Giovanni Paolo II vide il Miracolo e disse “è la Divina Presenza”
Esiste una documentazione variegata su “i Miracoli Eucaristici”, talmente esauriente e ricca, che vogliamo parlarvi qui di ciò che accadde a Siena. La scelta cade su un particolare a noi caro: ci troviamo davanti ad una specie di cooperazione -inconsapevole se vogliamo- tra domenicani e francescani, tra i due Patroni d’Italia Santa Caterina da Siena e San Francesco d’Assisi.
È innegabile una geografia preferenziale, oseremo dire, di Dio che a talune città, a certi luoghi e paesi affidò una particolare missione da compiere e fu un segno di predilezione. Questa predilezione non deve stupirci: «E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei la minima tra le grandi città di Giuda: da te infatti uscirà il condottiero che reggerà Israele il mio popolo» (Mt.2,6).
Betlemme, Gerusalemme, Nazaret, Cafarnao, Betania, nomi che dolcificano, a pronunziarli, la mente, il cuore e le labbra: in verità, tutta la terra dei Patriarchi e dei Profeti è, di diritto, il paese del Figlio di Dio, la patria universale dei credenti. E si pensa alla Grecia di Platone e di Aristotele, a quella Roma onde Cristo “è romano” nel senso che ha voluto piantare proprio lì la tenda della Chiesa visibile con a capo il Suo Vicario, il Sommo Pontefice. E poi alle Catacombe e ai Martiri cristiani, a Cassino e a San Benedetto, a Orléans e a Santa Giovanna d’Arco, a Lourdes e alla Vergine Immacolata che richiama come alla piscina di Siloe, ogni anno, milioni di pellegrini. Senza dimenticare Fatima, in questo Centenario, un nome non casuale della piccola cittadina portoghese dalla quale la Vergine del Santo Rosario proferirà un messaggio straordinario per la vita delle Anime e della Chiesa e per il mondo intero, con la promessa del trionfo del Suo Cuore Immacolato.
Se l’Umbria è dominata dal fascino francescano, la terra dell’Arbia è chiarificata dalla Domenicana di Fontebranda, dal suo amore penante e gioioso. Tutto, dalle crete su cui sembra gravare un senso tragico di Calvario, alle torri, alle piazze, ai palazzi rossi, a strapiombo sulle valli, alle basiliche assorte e taciturne, al Duomo che si libra, con le sue guglie, come un volo d’angeli, nell’azzurro, svela palese l’anima cateriniana assetata di estasi e di martirio. Astro di massima grandezza nei cieli della santità, Caterina da Siena, Dottore della Chiesa, sembrò riassumere in sé, in una sintesi di «sangue e fuoco» due secoli d’intenso ascetismo monastico che, nato dal martirio del giovane Ansano Anicio, primo Santo e patrono della città, germogliò, solitario fiore di spigo, negli eremi agostiniani foschi e ferrigni di Lecceto e di San Leonardo al Lago, nei monasteri benedettini di Santa Bonda, di San Galgano e di Monte Oliveto.
La pietà di quei monaci ispidi e barbuti, splendenti nell’anima come fanciulli, era quella del candido di Clairvaux, l’innamorato della Vergine Santa, e la loro tenerezza si riversò nella città alta e turrita che su tre colli posa e che da allora si chiamò Sena Vetus Civitas Virginis. Alla loro Madonna del Voto, pertanto, nella battaglia di Monteaperti (1260) che «fece l’Arbia colorata in rosso» i senesi, per bocca dell’ottimo Buonaguida, consacrarono la loro città con patto irrevocabile:
«O Maria pietosissima, o consiglio et aiuto degli afflitti, aiutate: et io ti do e dono la Città di Siena con tutti gli abitanti, il contado et ogni nostra ragione: ecco io ti consegno le chiavi, guarda la tua città da tutte le rie opere. Deh! Madre pietosa, accetta questo piccolo dono della nostra buona volontà. E tu, Notaio, rogati di tale donazione, che sia perpetua durante il mondo».
Colonie di penitenti e di oranti o sparuti solitari a cui, per l’estasi e la contemplazione, bastò il pertugio di una grotta sotto la collina depelata e deserta, non solo fecero dei senesi una gente fedele e devota Madre di Dio, ma suscitarono un popolo di pittori e di artisti ai quali parve angusta la stessa città per effigiarvi le glorie di Maria. I più bei nomi dell’arte italiana, da Duccio di Buoninsegna a Simone Martini, da Pietro e Ambrogio Lorenzetti a Lippo Memmi, dal Sassetta a Sano di Pietro, da Matteo di Giovanni al Neroccio sfilano perciò nei manuali di storia e del turismo.
Ad Jesum per Mariam: se i monaci della Selva del Lago, del Monte Siepi, delle crete silenziose e spulite avevano, col loro esempio, predicato altro rifugio non esservi per l’anima che una tana e il chiostro e nessun’altra salvezza che in Maria, l’avvento della spiritualità domenicana e francescana investì come un fuoco impetuoso la città ghibellina di appassionato amore per il Cristo Crocifisso e, da mariana, la pietà dei senesi divenne cristocentrica: Santa Caterina e San Bernardino, il Sangue divino di Cristo e il nome di Gesù. E fu la grande estate del misticismo senese che non si esaurì tra l’Arbia e il mare, ma con ardore missionario, percorse e irraggiò tutta l’Europa. La Benincasa morì a Roma, l’Albizzeschi a L’Aquila.
Dio aveva scelto una città minuscola, pari, in miniatura, a un francobollo, suscitandovi Santi che sorpassano la storia: e la patria di tanti spiriti presi dalla follia celeste risultò alla fine, chiusa nella cerchia delle sue mura, con le sue stradine in penombra, scoscese e anguste, i tetti spioventi al di sopra dei quali svettano i campanili e le torri, con le piazze dei mattoni spinati, una città affrescata dagli angeli.
Se alla caduta della Repubblica (1555), si chiuse la lunga stagione dei mistici, Dio non cessò tuttavia di manifestare segni di predilezione per questa singolarissima città alla quale non mancarono, neppure nello squallido Seicento, figure di penitenti come la Venerabile Passitea Crogi, fondatrice delle Cappuccine o Sepolte di Cristo, e la Venerabile Caterina Vannini, terziaria domenicana: creature che vissero nel riflesso di un passato pieno di celesti presenze, di grande conversione e di passione-amore verso il Crocefisso.
Ma la continuità della missione salvifica che a Dio piacque affidare alla città di Santa Caterina e di San Bernardino sembrò riconfermata da uno straordinario avvenimento che, se non avesse avuto ulteriori sviluppi, sarebbe rimasto soltanto una cronaca di un furto sacrilego. Ecco i fatti.
Accadde nell’agosto del 1730: se ne conosce anche l’ora, tra le 17 e le 18 della vigilia dell’Assunta: l’ora persistente del demonio meridiano quando la calura è ancora nei campi da poco mietuti e, dentro le mura, le contrade, le strade, le case sono deserte, deserte le basiliche e le chiese, le porte socchiuse, che tutti hanno da recarsi al Duomo in osservanza all’antico decreto del 14 settembre dell’anno 1200, il quale stabiliva che i fedeli dai diciotto ai settanta anni, con a capo i loro parroci, dovessero raccogliersi in Cattedrale per deporre dinanzi all’Immagine della Vergine, patrona della città, un cero votivo di cento libbre portato su di un carro appositamente addobbato e recante bibliche figurazioni.
Da ogni parrocchia, dai chiassuoli, dai vicoli, la gente, a un festoso scampanìo, aveva seguitato ad affluire sulla via principale: si era formata la processione, poi il Duomo si era riempito di fedeli, di canti liturgici, di suoni d’organo. Approfittando di quell’ora insorvegliata nelle chiese, alcuni ladri entrarono nella basilica dei Frati Minori Conventuali, la più remota dal centro, tutta in sé raccolta, tra gli ulivi e gli orti: s’introdussero guardinghi nella cappella di Sant’Antonio dov’era custodito il Sacramento Santissimo e, col grimaldello, forzarono la porticina del Ciborio, asportandone la Pisside d’argento piena delle Ostie consacrate la mattina anche in vista della festività dell’Assunta in cui i fedeli avrebbero fatto la Comunione.
Venne la sera e si tinsero d’ocra le torri e tutto appariva normale nella cappella profanata: poi calò la notte sulle mani sacrileghe e sulla dolce basilica francescana con le lacrime d’oro delle sue stelle d’estate. Al mattino, il sacerdote, celebrando all’altare del Sacramento, si avvide che la porticina del Ciborio era aperta e la Pisside, con tutte le Ostie consacrate, scomparsa. Non c’era dubbio, si trattava di un furto: il sospetto venne, poco dopo, confermato dal fatto che una persona privata aveva rinvenuto un conopeo e una crocetta di Pisside nel tratto di strada che immette in Piazza del Campo, detto il Chiasso Largo.
La notizia passò di bocca in bocca rapidamente come quando succede una disgrazia collettiva: si sparse nei rioni e nelle contrade dove la gente umile e devota è più sensibile e fa mucchio sulla soglia di casa e commenta, discute, e soprattutto disapprova. Il fatto già di per sé tanto triste appariva addirittura uno sfregio alla festa dell’Assunta. Nonostante il furto sacrilego, per la quiete della gente, il Palio si tenne ugualmente, considerando che si correva in onore della Vergine Santissima.
Per quanto tumultuoso e vivace, il Palio non dissipò dagli animi la costernazione e lo sgomento: il Tribunale dell’Inquisizione, nella stessa mattina del 15, aveva fatto un sopralluogo in San Francesco e ordinate accurate ricerche del Sacramento e dei ladri, mentre l’Arcivescovo Alessandro Zondadari aveva indetto pubbliche preghiere di riparazione.
Non erano ancora trascorsi tre giorni quando, nella vicina chiesa Collegiata di Santa Maria di Provenzano, un chierico, certo Paolo Schiavi di Castelmuzio, dava per certo il ritrovamento delle Ostie consacrate. E ciò era avvenuto nel modo più semplice e impensato.
Durante l’elevazione a una Messa di suffragio, quel chierico si era inginocchiato davanti alla cassetta per l’elemosine, quella di destra di chi guarda l’altar maggiore, sotto i due pilastri della cupola e, stando a capo basso, attraverso lo spacco in cui s’introducono le monete, aveva visto o intravisto, nella cassetta, un che d’insolito e di bianco: con nella mente il furto di San Francesco, non aveva dubitato un attimo che si trattasse delle Ostie rubate. I presenti alla Messa avevano notato il suo turbamento, il suo precipitarsi in sagrestia a darne avviso al Rev. Girolamo Bozzegoli, sacrista della Collegiata, il suo ritornare con lui, con un drappo rosso, per coprire la cassetta e accendervi, una di qua una di là, due candele.
La notizia era uscita di chiesa e la chiesa si era gremita di popolo: quando arrivò all’Arcivescovo, sebbene tempestiva, aveva già percorso la città. Allora cominciarono a giungere, per la ricognizione ufficiale sull’autenticità delle Ostie, l’Inquisitore Generale, Padre Maestro Paolo Antonio Ambrosi della Serra di S. Quirico nella Marca, minore conventuale, con il suo Vicario e altri ministri, e il Vicario generale dell’Arcivescovo, canonico Claudio Dantini e il suo cancelliere, e – in qualità di testimoni – il proposto Pieri, il Rettore Campioni, il Primicerio Grifoni, per parte del Capitolo di Provenzano, e i Foranei Prior Pannellini e Augusto Gori Pannellini. A questi seguivano l’Ostiaio che aveva confezionato le Particole per la chiesa di San Francesco e il Padre sacrista, ai quali fu fatto deporre circa i particolari delle Ostie.
E si procedette alla ricognizione che l’Inquisitore, per ragioni d’ordine e di tranquillità, desiderava fosse segreta, ma non fu possibile tanto la chiesa era gremita di popolo e della maggior parte della nobiltà. Fu ordinato allora al Sacrista Bozzegoli di aprire la cassetta.
«Aperta con due diverse chiavi la cassetta – dice il Ragguaglio – fu veduta una gran quantità di particole nel fondo di essa, altre per aria sostenute da ragnatele ed altre nella parte inferiore della cassetta».
Di questo momento della verifica la Relazione dice: «Datosi intanto principio dai nominati dei Tribunali a detta Ricognizione, che durò per lo spazio di due ore, con più e diverse necessarissime cautele, fu aperta la consaputa cassetta ove ritrovarono quelle sacre Particole fra il denaro, fra la polvere e fra moltissimi ragnateli ».
Durante quelle due ore, le Ostie Sante furono «confrontate» con altre non consacrate fatte venire dalla chiesa di San Francesco, e non si riscontrò «alcuna differenza nella rotondità». E le une e le altre poste sul «ferro sul quale si formano» «talmente vi stavano a proporzione che non potè dubitarsi non fossero formate da detto ferro… non fossero del medesimo conio ».
Infine vennero contate e anche il numero corrispose a quello di trecentocinquantuno già deposto dal Padre Sacrista di San Francesco. Risultarono infatti «348 le intere e 6 mezze che in tutto sono 351».
La Commissione potè così concludere «che constava ad evidentiam l’identità delle Particole rubate con la Pisside» tre giorni avanti nella chiesa di San Francesco. Ripulite dalla polvere e dalle immondizie della cassetta, furono riposte in una Pisside e collocate nel tabernacolo dell’altare maggiore, in Provenzano, con ceri e fiaccole.
Seguirono ore di penitenza e di fèrvore, di grandi preparativi per la processione trionfale con il Te Deum. Siena riscopriva l’anima di Caterina che si nutriva di Eucaristia: occorreva ritrovare la purezza e il giubilo del suo cuore. L’Arcivescovo esortava perciò, con un Editto Pastorale del 17 agosto, al digiuno e alle opere di carità «per rendere – diceva – pubblica testimonianza alla Divina Maestà della religiosa gratitudine, per soddisfare, in qualche modo, all’enormissima ingiuria al Divinissimo Sacramento».
Già nell’orizzonte, si affacciava a inaridire le anime, a spegnervi ogni tenerezza, allontanandole dalle fonti della Grazia, il secolo del Giansenismo che in Toscana trovò una terra, più che altrove, ferace per l’indifferenza religiosa. Le Sacre Particole di San Francesco permanendo – da quel remoto giorno della consacrazione, vigilia dell’Assunta – per concorde dichiarazione della Scienza, sino ad oggi, incorrotte (per cui la Teologia ci assicura della presenza reale del Corpo del Signore) erano un ammonimento a non lasciarsi sedurre da «un’eresia crudele – come la chiamò il Gioberti – che spogliava il Cristianesimo di quella nota di dolcezza e di bontà che è la più divina delle sue prerogative».
Forse per sacro timore o per riverenza, non si sa bene, tuttavia le Sacre Particole, né allora né dopo, furono mai consumate e «i religiosi pertanto sembrarono i ministri della divina volontà, che se da una parte perciò conservava integre le Sacre Particole, perché l’uomo non le adibisse, dall’altra, secondo una risposta di Padre Ruelli, dimostrava che non si dovessero consumare quelle Sacre Particole che essa conservava», come per dire che era evidente che Dio, con questo prodigio, voleva impartire una sacra lezione sulla Divina Presenza reale, per ieri, per l’oggi, e pel domani, fino a quando ad Egli così piacerà..
Dopo una gara di riparazioni pubbliche e private, dati gli ultimi ritocchi agli addobbi delle strade e dei palazzi, i senesi del Settecento si apprestarono a tributare tutta la loro adorazione e devozione alle Sacre Particole, dinanzi alle quali solennemente esposte in Provenzano, sull’altar maggiore, in una grande aiuola di fiori e in un incendio di lumi, la mattina del 18 agosto, fu cantata la Messa solenne, prestando servizio la Cappella musicale della Basilica di San Francesco. Al Gloria e alla Elevazione furono sparati salve di mortaretti con grande «strepito di trombe e tamburi». Nel pomeriggio, mentre in Provenzano si cantavano i vespri, in ossequio all’Editto Arcivescovile, nell’ora stessa in cui era stato perpetrato il furto, si formò, partendo dalla Cattedrale, la prima processione.
Con in testa la Croce, subito dietro l’Arcivescovo nei sacri paramenti del Corpus Domini, le fraterie, il clero della Metropolitana e dello Spedale e una buona parte di popolo, la prima processione, cantando le litanie dei Santi, scese dunque i gradini del Duomo, imboccò Via dei Fusari e dei Pellegrini, scese in Piazza del Campo, prese il Chiasso Largo dove recente era il ricordo del conopeo rinvenuto e della crocetta della Pisside, salì a San Vigilio, e da Via Lucherini fu sulla piazza di Provenzano cordonata dagli alabardieri della Serenissima che subito fecero ala, entrò in chiesa, si perse in un mareggiare di fedeli, in uno sfolgorìo di drappi damascati, di lumi e di fiori. La chiesa era tutta un coro di voci nel suono dell’organo: dietro quel suono, l’Arcivescovo andò ad inginocchiarsi all’altar maggiore e, genuflesso, proruppe in pianto.
La processione andava intanto componendosi nell’ordine prestabilito: Frati Minori Conventuali che rinunziarono, per umiltà, alla precedenza, Cappuccini, Osservanti, altri Regolari con i propri stendardi, Clero secolare, Seminario Soleti, Collegiata di Provenzano, Clero del Duomo, Parroci della città; infine il baldacchino, portato dall’altar maggiore della chiesa di Provenzano fino alla porta della medesima dal Rettore e dai Savi dell’Opera, da questa alla porta di San Francesco da Cavalieri deputati; e dalla porta di quest’ultima all’altar maggiore di nuovo dal Rettore e dai Savi.
Ma non era facile smistare e raggruppare e mettere in ordine quella grande moltitudine di gente; finalmente apparve sfolgorante il Baldacchino: sotto il Baldacchino l’Arcivescovo che portava la Pisside con le Sante Particole. Seguivano il SS. Sacramento, cinquantuno Collegiali del Nobile Collegio Tolomei con a capo il Rettore P. Francesco Turconi, gesuita, il Seminario Arcivescovile, Cavalieri e Gentiluomini, i componenti del Senato, artisti e artigiani. Da tutte le chiese si sciolsero stormi di campane e la città, già quasi in penombra, fu presa in un’onda melodiosa e festosa a cui si associarono improvvisi spari di mortaretti, terzette, archibugi e strepito di trombe.
Per ritrovare una rassomiglianza con una processione così spontanea e plebiscitaria che, da Via Lucherini, andava percorrendo la Via dei Miracoli, la Via del Giglio, fino a San Pietro a Ovile, e un tratto di Via dei Rossi, sboccando in piazza San Francesco, bisognava tornare indietro di trecentoquarantasei anni e ricercare nelle cronache cittadine quel 5 maggio del 1384 quando, al passaggio della preziosissima testa di Caterina da Siena che il domenicano Beato Raimondo aveva portato da Roma, in un impeto di gioia, da tutte le finestre e dai terrazzi, da San Lazzaro di Via Romana, per tutta la città, fino a San Domenico, si era gridato «Osanna, o figlia di Lapa, benedetta tu che torni nel nome del Signore». Anche allora tutte le campane avevano suonato a festa tra un rullìo di tamburi e uno squillar di trombe da nessuno comandato.
In piazza San Francesco, l’enorme processione si allargò a ventaglio, dividendosi in due, per lasciarvi passare il Baldacchino delle Sacre Particole che tornavano alla propria chiesa. Poi «tutta la chiesa si riempì di torce che pareva bruciasse e la folla della gente sembrò un ardente roveto».
Dileguati gli spari dei mortaretti e la festosità delle campane, si fece nei giorni seguenti, dentro e intorno alla Basilica, quel silenzio delle vie dell’antica città, in cui si ha l’impressione vi stia per passare un angelo scalzo o un fraticello in sandali francescani.
Le Sacre Particole restarono esposte all’adorazione di una moltitudine più raccolta proveniente dai borghi e dalle campagne che andò, a poco a poco, assottigliandosi. Finché tutto tornò nell’ombra. E il tempio che aveva nascosto sotto gli intonachi i suoi capolavori d’arte nascose anche «il tesoro eucaristico» di Siena che oggi si conserva in un prezioso e artistico Ostensorio nella Cappella in cui si può osservare il pavimento a graffito del Marrina.
Se la chiesa, pur nelle sue tristi vicissitudini, aveva conservato gli affreschi, la Divina Volontà, infatti, nei suoi imperscrutabili disegni, aveva conservate inalterate le Sacre Particole, le quali per altro, per i primi cinquant’anni, non ricevettero alcuna ricognizione, anche perché nessuno pensò mai di andare a “verificare” la Divina Presenza.
La prima ricognizione fu quella del 14 aprile 1780, l’ultima quella dell’ottobre 2014 (cliccate qui per vedere il video integrale della ricognizione, è molto bello!): tra l’una e l’altra si susseguirono ben undici ricognizioni e, in più, il grande esame scientifico del 10 giugno 1914, compiuto nella Cappella detta del Seminario. Fu questo un fatto del tutto straordinario, un vero studio storico e teologico e, nel contempo, un esame microscopico e fisico, il primo con le nuove tecnologie, tutto documentato.
Da un lato, il Magistero della Chiesa e la Teologia: l’Arcivescovo di allora, Mons. Prospero Scaccia, P. Agostino Ruelli, teologo, P. Alberto Bettinger, anche lui teologo della Congregazione del SS. Sacramento, residente a Roma, P. Felice Spée, Rettore della Basilica, religiosi, canonici e parroci della città, dall’altro la Scienza: Dott. Siro Grimaldi, professore di Chimica-bromato- logica nell’Università di Siena; Comm. Luigi Simonetta, professore d’igiene nell’Università di Siena; Cav. Dott. Carlo Raimondi, professore di Materia Medica e Farmacologia; Prof. Giuseppe Toniolo dell’Università di Pisa; e molti altri chimici e farmacisti.
Dopo l’attento e scrupoloso esame microscopico e fisico dal quale le Sacre Particole risultarono in perfetto stato di consistenza, lucide, bianche, profumate e intatte, tutti furono concordi nella dichiarazione del Prof. Siro Grimaldi, per il quale «Le Sante Particole di Siena sono un classico esempio della perfetta conservazione di particole di pane azzimo consacrate nell’anno 1730, e costituiscono un fenomeno singolare, palpitante di attualità che inverte le leggi naturali della conservazione della materia organica. È un fatto unico consacrato negli annali della Scienza».
Scienza e Fede concordi, unanime la voce dei fedeli, dei sacerdoti, dei vescovi, dei cardinali e degli stessi Sommi Pontefici nel riconoscere e adorare nelle Sacre Particole (oggi in numero di 223, essendo le altre perse per sbriciolamenti e degustazioni nelle ricognizioni o somministrate a richiesta dei devoti più ammalati) un miracolo permanente, si è stabilito attorno ad Esse un culto ordinato e costante. Zelanti e gelosi custodi di tanto tesoro, i Frati Minori Conventuali hanno saputo, per il risveglio della vita eucaristica di Siena, intonare all’anno liturgico festività e date in un mirabile alternarsi di celebrazioni, di funzioni e di processioni. E curano «Il Tesoro Eucaristico», quale vero e sommo Bene della città.
Nel prodigio, pertanto, delle Sacre Particole – Sacramento dell’Amore – si riassumono e si compendiano tutte le forme dell’ascetismo e della pietà cristiana che, lungo i secoli, una meravigliosa fioritura di anime innamorate di Cristo Vivo e Vero, realmente presente in “Anima, Corpo, Sangue e Divinità”, consegnarono a una minuscola città piena, sino all’orlo, di arte e di storia.
San Giovanni Paolo II, in visita il 14 settembre 1989, dopo averle ammirate e adorate in ginocchio, ha esclamato: « E’ LA DIVINA PRESENZA! ».
Laudetur Jesus Christus
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