(di Cristina Siccardi) Il Papa porta con orgoglio il nome di san Francesco d’Assisi ed è orgogliosamente erede della dinastia religiosa fondata da sant’Ignazio di Loyola, ma né dell’uno, né dell’altro ne è testimone.
Modello di entrambe queste colonne della Chiesa fu Cristo, il Cristo della Passione, della Crocifissione, della Redenzione. Ci stiamo avvicinando alla Settimana Santa nell’anno del centenario delle apparizioni di Nostra Signora di Fatima e sia san Francesco che sant’Ignazio ci ricordano che cosa sia stata veramente la Passione e Morte della seconda Persona della Trinità.
San Francesco non fu né un demagogo, né un pauperista. Qualora si tenti di definirlo in termini astratti, il messaggio di Francesco si riduce oggi a qualche formula banale che riconduce alla pace fra i popoli e all’ambientalismo… quale abbaglio progressista. Egli non fu né un dottore della Chiesa come sant’Agostino, né un teologo come san Tommaso d’Aquino e neppure uno speculativo della vita spirituale come san Bernardo o sant’Ignazio.
Ai tempi di san Francesco si era creata una barriera fra una Chiesa preoccupata innanzitutto di sviluppare le proprie influenze immanenti nella società attraverso la corruzione e le scelte politiche, così le aspirazioni religiose di numerosi fedeli venivano frustrate e serpeggiava un forte malcontento nei confronti del clero.
Per certi versi ciò che sta accadendo ora a causa di una Chiesa fortemente corrotta moralmente e troppo attenta alle dinamiche gestionali del mondo. Ecco che il santo di Assisi rientra a pieno titolo nelle esigenze spirituali della contemporaneità, che non conosce e non pratica più le virtù, quelle virtù teologali e cardinali che distaccano serenamente dal mondo pur rimanendo nel mondo. Il mistico Francesco è il formidabile antidoto contro i veleni dell’immanentismo e dello sfrenato consumismo, teso all’appagamento dei piaceri sensibili, dei nostri tempi. Francesco, come battezzato, volle raggiungere la perfezione, quella indicata da Gesù stesso: «Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi» (Mt 19, 21).
Dal momento della sua conversione si sforzò di seguire Cristo: la vita religiosa come imitazione di Cristo, o meglio ancora, come la ricerca di una conformità sempre più stretta a Lui, nel desiderio più profondo di essere simile al Crocifisso. E il Signore lo premiò: fu il primo mistico a ricevere le stigmate. Ritiratosi sul Monte della Verna nel Casentino, insieme ad alcuni dei suoi primi compagni, per celebrare con il digiuno e l’intensa partecipazione alla Passione di Cristo, la «Quaresima di San Michele Arcangelo», la mattina del 14 settembre 1224, festa della Esaltazione della Santa Croce, mentre pregava su un fianco del monte, vide scendere dal cielo un serafino con sei ali di fiamma e di luce, che gli si avvicinò in volo rimanendo sospeso nell’aria. Fra le ali del serafino, Francesco vide lampeggiare la figura Cristo con mani e piedi distesi e inchiodati ad una croce; quando la visione scomparve lasciò nel cuore di Frate Francesco un indescrivibile ardore e nella carne le piaghe della crocifissione. Passione e crocifissione che lasciarono i segni sulla Sacra Sindone di Torino e sul Santo Sudario di Oviedo, i quali hanno avvolto la stessa persona, come ha comunicato in questi giorni un’équipe di studio di medicina legale guidato da Alfonso Sánchez Hermosillaha dell’Università Cattolica spagnola di Murcia.
Dopo la morte di san Francesco, i frati minori celebrarono in lui un alter Christus, definizione alla quale si appellerà l’eretico Martin Lutero – che nella sua vita non cercò mai di conformarsi al Crocifisso: la sua biografia e la sua opera, politica e non spirituale, ne sono prova inconfutabile – per accusare i Francescani di idolatria nei confronti di «un altro Dio».
La Madonna di Fatima venne in terra per ricordare le pene patite dal Figlio per le anime e per esortare alla conversione, al cambio di vita, alla rinuncia, alla penitenza per il bene dei peccatori e per il bene del Papa. Alla Madonna e al Papa era strettamente legato sant’Ignazio di Loyola, colui che visse da militante il suo credo, il soldato di Cristo che difese la dottrina cattolica durante il dilagare in Europa delle anticlericali e anticristiche idee luterane (si pensi all’accanimento contro la Santa Messa) e di Calvino, quindi, durante la Controriforma.
Il fondatore della Compagnia di Gesù ha il grande merito di aver dato istruzione a tutti, a clero e laici, su come vivere da autentici cristiani. Il cristiano non può prescindere dalla Croce, essa è la sua strada e la sua salvezza: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16, 24).
È sufficiente praticare gli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola, i migliori che esistano nella Chiesa, per rendersi conto che la vita del battezzato non è separabile dalla Croce, anzi, è proprio Cristo in Croce ad essere il centro dell’esistenza di ogni buon cristiano ed essere buon cristiano significa vivere bene e morire bene.
Nella prima annotazione introduttiva il fondatore dei Gesuiti scrive: «Con Esercizi spirituali si intende ogni modo di esaminare la coscienza, meditare, contemplare, pregare vocalmente e mentalmente e altre operazioni spirituali. Come, infatti, il camminare e il correre sono esercizi corporali, così si chiamano esercizi spirituali tutti i modi di disporre l’anima a liberarsi di tutti gli affetti disordinati e, una volta eliminati, a cercare e trovare la volontà divina nell’organizzazione della propria vita per la salvezza dell’anima».
Ai piedi della Madonna di Monserrat, Ignazio di Loyola lasciò la divisa da cavaliere e le armi, decidendo di ritirarsi per mesi in preghiera e penitenza nella grotta di Manresa, dove Maria Vergine gli ispirò gli Esercizi spirituali, grazie ai quali il fedele può comprender nell’anima anche, oltre a tutte le mirabili altre cose legate a sé e legate a Dio, che cosa significhi contemplare la Passione di Cristo.
Nel terzo preambolo della Seconda contemplazione (Agonia, Giuda, Arresto) si dice: «domandare ciò che voglio ottenere, quello che è conveniente chiedere nella Passione, cioè dolore con Cristo, addolorato, tormento con Cristo affranto nell’anima e nel corpo, lacrime e pena interna per tante sofferenze che Cristo ha patito per me», ha patito per ognuno, preso singolarmente.
Ogni aspirante alla beatitudine eterna, alla fine della vita, si troverà, dopo aver lottato per entrare attraverso la porta stretta (Lc 13, 24), faccia a faccia con il misericordioso Giudice, senza periferie, senza migranti, senza luterani… senza nessuno, l’anima e basta, grata a quella Chiesa di Cristo che converte e insegna, senza infingimenti, a vivere in virtù, nell’amore per il Crocifisso, nel timore di Dio. (Cristina Siccardi)
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