FEDE: QUANDO IL PASTORE VACILLA
Quando vacilla la fede del pastore. Si tratta di questo: un prete perde la fede, ma non osa confessarlo neanche a se stesso; si rende conto che tutto il modo di pensare del mondo moderno è entrato a far parte di lui
di Francesco Lamendola
Il pastore è colui che custodisce le pecore e che le guida verso i pascoli erbosi, dove possono trovare un buon nutrimento, e dove, nello stesso tempo, sono al sicuro dai pericoli, perché il pastore veglia sui di loro e, se il lupo si avvicina, o magari un intero branco di lupi, egli è pronto a intervenire per proteggerle: anche, se necessario, a costo della vita. Vi sono due tipi di pastore: il mercenario e il buon pastore. Il mercenario, se vede il lupo avvicinarsi, fugge, e abbandona al loro destino le pecorelle che gli erano state affidate; non prova rimorso, né vergogna, perché a lui non importa nulla delle pecore, ma solo della paga, e, semmai, si rammarica di aver perso la paga, non di aver perduto il gregge. Invece il buon pastore non si limita a custodire e pascolare le pecore: egli le ama, le conosce una ad una, ed esse conoscono la sua voce: si avvicinano a lui quando le chiama, obbediscono ai suoi comandi e non si allontanano, perché sentono che di lui si possono fidare, come il figlioletto si fida di suo padre e di sua madre.
Il prete cattolico è come il guardiano del gregge, e il vescovo è come il buon pastore. Se amano il gregge, si prendono a cuore la sua sorte e vigilano sul suo benessere e sulla sua sicurezza, come se si trattasse dei loro stessi figli; come se fossero, per loro, il tesoro più prezioso: Dio stesso li ha chiamati a ricoprire quella funzione, Lui li ha chiamati e loro hanno risposto; li lega una promessa indelebile, suggellata dalla discesa della grazia.
L’Ordine sacro è un sacramento e fa del sacerdote non un qualsiasi funzionario, come avviene fra i pastori protestanti, ma qualcosa di più, molto di più: un’anima che si è assunta, con l’aiuto di Dio, la custodia e, in un certo senso, la salvezza delle altre anime. Tutto quel che accadrà a queste ultime, avrà a che fare con la sollecitudine, con l’energia, con la delicatezza e con la dottrina con le quali il sacerdote avrà saputo assolvere la sua missione. Il vero pastore non ha un orario d’ufficio, è in servizio permanente, perché nemmeno il diavolo ha un orario d’ufficio, ma lavora sempre: dunque anche il sacerdote deve essere sempre pronto a soccorrere le anime, a lottare per strapparle dagli artigli del nemico.
Può accadere che anche il buon pastore attraversi dei momento di difficoltà, di crisi; che senta la sua fede vacillare, e la fiammella che la tiene viva, piegarsi sotto le raffiche di vento e minacciare di spegnersi. Forse un evento traumatico, oppure, forse, la lenta, silenziosa, micidiale opera di secolarizzazione e scristianizzazione della civiltà moderna, possono mettere seriamente in difficoltà colui che dovrebbe essere sempre saldo e pronto, perché ha la responsabilità delle anime altrui: ma chi lo aiuterà, quando sarò il suo piede a sdrucciolare sul sentiero, e quando sarà la sua anima a sbigottire, a scandalizzarsi, a trovarsi sul punto di perdere l’orientamento? Ogni sacerdote dovrebbe avere un direttor spirituale; sarebbe bene che coltivasse anche l’amicizia di qualche confratello, di almeno un sacerdote con più anni e più esperienza di lui; bisognerebbe anche che egli abbia sufficiente confidenza e amicizia col suo vescovo, da poter andare da lui e parlargli, chiedergli aiuto e consiglio, riceverne il conforto e i suggerimenti opportuni, comprese le indicazioni pratiche su come gestire quel momento di difficoltà. Potrebbe fargli bene tuffarsi con rinnovata energia nel suo lavoro pastorale; oppure prendersi una pausa di riposo e di riflessione, tornare presso la sua famiglia; oppure trascorrere un periodo in un convento, affidandosi all’assistenza dei frati e sottoponendosi a un regime di vita spirituale, silenzioso, basato sull’ascolto di Dio, sulla preghiera, sulla meditazione, sulla contemplazione, sulla lode e sul ringraziamento.
C’è una cosa, una sola cosa, che egli non deve fare mai, assolutamente, per nessuna ragione al mondo: mostrare la sua crisi di fede alle pecorelle che gli sono state affidate. Se facesse una cosa del genere, in cambio di un discutibile sollievo temporaneo, potrebbe arrecare un danno forse irreparabile ad alcune di quelle anime. La missione del sacerdote è quella di custodire, vivificare e alimentare la fede dei suoi parrocchiani, non quella di metterla in crisi, confidando loro, con imperdonabile imprudenza e leggerezza, ciò che dovrebbe tenere per sé solo. Mai e poi mai il sacerdote deve essere motivo di scandalo per le pecorelle che gli sono state affidate: dovrà rendere conto di esse a Dio, dalla prima all’ultima. Il sacerdote dà scandalo alle anime quando abusa di esse. Vi sono varie maniere di abusare delle anime, per un sacerdote. La più grave, naturalmente, la più turpe e vergognosa, è l’abuso sessuale, specialmente se si tratta delle anime di fanciulli: è difficile immaginare fino a che punto un simile comportamento susciti l’ira di Dio: sappiamo, del resto, quali tremende parole ha usato Gesù stesso a proposito dei seminatori di scandali. Tuttavia, anche rivelare i propri dubbi di fede alle anime che gli sono state affidate, e ciò, magari, proprio mentre si trovano già, per conto loro, in uno stato di crisi spirituale, significa spingere quelle anime addirittura verso la disperazione. Anche questo è un peccato gravissimo, una responsabilità terribile. Sarebbe meglio che quel sacerdote non fosse mai divenuto tale.
Nel film di Ingmar Bergman Luci d’inverno, girato (in bianco e nero) nell’ormai lontano 1963, il protagonista, il pastore luterano Tomas Ericsson, riceve la visita di un suo parrocchiano, un padre di famiglia di nome Jonas Persson, il quale è ossessionato dal timore che i cinesi scatenino una guerra nucleare che potrebbe distruggere l’intera umanità; questo pensiero lo ha talmente sconvolto da farlo scivolare in una cupa spirale depressiva, nella quale l’uomo, che pure ha un moglie devota e due bambini, non riesce ad uscire. Il pastore tenta maldestramente di confortarlo, ma, senza rendersene conto, credendo di aiutarlo, aggrava la sua angoscia e la sua disperazione, perché si mette a parlargli della sua tragedia personale, dovuta alla morte della moglie amatissima, quattro anni prima. Come se non bastasse, il pastore confida a Persson che, da quel momento, la sua fede in Dio ha cominciato a vacillare; e così, invece di ascoltare e consolare il suo parrocchiano, egli sembra andare in cerca dell’ascolto e della consolazione da parte di lui, aggravando il suo sconforto e gettandogli sulle spalle un ulteriore fardello, che costui non è assolutamente in grado di sopportare. Davanti alla pietosa autocommiserazione del reverendo Tomas, il pover’uomo, più smarrito e turbato che mai, si allontana, in preda ai suoi pensieri di morte: e, infatti, va a suicidarsi, sparandosi con il fucile. La notizia arriverà alla chiesa poco dopo; e allorché il pastore, accompagnato dalla maestra Marta (che è innamorata di lui, non ricambiata), si reca a casa della vedova, per offrirle il suo sostegno, viene cortesemente respinto. La moglie di Persson ha visto la vacuità di Ericsson e, forse, ha intuito che quell’uomo, invece di aiutare il marito, forse gli ha dato, sia pure involontariamente, la spinta decisiva verso l’abisso. Ma perfino allora il pastore, piuttosto che mostrare rimorso per la propria inadeguatezza, che, forse, ha contribuito al consumarsi della tragedia, è tutto preso dalla pietà di se stesso e della sua vita infelice, e non sa far di meglio che seguitare a lamentarsi e a piangere come un bambino fra le braccia materne dell’innamorata Marta, pur non ricambiando i sentimenti di lei.
Dicevamo che, nella società odierna, la fede di ogni cristiano è particolarmente messa alla prova, perché tutto, nella civiltà moderna, sembra congiurare contro di essa: il razionalismo e l’edonismo, lo storicismo e il sentimentalismo, il pragmatismo e l’utilitarismo. Inoltre, il diabolico consumismo fa sì che gli uomini cerchino dio nelle cose, nel denaro, nell’apparire; anche la vanità congiura contro la fede, specie nelle persone ambiziose o con pretese intellettuali, perché la cultura dominante snobba e irride la fede, sicché fin dai banchi di scuola, e, poi, dell’università, il giovane si trova alle prese con insegnanti che non credono, che non capiscono come si possa credere e che amano fare sfoggio d’intelligenza e di spirito mettendo in fila le cento ragioni per cui, ai nostri giorni, solo le vecchiette ignoranti e i pusillanimi conformisti si ostinino ancora a pensare che Dio esista e che la sua provvidenza si prenda cura degli uomini e del mondo. Il sacerdote vive in questa atmosfera, respira questa stessa aria, ascolta queste stesse voci; non è dunque strano che anch’egli sia esposto a una particolare difficoltà nel rimanere saldo nella propria fede. Si direbbe che la cultura moderna abbia definitivamente stabilito che una persona colta e intelligente non può credere in Dio, e non si prende nemmeno la briga di dimostralo: lo dà per scontato; e, dandolo per scontato, fa in modo che il credente si senta una persona assurda e di scarso valore; un sorpassato, un marginale, un abitante di un mondo a parte, che non avrebbe il diritto d’essere preso sul serio dai suoi simili, se non fosse per la loro personale cortesia e civiltà. Un tollerato, insomma; un sognatore del quale la società non sa che farsene.
Ed ecco perché tanti sacerdoti (e vescovi, e teologi), volendo reagire a questo senso di isolamento, a questo complesso d’inferiorità, si gettano con il massimo zelo nelle opere sociali, nella pastorale del lavoro, nelle opere di carità corporale – tutte cose belle e buone, intendiamoci – tralasciando, però, quasi del tutto, l’essenza della sua vocazione: la preghiera, l’amore fiducioso per Dio, la fede incrollabile che Lui, e Lui solo, può aiutarci nei passi difficili, sostenere il nostro piede vacillante, rincuorare il nostro animo affranto e turbato. Eppure, tutti i cristiani e specialmente i sacerdoti, dovrebbero sempre avere davanti agli occhi della mente il divino Maestro: Gesù, per essi, dovrebbe essere il modello perfetto e imprescindibile. Ebbene, anche Gesù ha avuto il suo momento di crisi: la sera del giovedì santo, nell’orto degli olivi, poco prima dell’arresto. Quella è stata la sua Passione interiore: ha sudato sangue e acqua (cioè, probabilmente, ha avuto un infarto del miocardio), ha pregato Dio sentendosi, per un momento, abbandonato; e si è sentito terribilmente solo, perché anche i discepoli più fidati, che aveva voluto portare con sé, per tre volte si erano addormentati, dimostrandosi incapaci di pregare e di vegliare insieme a Lui. Durante tutta l’Ultima Cena, Egli aveva istruito, confortato, rassicurato i suoi, pregato il Padre per loro, promesso loro lo Spirito Santo; ma adesso, quando ha chiesto ad essi, per la prima ed unico volta, di vegliare e pregare con lui, per non cadere in tentazione, non sono stati capaci di stargli vicino, non hanno saputo offrirgli neppure il sostegno puramente umano della loro solidarietà e della loro amicizia.
Ebbene, se Gesù è il solo, vero Maestro e modello, allora il cristiano guarda a Lui e considera cosa Egli ha fatto: ha pregato con rinnovato fervore. Ha chiesto al Padre di risparmiargli l’amaro calice ella Passione, se possibile; ma ha detto anche: Però sia fatta la Tua volontà, non la mia. Nella perfetta adesione alla volontà del Padre, Gesù – che, come uomo, aveva paura della sofferenza e della morte, ma, come Dio, sapeva ciò necessario, anzi, sapeva essere ciò la ragione della sua venuta nel mondo - ha ritrovatola fede, la certezza di essere sulla strada giusta; e ha ricevuto l’aiuto soprannaturale di cui aveva bisogno. Ed ecco, un angelo scese dal cielo e venne a confortarlo, narra il Vangelo di Luca. Dio non lascia da solo chi fa la sua volontà e ha bisogno d’aiuto, ma ascolta sempre la sua preghiera; l’uomo di fede non deve fare tutto da solo. Se dovesse o se volesse fare tutto da solo, sarebbe un superuomo, ma non sarebbe più un uomo di fede. La fede nasce proprio dal senso del limite umano e dell’umana impotenza: l’uomo, da solo, sa di non poter fare nulla (non di poter fare poco: di non poter fare nulla; lo dice Gesù nella similitudine della vite e i tralci), ma sa anche che nulla è impossibile a Dio, e che Dio risponde alla preghiera che gli viene rivolta con fede. Quante volte il Maestro ha guarito gli infermi, dopo aver chiesto loro una professione di fede nel Padre, dicendo loro: Ti sia fatto come chiedi: la tua fede ti ha salvato?
Oggi, purtroppo, vi è una maniera ancora più sbagliata, per un sacerdote, di reagire alla perdita della fede, di quella del reverende Ericsson, che sciorinò a uno dei suoi parrocchiani, il più fragile, il più smarrito, la sua angoscia esistenziale e la sua crisi di fede. Si tratta di questo: un prete perde la fede, ma non osa confessarlo neanche a se stesso; si rende conto che tutto il modo di pensare del mondo moderno è entrato a far parte di lui, e che egli non riesce più a credere al Vangelo, ad abbandonarsi fiduciosamente in Dio, perché gli sembrerebbe, così facendo, di rinunciare alla sua razionalità, di scivolare nella “superstizione”. D’altra parte, egli vede e prende nota di quel che accade introno a lui, nella Chiesa cattolica: vede che molti altri, non solo preti, ma anche vescovi e cardinali, manifestano gli stessi sintomi d’irrequietezza, d’insofferenza; e nota che essi hanno trovato una formula che permette di salvare capra e cavoli, la fede e la mancanza di fede: la formula del “cristianesimo maturo”. No, non è vero che essi hanno perso la fede; al contrario, l’hanno approfondita. Leggendo meglio il Vangelo e meditando su di esso, hanno capito che le cose non sono come il Magistero le ha finora insegnate; che la Rivelazione non è quella cosa che un tempo si imparava col catechismo, con i suoi dogmi, la sua dottrina, le sue certezze, ma è un qualcosa di fluido, di personale, che deve essere adattato ai tempi, tenendo conto dei cambiamenti culturali. Ed ecco il prodigio: la perdita di fede si trasforma in una fede più alta, più sofferta, più vissuta: basta togliere dal Vangelo tutto quello che dà fastidio, e affermare che si tratta di miti, di espressioni figurate, da non prendersi alla lettera. Via i miracoli, dunque; via il soprannaturale; via il Peccato originale, o, almeno, le sue conseguenze; e la vita eterna, chissà. L’inferno, poi, sicuramente no. Il diavolo, sicuramente no. L’uomo è fondamentalmente buono, e Cristo è venuto solo a dargli un aiutino.
E così questi preti e questi vescovi modernisti entrano nell’apostasia, ma senza dichiararlo, senza riconoscerlo; e, quel che è peggio, spingono nell’apostasia tutto il popolo cristiano. Stiamo assistendo ad una apostasia di massa provocata dalla cattiva coscienza di quei preti, come Hans Küng, tanto per fare un nome (ma il loro numero, ormai, è legione) che hanno peso la fede, ma non hanno né l’umiltà di pregare e chiedere aiuto a Dio, né, piuttosto che dare scandalo, il coraggio di rinunciare al sacerdozio e chiedere la remissione allo stato laicale. No, essi hanno voluto conservare le loro parrocchie, le loro diocesi, le loro berrette cardinalizie; hanno voluto seguitare, come prima, a predicare, ad ammaestrare, a spiegare il Vangelo: solo che hanno incominciato a farlo a modo loro, non secondo la dottrina cattolica, ma secondo una dottrina nuova, di loro invenzione: ciascuno per suo conto, in ordine sparso. Ciascun sacerdote e ciascun vescovo, oggi, si sente libero e in diritto di modificare, ritoccare, aggiustare il Vangelo, e proporre che la Chiesa dovrebbe fare questo, dovrebbe accettare quest’altro, “aprendosi” al mondo sempre di più; e si sente libero di fare a meno della Tradizione, proprio come i protestanti. Non deve stupire che essi parlino così poco, ormai, del peccato, del giudizio e dell’inferno; che ridano del diavolo, della tentazione e della possessione; che si facciano beffe degli esorcisti e degli esorcismi: hanno perso la fede, e la loro fede perduta, morta, imputridita, manda cattivo odore, ma essi non se ne rendono conto. Ben decisi a restare nei loro uffici, ad amministrare i sacramenti come nulla fosse, mettono, però, nei loro gesti e nelle loro intenzioni, un atteggiamento nuovo: quello del dubbio, della critica, del sospetto. Riducono tutto a simbolo, perché, in fondo, non credono più. Non credono che, nell’Eucarestia, si rinnovi il Sacrificio di Cristo, necessario per la salvezza degli uomini: pensano di “commemorare” l’Ultima Cena, e quasi, quasi, danno più importanza alla cerimonia della lavanda dei piedi, da parte del papa, il Giovedì santo, che al mistero eucaristico. Sono apostati, ma non convinti: non hanno abbastanza onestà e abbastanza coraggio da guardarsi dentro sino in fondo. Preferiscono accusare gli altri, quelli che essi, con sommo disprezzo, chiamano “cattolici tradizionalisti”, di non capire, di chiudersi, di rifugiarsi nel passato; e non vedono ciò che vedrebbe anche un bambino: che duemila anni di Magistero e di storia della Chiesa, duemila anni di sana teologia cattolica, sono lì a condannarli, a condannare le loro interpretazioni moderniste, a condannare la loro ispirazione progressista, perché, nella fede, non c’è proprio alcun “progresso” da fare, in senso storico, semmai in senso spirituale, ma quello non richiede null’altro che preghiera, preghiera e ancora preghiera. Ma quando pregano, costoro? Sono sempre indaffarati, sempre di corsa, non hanno tempo neanche per ascoltare i drammi di coscienza dei loro parrocchiani, i dubbi dei loro fedeli: sono troppo impegnati a tenere corsi di “accompagnamento” per le persone omosessuali, attività di accoglienza per i “migranti”, corsi di formazione sociale, politica ed economica. Per la preghiera, restano solo gli avanzi. E quando un prete, come un qualsiasi fedele, smette di pregare, prima o poi perde il contatto con Dio: cioè perde la fede.
Quando vacilla la fede del pastore
di
Francesco Lamendola
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