DIAVOLO E FILOSOFI PROGRESSISTI
No cari filosofi e teologi progressisti non si cancella il diavolo con un tratto di penna. Anche il Papa ignora l’esistenza del Male un sospetto non sarà questa la strategia vincente dell’antico Avversario farsi credere defunto
di Francesco Lamendola
Straordinari, questi filosofi progressisti e questi teologi modernisti: pieni di zelo per la giustizia, investiti (da se stessi) della sacra missione di rendere il mondo migliore di quel che è, eliminando tutto ciò che ritarda l’avvento del bene, della pace, della verità, ossia tutto ciò che sa di superstizione, di oscurantismo, di medioevo, si credono onnipotenti e pensano che basti un tratto di penna, ovviamente la loro, per far giustizia del superfluo e del negativo, ragion per cui si avvalgono con autentica gioia di questa loro sovrumana facoltà, come se avessero fra le mani una vera e propria bacchetta magica, o la lampada di Aladino.
Di solito è lo scrittore, e specialmente il poeta, che soffre di questa sindrome di onnipotenza: crede che basti padroneggiare il linguaggio per creare il mondo, per farlo apparire o per farlo scomparire, secondo il suo estro e la sua ispirazione; artefice della parola, alla quale conferisce i significati e i poteri che gli pare e piace, si sente come il dio di un nuovo logos, come il demiurgo di un universo di parole che restituisce ordine e senso ad un mondo disordinato e irrazionale, e quindi che crea, o modella, un mondo migliore di quello esistente, nel quale, come è noto, deplorevolmente regnano il disordine e l’assurdità.
Da qualche tempo in qua, tuttavia, si nota che una tale sindrome si è diffusa anche tra i filosofi, seguaci di una qualche forma, più o meno rielaborata, di heideggerismo, e tra i teologi, i quali, avendo rotto le pastoie del tomismo e ogni altro residuo della Tradizione, corrono ormai a briglia sciolta verso cieli nuovi e terre nuove, seguendo il modello affascinante del vangelo secondo me, più che mai smaniosi di porre rimedio alle storture e alle alienazioni che secoli di (non troppo sacro) magistero, da parte di una chiesa brutta e cattiva, alleata dei potenti e nemica dei poveri, hanno creato, e di restituire la fede cristiana alla sua purezza evangelica e alla sua bellezza originaria. E da dove partire, in quest’opera benemerita di purificazione e di rinnovamento, se non dalla figura del diavolo, una tipica creazione della teologia retriva del passato, collusa con i ricchi e con gli sfruttatori, che l’ha utilizzata precisamente per fare da spauracchio al popolo sfruttato, e soffocare sul nascere la sua sacrosanta (quella sì) domanda di giustizia?
Un tipico esempio di questa nuova maniera d’intendere la filosofia e la teologia è offerto dalla autoproclamata Nuova Utopia di Arrigo Colombo, anima del Centro interdipartimentale di Ricerca sull’Utopia dell’Università Statale del Salento-Lecce, nonché fondatore – niente di meno - del Movimento per la società di giustizia e per la speranza e autore del libro L’Utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia (che lui stesso definisce “fondamentale”), del 1997, nonché di una trilogia formata dai volumi La Nuova Utopia. Il progetto dell’umanità, la costruzione di una società di giustizia; La società di giustizia. Ciò che l’umanità ha progettato nel tempo e ciò che sta costruendo, einfine La Chiesa, la sua defezione dal progetto evangelico di comunità fraterna e dal progetto e processo di liberazione dell’umanità. Intimiditi dalla grandiosità altisonante di questi titoli e di questi concetti, pieni di ammirazione per un uomo che ritiene d’essere il nuovo profeta di una società, di una chiesa e di una umanità completamente rinnovate e finalmente ritornate sulla retta via della giustizia, ci siamo affrettati ad andarci a leggere quel che ne pensa un così eminente filosofo e teologo a proposito del diavolo, ultimo residuo della mentalità oscurantista e reazionaria, nella conclusione di un suo studio specifico sulla figura dell’antico Nemico. Ed ecco cosa abbiamo appreso, per nostra edificazione e illuminazione (da: A. Colombo, Il Diavolo. Genesi, storia, orrori di un mito cristiano che avversa la società di giustizia (Bari, Dedalo, 1999, p. 195):
Non senza timore e tremore ho scritto e riscritto questo libro. Con gioia certo, soprattutto con gioia; con quella che proviene dall’amore della verità, dalla sua ricerca, dalla libertà creativa dello spirito, dalla consapevolezza di un processo di liberazione dal male, dal principio del male. LIBERARSI DAL diavolo, aiutare l’umanità, la cristianità soprattutto, a liberarsi dalla mitica credenza in questo personaggio malefico che domina, assedia, assale l’uomo, male insuperabile, predominio del male nel mondo, impotenza dell’uomo a costruire la società di giustizia, la società fraterna.
In effetti, era quasi superfluo leggere l’intera opera, visto che già il titolo – come nel caso degli altri volumi di questo autore, non a caso lunghi mezzo chilometro – diceva e chiariva tutto, cioè che il diavolo, da pessimo soggetto qual è, anzi, quale non è, dato che non esiste, ha avuto la scellerata idea di darci a intendere, per un paio di millenni, di essere qui vicino a noi, intorno a noi, e di assediarci con le sue spire malefiche; e lo ha fatto, o glielo hanno fatto fare, con malizia sopraffina, cioè al preciso scopo di “avversare la società di giustizia”, la quale, a quanto è dato di capire, è inscritta nei cromosomi dell’umanità e niente potrà impedirne la felice realizzazione, ora che quell’orribile mito è stato gioiosamente rimosso, e il cammino intrapreso dai figli di Adamo ed Eva potrà, per merito di filosofi come Arrigo Colombo, finalmente riprendere verso la sua infallibile meta. Il fatto che i quattro Vangeli e tutti gli altri testi del Nuovo Testamento (oltre a molti dell’Antico), parlino del diavolo come di un essere assolutamente reale, e che descrivano perfino esorcismi e confronti sostenuti da Gesù Cristo con lui, è, evidentemente, del tutto irrilevante: che saranno mai simili bazzecole, per la teologia modernista e per la filosofia impegnata nella missione di riportare l’umanità verso la giustizia, la pace e la solidarietà fraterna? E che cosa saranno mai le misere opinioni di sant’Agostino, di san Tommaso d’Aquino, o le esplicite testimonianze di piccoli santi quali Francesco d’Assisi e Pio da Pietrelcina, gente dappoco, che non leggeva libri, tranne, forse, il breviario? Quanto alle visioni di Ildegarda di Bingen o di Teresa d’Avila, che vuol dire?, sono pur sempre donne, come anche suor Faustina Kowalska e suor Lucia dos Santos: e le donne, lo sanno tutti, sono un tantino fantasiose, oltre che eccessivamente impressionabili. Altrettanto irrilevante è la possibile obiezione che, nel Progetto Utopia di Colombo, si direbbe proprio che l’umanità possa far tutto da sola, instaurare il bene e la verità; ma, a quel punto, non si capisce che cosa sia venuto a fare sulla terra un certo Gesù Cristo: forse è venuto a redimere i polli o i cagnolini, visto che gli uomini, di lui, non hanno affatto bisogno; non, comunque, in un senso soprannaturale. Certo che qui sorge un’altra piccola difficoltà: ossia non si capisce con quale diritto un filosofo viene a dire che la Chiesa si è allontanata dal progetto evangelico di comunità fraterna, e chi o cosa lo abbiano investiti della missione di rimetterla in carreggiata; avevamo infatti capito, o creduto di capire, che la Chiesa è nata proprio dalla volontà di Cristo di annunciare al mondo intero il suo Vangelo, basato sulla necessità e imprescindibilità della sua Redenzione: Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me, credevamo di aver letto, appunto, nel Vangelo. Ma forse ci siamo sbagliati, o abbiamo preso quelle parole troppo alla lettera; forse ci siamo lasciati influenzare eccessivamente da san Paolo, il quale ha dichiarato che, senza la Resurrezione, la nostra speranza è vana, e noi restiamo nella morte e nel peccato. Ora, però, per nostra fortuna, siamo stati edotti che le cose non stanno proprio in questi termini, e che noi stessi possiamo realizzare la speranza (con la lettera minuscola) e la giustizia (sempre con la minuscola), cioè che possiamo fare quel che diceva Cristo, ma meglio di come lo diceva e lo pensava lui, o, quanto meno, meglio di come sta scritto nella Bibbia, manipolata a fondo dai soliti preti collusi col potere politico ed economico. Non possiamo nascondere che tutto ciò ci ricorda vagamente qualcosa, a noi che abbiamo più di cinquant’anni: ci ricorda una vecchia utopia (con la minuscola) che andava per la maggiore fra gli anni Sessanta e Settanta del ‘900, per poi smorzarsi e dissolversi ingloriosamente; ma, evidentemente, qualcuno non se n’è ancora persuaso, e, mescolandola al Vangelo di Gesù, magari un vangelo (con la minuscola) rivisto e corretto in modo opportuno, ha pensato bene di riscaldarla e servircela di nuovo nel piatto, come se fosse una strepitosa novità.
Non sarebbe certo questo l’unico caso in cui si manifesta un tratto caratteristico degli intellettuali progressisti e modernisti di casa nostra: il fatto di credersi all’avanguardia, e di guardare con sussiego, dall’alto in basso, tutto ciò che non si accorda o non si assoggetta alla loro visione del mondo; ma di essere, in realtà, in ritardo di almeno mezzo secolo rispetto a tutto quel che è successo e che succede nel mondo, cultura e religione comprese, senza però essersene minimamente accorti, anzi, più convinti che mai che il mondo attenda da loro la parola risolutiva, la parola di salvezza, che darà inizio alle magnifiche sorti e progressive, tanto per la società laica, quanto per la chiesa cattolica (quella di papa Francesco e di monsignor Paglia, evidentemente: gnostico-massonica, relativista, internazionalista e neomarxista), nonché l’umanità intera. Le poche righe del libro di Arrigo Colombo, che abbiamo sopra citato, contengono almeno una trentina di topoi progressisti e politically correct, i quali stanno in piedi unicamente per la buona volontà di chi li ha concepiti e non certo per la bontà dei ragionamenti su cui si reggono; anzi, sarebbe più giusto dire che non c’è, in quelle righe, neppure l’ombra di un ragionamento, per non dire di una mentalità filosofica: nulla di nulla, se non alte e ispirate declamazioni a proposito della verità, della giustizia, della pace, e così via. A questo modo, chiunque può dirsi filosofo; ma tant’è: la qualifica di “progressista” funziona, dagli anni ’60 in poi (e funziona ancora, sia pure sempre più debolmente) come un talismano, come un lasciapassare, come un attestato di verità e di serietà, per cui sarebbe di cattivo gusto andare a guardar troppo per il sottile quali contenuti filosofici vi siano in un tale profluvio di buone, anzi, di ottime intenzioni a proposito d’una società più giusta e di una chiesa più cristiana.
Non senza timore e tremore ho scritto e riscritto questo libro. Con gioia certo, soprattutto con gioia, dice il Nostro. Però, a dispetto della citazione kierkegaardiana, invano si sfoglierebbero le migliaia di pagine del corpus delle opere di Kierkegaard, Diario compreso, alla ricerca di un concetto analogo: cioè che il filosofo deve scrivere “con gioia”, piuttosto che con rigore e con coerenza di ragionamento: in Kierkegaard, la gioia non è una categoria filosofica.
Con quella (gioia) che proviene dall’amore della verità, dalla sua ricerca, dalla libertà creativa dello spirito, dalla consapevolezza di un processo di liberazione dal male, dal principio del male. Qui si passa all’enfasi auto-celebrativa più smaccata: vorremmo noi arrossire al posto di chi si vanta così delle proprie benemerenze in fatto di amore della verità, di libertà creativa dello spirito, di consapevolezza di un processo di liberazione dal male che è, poi, liberazione dal (falso) principio del male, cioè dall’idea del diavolo. Siamo così all’antica, che ci parrebbe più giusto attendere le lodi dagli altri, magari dai lettori, invece di farsele da soli; ma non sottilizziamo: stiamo parlando cose di troppa importanza, e cioè della liberazione dell’umanità dal male, niente di meno.
Ed ecco la missione del filosofo (e del teologo modernista):LIBERARSI DAL diavolo, aiutare l’umanità, la cristianità soprattutto, a liberarsi dalla mitica credenza in questo personaggio malefico che domina, assedia, assale l’uomo, male insuperabile, predominio del male nel mondo, impotenza dell’uomo a costruire la società di giustizia, la società fraterna. Splendido programma; ma di nuovo, sommessamente, domandiamo: dov’è la filosofia, in tutto questo? Cosa c’è di filosofico in tali enunciazioni? E siamo sicuri che, una volta cancellato, così, con un tratto di penna, quel malefico personaggio, l’uomo diverrà capace di costruire la società di giustizia, la società fraterna? Vuoi vedere che nessuno si era mai accorto di quanto fosse facile: abolire la figura del diavolo, e oplà, il gioco è fatto! Ma, di grazia, visto che qui si vuole aiutare soprattutto la cristianità, come la mettiamo con il fatto che Gesù è venuto per combattere il diavolo e che, fin dall’inizio della sua missione, ha dovuto affrontarlo nel deserto, e poi di nuovo, e di nuovo, fino all’orto degli ulivi, fino alla croce? Vuoi vedere che nemmeno Gesù si era accorto di quanto fosse semplice instaurare la società di giustizia, con le sole forze dell’uomo? A questo punto, però, torniamo a domandare: sarebbe ancora cristiana, una cristianità che prendesse per buone le affermazioni di Colombo? Eppure, in qualche modo, la storia – la parte umanamente visibile della storia, s’intende - sembra che stia dando ragione a lui e a quelli come lui. Papa Francesco sta fedelmente interpretando questo “rinnovamento” senza Redenzione, questa cristianità senza trascendenza, questa lotta per la giustizia che ignora l’esistenza del Male. E allora, un piccolo sospetto: non sarà proprio questa la strategia vincente dell’antico Avversario: farsi credere defunto?
No, cari filosofi e teologi progressisti: non si cancella il diavolo con un tratto di penna
di Francesco Lamendola
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