QUINTO VANGELO DI DE ANDRE'
È arrivato il quinto vangelo: secondo De André. Ai 4 Vangeli canonici, ormai un po’ troppo vecchiotti non più adeguati alla mentalità dell’uomo moderno se ne è affiancato finalmente un altro, assai più spigliato ed elastico
di Francesco Lamendola
Ai quattro Vangeli canonici, ormai un po’ troppo vecchiotti e non più sufficientemente attuali, non più adeguati alla mentalità dell’uomo moderno – perché, come è noto, è il vangelo che deve adattarsi ai modi di sentire e di pensare degli uomini, e non viceversa, come erroneamente ha creduto, per molto tempo, la Chiesa – se ne è affiancato finalmente un altro, assai più spigliato ed elastico, meno serioso, meno brontolone, più sorridente e più invitante, più in linea con questi nostri tempi giocosi e con questa nostra società intelligente ed ironica, che non può accontentarsi, come hanno fatto le passate generazioni, di credere senza vedere, e tanto meno di credere nell’invisibile. Più che affiancato, il nuovo vangelo si è gradualmente sostituito a quelli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, come del resto era giusto che avvenisse, dato che noi siamo figli della civiltà del computer e della bioingegneria, non siamo più figli di una società di pescatori e di pastori, e ci troviamo a disagio con quelle parabole che parlano di pesche miracolose e di campi di grano infestati dal loglio. Ma i nostri bambini non hanno mai visto un pesce vivo, figuriamoci una pecora, e i campi di grano li vedono solo dietro i guard-rail dell’autostrada, quando finisce la scuola e si va in vacanza. Possiamo perdonare ai Vangeli di non essere dei film d’animazione, con tanto di effetti speciali, ma non di parlare un linguaggio obsoleto, con metafore e allusioni di una società patriarcale antica di duemila anni. Ed ecco qua pronto il nuovo vangelo, il quinto, quello che fa per noi: il bello è che l’avevamo già sotto il naso da parecchi anni, però non ce n’eravamo accorti.
Ora, per fortuna, se ne sono accorti i preti progressisti, come don Andrea Gallo, e gl’intellettuali un tempo fuori dal coro, come Franco Cardini; ma, quel che più conta, se n’è accorto il papa Francesco, questo papa venuto dalla fine del mondo, con la mente così felicemente sgombra dalle sottigliezze, dai retaggi ideologici, e, diciamolo pure, dai pregiudizi di una chiesa così antica, come quella europea, e italiana in special modo, con due millenni di storia sulla groppa; mentre l’Argentina è un Paese giovane, dagli spazi sterminati (e le cui spiagge non hanno mai visto lo sbarco d’un migrante, dico uno, in tutta la loro storia); insomma, l’uomo giusto per far pizza pulita di vecchie abitudini ormai stantie, ormai superate, e per immettere una potente ventata d’aria fresca nell’atmosfera un po’ asfittica di questa nostra vecchia chiesa cattolica…
L’autore del quinto vangelo? Ma è Fabrizio De André, naturalmente. Dei cui meriti artistici e musicali non vogliamo qui occuparci – è un lavoro che lasciamo volentieri ai musicologi e agli storici del costume -, limitandoci strettamente, invece, agli aspetti teologici. Sì, teologici: e l’espressione non sembri esagerata, e neppure subdolamente ironica. Noi moderni non possiamo più studiare la teologia sulle opere di sant’Agostino o di san Tommaso d’Aquino; e nemmeno, se Dio vuole, sui quelle di Romano Guardini o di Antonio Livi; meno ancora sulle encicliche di Pio IX, Pio X, Pio XII o Benedetto XVI (figuriamoci: il Sillabo, la Pascendi, roba così… improponibile). Fabrizio De André, nel 1967, al ritorno dai funerali di Luigi Tenco, scrisse la canzone Preghiera in gennaio, che, insieme alla canzone Si chiamava Gesù, è uscita nei negozi di dischi in quello stesso anno, per la Bluebell Records, in formato 45 giri (ristampata nel 1970 dalla Produttori Associati) e che rappresenta, se così possiamo esprimerci, il vertice e la summa del pensiero teologico del cantautore genovese, al culmine di una parabola che vede altri spunti e altre allusioni a Gesù e alla religione cristiana, nel corso della sua precedente opera (Preghiera in gennaio è stato l’undicesimo 45 giri di De André), e anche di testi esplicitamente dedicati a questo soggetto, come lo spiritual intitolato Dio del cielo. Rispetto ad altri scrittori e artisti che pure hanno voluto dire la loro su Gesù Cristo, ad esempio Pier Paolo Pasolini, che gli ha dedicato il film Il Vangelo secondo Matteo, le due canzoni di De André, Preghiera in gennaio e Si chiamava Gesù, segnano un salto di qualità: infatti egli non si è limitato a ricamare sulla figura già nota del Cristo, non ha preso come base i quattro Vangeli canonici, ma ha voluto, intenzionalmente e deliberatamente, costituirsi, egli stesso, come l’autore e il banditore di un nuovo vangelo: il vangelo secondo me, perfettamente in linea con le tendenze della teologia progressista e modernista scaturita, dal Concilio Vaticano II, sotto il nome di “svolta antropologica” (alto patrono: il teologo Karl Rahner, eminenza grigia di tutta l’elaborazione dei documento conciliari): non bisognava più pensare la teologia partendo dalla Parola di Dio, ma dal punto di vista dell’uomo, il destinatario di quella Parola. Il punto d’arrivo (per adesso) di questa linea è stato recentemente toccato da padre Arturo Sosa Abascal, nuovo generale dei gesuiti (per volontà di papa Francesco), il quale ha testualmente affermato che noi non sappiamo cosa abbia realmente detto e fatto Gesù, perché, ai suoi tempi, non esisteva il registratore, e dunque dobbiamo ripensare e reinterpretare radicalmente i Vangeli, dei quali, forse, fino ad oggi non abbiamo compreso l’autentico messaggio. Quest’ultima conclusione non l’ha detta esplicitamente, l’ha lasciata implicita; ma è ovvio che, se non sappiamo cosa ha davvero detto Gesù, e se non possiamo fidarci di quel che dicono i Vangeli, ne deriva che è necessario rivedere tutto ciò che, su di Lui, credevamo di sapere.
Padre Abascal, sudamericano come il papa (venezuelano, per la precisione), probabilmente non è abituato alle finezze, ai dettagli, alle sfumature in cui s’invischiano, e, sovente, si smarriscono, i teologi europei, figli della tradizione di Agostino e di Tommaso e non della Conferenza di Puebla e della teologia della liberazione. Sta di fatto che non sembra averlo sfiorato il pensiero che le sue parole suonano come una liquidazione in blocco di duemila anni di storia della Chiesa e di dottrina cattolica, e che, a questo punto, il cattolicesimo, anzi, il cristianesimo tutto quanto, è da riscrivere, o forse da reinventare, magari di sana pianta. Sì, questi sono pensieri ingombranti e fastidiosi, che possono venire solo a una mente europea, abituata a pensare dieci volte una proposizione teologica, prima di buttarla lì; ma si vede che non ha toccato padre Abascal, secondo il modello di papa Francesco, il quale nelle quotidiane omelie di santa Marta, non si può dire che rimugini troppo a lungo i suoi pensieri, prima di esternarli con la massima naturalezza e immediatezza, anche quando appaiono all’uditorio sconcertanti, paradossali e, qualche volta, perfino pericolosamente prossimi all’eresia. Ma, si sa, queste sono fisime degli europei, ossia di quei cattolici che hanno troppi secoli di storia alle spalle, troppe dispute dottrinali, troppi cavilli e troppo arzigogolare teologico; mentre i teologi della liberazione sudamericani, i papi argentini e i gesuiti venezuelani, non badano tanto a simili inezie: dicono quel che gli frulla per il capo, senza tante cerimonie, senza preamboli, e accada quel che deva accadere, o la va o la spacca.
Dunque, dicevamo che il vangelo secondo De André, dopo mezzo secolo esatto (1967-2017), è giunto ad essere adottato quasi ufficialmente dalla neochiesa, o contro-chiesa, modernista e progressista: ciò che era nei sogni di qualche pioniere un po’ isolato, come il “rosso” don Andrea Gallo, grande amico di rivoluzionari e transessuali, abituato a salutare con il pugno chiuso e a mostrarsi in pubblico con un mozzicone di sigaro all’angolo della bocca, stile Clint Eastwood in Per qualche dollaro in più, e che adesso si va concretizzando per la gioia di qualche altro prete di strada, amico di peccatori ed emarginati, come don Vinicio Albanesi, e di qualche biblista e teologo erede del pensiero di padre Turoldo, come Enzo Bianchi (che padre, per inciso, non è, non essendo affatto un sacerdote cattolico, anche se si veste più o meno come se lo fosse), ora si è finalmente realizzato, o si sta felicemente realizzando,beninteso s e il diavolo non ci mette la coda (l’immagine è tratta da un pensiero di Enzo Bianchi, appunto; che chi si oppone alle riforme di papa Francesco, è, in un modo o nell’altro, uno strumento del demonio). Un bel progresso, rispetto agli esperimenti artigianali di Pasolini o di qualche altro: qui non si tratta di rielaborare ciò che i quattro evangelisti ci hanno tramandato dell’immagine del Cristo, bensì di creare un’immagine nuova, sostituendo un pensiero teologico a quello sinora fissato dal Magistero della Chiesa. Si tratta di costruire, o ricostruire, un’immagine del Cristo che risponda ai bisogni, ai desideri, alle aspettative dell’uomo moderno; un vangelo misericordioso, soprattutto, nel senso bergogliano del termine: cioè dove tutti sono perdonati e tutti sono accolti, o meglio cooptati, in cielo, anche se hanno vissuto da peccatori per tutta la vita, e anche se non si sono mai pentiti dei loro peccati. Diciamo “cooptati” perché, a rigore, un siffatto peccatore è evidente che non vuole andare in paradiso; ma non importa: De André ce lo vuol mandare lo stesso: e ce lo manda. Quel che i “cattolici” buonisti e progressisti non arrivano a capire, infatti, né mai capiranno, è che non è onesto, né coerente, pretendere che vadano in cielo quelli che il cielo lo hanno rifiutato; e che l’inferno esiste proprio perché vi sono dei peccatori i quali, fino all’ultimo, con il loro estremo lampo di lucidità e di volontà, rifiutano Cristo e il suo Vangelo. In pratica, quel che non riescono a capire è la tremenda responsabilità che il libero arbitrio implica per l’uomo, insieme alla straordinaria bellezza e alla suprema dignità che gli conferisce, unico fra tutte le creature. L’uomo, infatti, è la sola fra tutte le creature che può, volendo, perdersi; ma costoro, i cattolici buonisti e progressisti, non ci stano, s’indignano, si scandalizzano, ed esclamano, levando altissime strida e lacerandosi le vesti come Caifa nella sala del Sinedrio: Ma come! Dio, che è così’ buono, volete forse che mandi qualcuno all’inferno? Giammai! Anzi, sappiate per certo che l’inferno non esiste, NON PUÒ ESISTERE, perché la sua esistenza sarebbe in palese contraddizione con la bontà e la misericordia di Dio (e tiriamo pure un rigo sulla sua giustizia, anche se è intuitivo che non può esserci misericordia che contraddica il principio di giustizia, la quale è dare a ciascuno quel che gli è dovuto, secondo i suoi meriti). Così dicono, con l’unico neutrone che vagola nei loro minuscoli cervelli: arrivare a comprendere che qui non è Dio a mandare all’inferno proprio nessuno, ma è l’uomo che sceglie liberamente l’inferno, come rifiuto totale e radicale di Dio, è cosa che non può albergare nelle loro teste e nelle loro anime tanto sensibili e delicate…
Dice, dunque, Fabrizio De André, in Si chiamava Gesù (e lo dice con quella sua voce calda, armoniosa, bellissima, e con quel timbro solenne, proprio da prete che sta tenendo un sermone sul pulpito, in tempio di quaresima): Venuto da molto lontano, / a convertire bestie e gente (anche le bestie? Convertirle? Ma dunque le bestie ragionano? Dettagli, quisquilie: non facciamo i pignoli, non formalizziamoci per simili particolari…), non si può dire che non sia servito a niente, / perché prese la terra per mano (…) Non intendo cantare la gloria / né invocare la grazia o il perdono / di chi penso non fu altri che un uomo (…). E morì come tutti si muore / come tutti cambiando colore / non si può dire che sia servito a molto / perché il male dalla terra non fu tolto. / Ebbe forse un po’ troppe virtù, / ebbe un nome ed un volto: Gesù. / Di Maria dicono fosse il figlio / sulla croce sbiancò come un giglio. Come si vede, De André insinua dei dubbi sulla madre di Gesù; dice che non intende invocarlo, né chiedere la sua grazia o il suo perdono, perché era solo un uomo, non Dio; che non cambiò il mondo – fu un fallito, dunque: un sognatore e un fallito -, e che morì come muoiono tutti gli altri uomini; ma la cosa più importante, crediamo, è l’affermazione che ebbe forse un po’ troppe virtù. Questo, in fondo, non piace ai cattolici modernisti e progressisti, e ai non cattolici che però, come De André, non rinunciano a dire come vorrebbero che Gesù sia stato, o come si dovrebbe credere in lui: la perfezione di Gesù. Se almeno gli si conoscesse qualche vizio, qualche umana debolezza… Infatti, un Gesù perfetto, un Gesù che dice ai discepoli: Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro nei cieli, è un Gesù coerente, e quindi abbastanza autorevole da pretendere che chi ascolta la sua parola, si sforzi di metterla in pratica, come ha fatto Lui stesso con la volontà del Padre suo. Ma i cattolici modernisti e progressisti non amano confrontarsi con un simile Gesù, che poi è il Gesù dei quattro Vangeli canonici; preferiscono il Gesù di De André, perché, in tal modo, possono continuare a vivere alla loro maniera, cioè in modo sregolato e immorale, senza sentirsi in errore. E nelle Preghiera in gennaio, De André dice ancora: Quando attraverserà / l‘ultimo vecchio ponte / ai sucidi dirà / baciandoli alla fronte: / Venite in Paradiso, / là dove vado anch’io, / perché non c’è l’inferno / nel mondo del buon Dio. Ecco, dunque, chiarita la fonte da cui i teologi modernisti e progressisti hanno tratto la convinzione che l’inferno non esista, a dispetto dei moltissimi passi del Nuovo Testamento in cui si afferma il contrario, molti dei quali sono discorsi di Gesù in persona: la teologia di Fabrizio De André. Essa è entrata nella pastorale e nella catechesi di centinaia di preti come Andrea Gallo, e anche di parecchi vescovi e cardinali, nonché di pseudo teologi partoriti dalla “svolta antropologica”. Niente inferno, perché la sua esistenza è impensabile nel mondo del buon Dio. Quando ci si vuol fabbricare un mondo a misura dei propri vizi, allora ci si ricorda che Dio è “buono”, e si dice “il buon Dio”, un po’ come si dice: “quel buon uomo”. Laddove si sa benissimo che dire “buono” di qualcuno, quando si vuole ottenere da lui uno sconto, una spinta, una raccomandazione, equivale a considerarlo un po’ fesso…
È arrivato il quinto vangelo: secondo De André
di
Francesco Lamendola
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.