarò bersaglio di feroci maledizioni o di infallibili sentenze: lo hanno redarguito, si sta normalizzando… Come ho già scritto in altra occasione, sarei ben felice di poter parlare de visu di questi argomenti con qualcuno che sia costituito in autorità senz’essere immediatamente denunciato a Roma. Non mi interessa raccogliere consensi soffiando sul fuoco della rabbia e del risentimento altrui. Se quanto ho scritto finora, per qualcuno, è servito ad alimentarli, non me ne rallegro di certo. Gridare la propria sofferenza è legittimo; fino a un certo punto lo sono anche l’ironia e il sarcasmo che talvolta la dissimulano… ma ergersi a giudici inappellabili di tutto e di tutti è un’altra cosa. Non si può provare se non profondo dolore nell’assistere a certe reazioni scomposte, che non si addicono punto a persone colte e intelligenti; sciocche e ignoranti, le si potrebbe scusare.
Così a sofferenza si aggiunge sofferenza, a confusione altra confusione, a veleno altro veleno… e lo smarrimento dei poveri fedeli va alle stelle. Non si sarà magari inaridito, nell’ardore della battaglia, lo spirito di preghiera e di compunzione? Se per difendere l’onore e i diritti di Dio si finisce col perdere la carità, che cosa si sta veramente difendendo? Un concetto? Un’idea chiara e distinta? Deus caritas est… (1 Gv 4, 8). Non vorranno mica prendersela anche con san Giovanni? Oppure son soltanto parole…? Non è lecito sterilizzare la Sacra Scrittura, nemmeno a chi non vuole aver nulla da spartire con i protestanti. La prudenza e la fedeltà non possono degenerare in una volontà incoercibile di separazione. In fin dei conti, i modernisti più irriducibili sono finiti fuori della Chiesa seguendo la stessa via: l’attaccamento alle proprie opinioni dogmatizzate.
Quando si ha veramente a cuore il bene dei fedeli e li si vuole realmente condurre a Cristo, anziché nel proprio recinto, ci si abitua a sentire le cose dalla loro posizione, pur senza abbandonare quella che si è ricevuta da Dio. Per una volta dobbiamo assentire all’osservazione che il buon pastore sta in mezzo alle pecore; potrà pure, per accidens, prenderne inevitabilmente un po’ l’odore, ma non certo vizi e difetti: è suo compito, anzi, istruirle e guidarle. In ogni caso, dovrà avere un sesto senso (parlando fuori metafora) per il loro stato spirituale, le loro difficoltà, le loro attese, in modo da calibrare nel modo più opportuno il suo governo e il suo insegnamento. Dove c’è smarrimento, dovrà portare sicurezza; dove c’è divisione, riconciliazione; dove c’è l’errore, la verità; dove c’è il peccato, la correzione e la grazia.
Gran parte delle pecorelle, immerse in un’atmosfera nichilistica, hanno perso l’uso delle nozioni più elementari per pensare ciò che è oltre la materia e non riescono nemmeno a figurarsi che qualcosa trascenda il visibile. Sul piano morale, poi, vagano in un relativismo assoluto regolato unicamente dal “lo sento” o “non lo sento”; quelle un po’ più “formate”, invece, sono state mentalmente programmate secondo un quietismo totale che accolla al buon Dio anche i compiti dell’uomo: «Fa’ che io preghi, che io mi impegni, che io faccia il mio dovere… Così, se non miglioro, in fin dei conti è colpa tua perché non mi aiuti». «Ma datti una mossa!» – potrebbe replicare. Certo, ci vorrebbe un essere umano che, da buon educatore, Gli desse voce; ma sono pochissimi a farlo, e quei pochi, spesso, si prendono per questo pesci in faccia…
Ciò che mi sembra chiaro è che la stragrande maggioranza del gregge non potrà mai capire perché ci si accapigli con tanto accanimento fra tradizionalisti, eccetto quelle mosche bianche che sono addentro all’ambiente e che, proprio per questo, rischiano di diventare una copia deformata dei loro maestri. Certamente l’astio e la sufficienza han poco a che fare con il Vangelo, né sono compatibili con i sentimenti del Cuore immacolato di Maria, di cui pur si auspica il trionfo, magari entro l’anno. Ma come può trionfare all’esterno, se prima non glielo si permette nei cuori? E se noi per primi non ci sforziamo di conformare il nostro al Suo, come potrà trasformare quello di chi è più lontano dalla fede? Ma «ci sono ultimi che saranno primi e primi che saranno ultimi» (Lc 13, 30). Praticando seriamente l’umiltà, preghiamo – e operiamo – per essere ammessi nella categoria giusta.
Pubblicato da Elia
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