L’umorismo di Dio
di Carla D’Agostino Ungaretti
“Signore, / dammi una buona digestione / e naturalmente anche qualcosa da digerire . / Donami la salute del corpo / e il buonumore necessario per mantenerla … / Dammi, Signore, il senso dell’umorismo. / Concedimi la grazia di comprendere uno scherzo, / per scoprire nella vita un po’ di gioia e farne parte anche agli altri. / Amen”. (S. Tommaso Moro).
Quando molti anni fa lessi l’anticristiano, ancorché pregevole, romanzo di Umberto Eco “Il nome della rosa”, mi sentii stimolata ad andare alla ricerca del mio antico testo di religione del Liceo per rinfrescarmi un po’ la memoria in merito ad un problema catechistico di cui avevo sentito parlare durante la mia formazione cristiana ma che, col passare degli anni, avevo finito per dimenticare. Il problema riguardava l’umorismo nella Sacra Scrittura e suscitava un interrogativo davvero intrigante: “Gesù avrà mai riso?”. Ma anche allora le pressioni esercitate su di me dal lavoro e dalla famiglia mi costrinsero ad occuparmi di altre priorità, il tempo passò inesorabilmente e la mia curiosità si affievolì nel dimenticatoio.
E’ purtroppo un tema di continua attualità perché molti autori, spesso anche non volendo, hanno messo in guardia i loro lettori dalla tentazione di fondare il discorso religioso sulla paura, sulle minacce del castigo di Dio. Il riso avrebbe così il potere di far crollare il delicato edificio dell’autorità della Chiesa e quindi anche la stessa fede. Ma è vero tutto questo? Riflettiamoci un po’.
Anzitutto dall’attenta lettura dei Vangeli emerge che anche Gesù fu deriso dai suoi contemporanei – per esempio, quando affermò che la figlia del capo della sinagoga non era morta, ma dormiva (Lc 8, 53) – perché essi non accettavano la sconvolgente novità di quell’Uomo che mandava in crisi la logica ordinaria e si rinchiudevano nei propri limiti umani; oppure quando, al termine della prima “giornata apostolica”, i suoi parenti volevano prenderlo con la forza pensando che fosse impazzito (Mc 3, 21); o quando fu ritenuto un invasato “posseduto da uno spirito immondo” (Mc 3, 30). Perfino sulla croce Gesù sarà deriso dal popolo, dagli scribi, dai sommi sacerdoti e dai soldati (Lc 23, 35 – 37).
Nella Bibbia il riso può essere espressione umana di gioia e sicurezza, oppure di scherno e superiorità. Alla notizia che sarebbe diventato padre, “Abramo … rise e pensò: Ad uno di cento anni può nascere un figlio?” (Gn 17, 17). Anche sua moglie Sara ride incredula alla notizia che, a novant’anni di età, diventerà madre (Gn 18, 19), ma alla fine sarà proprio Dio a ridere in suo figlio Isacco, il cui nome significa appunto “Dio ha riso”, ed ella potrà dire : “Motivo di lieto riso mi ha dato Dio” (Gen 21, 60). Nella Sacra Scrittura sono descritte diverse modalità del ridere in cui l’umorismo serve a smontare i presuntuosi progetti dell’empio, l’albagia del superbo e, nei Vangeli, le arie che si danno i farisei. Dio viene spesso ritratto nel divertirsi a mandare all’aria i piani seri dell’uomo e il Suo riso fa risaltare la stupidità di chi, perduto il timore di Dio, costruisce castelli in aria che crollano al primo soffio (“Se ne ride chi abita i cieli, / li schernisce dall’alto il Signore”, Sal 2, 4), come l’illusoria potenza di Sennacherib, re di Assiria, (“Ti deride, ti disprezza la vergine di Sion”( 2 Re 19, 21) che finì miseramente ucciso dai suoi stessi figli ( 2 Re 19, 37). Il salmista riconosce che Dio è all’origine di ogni vero piacere della vita: “Mi indicherai il sentiero della vita, / gioia piena della tua presenza, / dolcezza senza fine alla tua destra” (Sal 16, 21). Nel Libro dei Numeri (22, 22 ss) poi, c’è il buffo episodio dell’asina parlante di Balaam la quale – ubbidendo all’angelo che vuole impedire al suo sciocco padrone di correre verso il precipizio e dimostrandosi invece molto più saggia di lui – per tre volte devia dalla strada prendendosi anche le frustate dall’uomo che non aveva capito nulla dell’avvertimento, e perciò protesta facendo ravvedere il padrone.
Ma Gesù avrà mai riso? I Vangeli non lo dicono ma Gesù, oltre che vero Dio, era anche l’Uomo perfetto nel quale si trovano incarnate le migliori e più nobili caratteristiche dello spirito umano, la prima delle quali è l’intelligenza e, in particolare, quella che dell’intelligenza è una delle sue manifestazioni più genuine e cioè il senso dell’umorismo.
Proviamo così a immaginare quando Gesù abbia sorriso. Anche se gli Evangelisti non ne parlano, a me sembra che le occasioni siano state molte: per esempio quando, alle nozze di Cana, Lui e Sua Madre assistono allo stupore dei servi che si accorgono di aver travasato nelle giare non acqua ma ottimo vino, anche migliore di quello che era stato servito precedentemente (Gv 2, 1 – 11); quando notò la sorpresa degli Apostoli che tornavano ciascuno con un cesto pieno di avanzi, dopo la moltiplicazione delle cinque pagnotte e dei due pesci che avrebbero dovuto sfamare ben cinquemila persone (Mt 14, 29); quando, alzando lo sguardo, vide il basso Zaccheo appollaiato sul ramo del sicomoro per poter vedere il Signore che passava (Lc 19, 1 ss). Ancora: quando, aver subito la derisione degli astanti, vide la gioia di Giairo e di sua moglie davanti alla loro figlioletta viva (Lc 8, 53); quando il cieco di Betsaida, risanato, disse: “Vedo gli uomini, perché vedo come degli alberi che camminano” (Mc 8, 24); quando a Cafarnao vide i portatori praticare un foro nel tetto della casa dove Lui si trovava per calare la barella del paralitico davanti a Lui (Mc 2, 5); quando rispose alle domande di Nicodemo con una punta di ironia: “Tu sei maestro in Israele e non conosci queste cose?” (Gv 3, 10). Ho citato solo sette episodi, ma mi sembra che in essi e in molti altri risulti evidente la gioia di Dio, sempre felice quando i suoi figli meritano di essere aiutati nel loro faticoso cammino verso la Fede.
C’è ancora un altro bellissimo episodio in cui l’umorismo di Gesù smonta con garbo e delicatezza il malcelato razzismo dello snob Natanaele (Gv 1, 43 – 51). L’apostolo Filippo, tutto emozionato, non può fare a meno di esprimere all’amico Natanaele la gioia di “aver trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret …” e vuole presentarglielo ma costui, zelante e sussiegoso, risponde: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?”. Natanaele, che conosceva le Scritture, sapeva che il Cristo doveva venire da Betlemme, città di Davide, perciò esprime dei dubbi, non sapendo come conciliare le parole di Filippo con l’annuncio profetico. Filippo gli risponde saggiamente: “Vieni e vedi”[1], ma Gesù osserva: “Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità” e, allo stupore di Natanaele nel sentirsi conosciuto da Gesù, Lui gli spiega: “Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico”. Il contatto personale con il Signore induce Natanaele a replicarGli: “Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il Re di Israele!” diventando così il primo apostolo a confessare esplicitamente la fede in Gesù quale Messia e Figlio di Dio[2].
Nella Bibbia spesso emerge che l’uomo cerca una cosa e Dio gliene offre un’altra che in realtà è proprio quella di cui egli aveva bisogno. Il pensiero sapienziale opera spesso un ribaltamento dei valori recante l’invito ad accettare ciò che sembra inutile, ma che consente di vivere in pienezza, a differenza dei vari surrogati che l’uomo si procura. Accettando quel paradossale ribaltamento e convertendosi ad essa si entra in piena relazione con Dio.
Nei Vangeli Gesù opera spesso quel ribaltamento spostando l’attenzione degli astanti su ciò che nessuno ha notato. Quando Gli portano i paralitici (Mt 9, 2; Mc 2, 1 – 12), Gesù non nota la loro infermità, ma perdona i loro peccati guarendoli anche dalla paralisi. Nel racconto della donna cananea che invoca la guarigione di sua figlia (Mt 15, 21 – 28) Gesù sembra inizialmente poco sensibile, ma poi compie due miracoli: la figlia guarisce e la madre acquista la Fede. Dio dà più di quanto Gli si chiede, se non ci si scandalizza di Lui e si accetta da Lui una logica che non corrisponde alla nostra, ma questo significa abbandonarsi completamente alla Sua volontà e tutti sappiamo quanto spesso sia difficile farlo.
Allora se, sempre con l’aiuto di Dio, riusciamo a tanto, nella vita spirituale il senso dell’umorismo diventerà un invito alla penitenza, a ridimensionare il proprio EGO, a guardarsi dal rischio di prendersi troppo sul serio, di credersi insostituibili e sarà anche un formidabile antidoto al terrore del demonio. Dal Medioevo in poi furono molte le sacre rappresentazioni in cui si ridicolizzava il diavolo che solo apparentemente può spaventare perché non è altro che un nemico sconfitto. L’umorismo ha spesso caratterizzato la vita di molti Santi, da S. Filippo Neri – che diceva ai turbolenti bambini romani da lui protetti e istruiti: “State buoni, se potete …” – a S. Teresa d’Avila e a S. Ignazio di Loyola che, nell’Autobiografia, prende in giro se stesso descrivendo i suoi criteri di autodisciplina un po’ troppo estremisti e bisognosi di purificazione[3].
L’umorismo è un ingrediente importante anche per l’efficacia della testimonianza cristiana. Se il Vangelo è una “Buona Notizia” dobbiamo accoglierla con gioia e quando si è sereni, confortati e incoraggiati dalla Promessa che ci è stata fatta, dobbiamo sorridere e comunicarla agli altri. Così faceva un Santo che mi è sempre stato molto simpatico, S. Tommaso Moro, di cui ho riportato in epigrafe una preghiera altrettanto giusta e vera quanto spiritosa, segno che le due caratteristiche non sono affatto inconciliabili, come riteneva, sbagliando di grosso, il triste e per nulla cristiano monaco de “Il nome della rosa”. Sir Thomas, Gran Cancelliere d’Inghilterra, come tutti sanno fu condannato a morte da Enrico VIII per essersi rifiutato di riconoscere il matrimonio del Re, adultero ed eretico, con Anna Bolena, ma era un uomo dotato di grande senso dell’umorismo, dono di Dio che non lo abbandonò neppure quando salì i gradini del patibolo, dove trovò la forza di chiedere al boia: “Aiutami a salire: a scendere farò da solo …”.
In un’epoca perversa come la nostra, che ci vorrebbe far accettare l’ammissione dei divorziati risposati al Sacramento dell’Eucaristia svuotando di importanza, e quindi protestantizzando il Sacramento del Matrimonio, penso proprio che abbiamo un doppio motivo per invocare l’intercessione di S. Tommaso Moro: perché, col suo aiuto, possiamo rimanere sempre fedeli alla Parola di Dio sul S. Matrimonio e perché non rinunciamo mai a quel sano umorismo che ci faccia sempre ricordare che siamo solo servi inutili, distinguendo gli eventi importanti per la nostra vita spirituale da quelli che non lo sono.
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[1] Dalla risposta di Filippo impariamo cosa deve fare il cristiano quando un altro muove obiezioni alla sua fede: non sfoggiare le proprie capacità dialettiche, ma invitarlo a sperimentare di persona avvicinandosi personalmente a Gesù: “Vieni e vedi”. Tutto il resto è affare di Dio.
[2] Quando partecipai al corso di Teologia per Laici presso l’Università Lateranense, il professore di esegesi ci parlò di un famoso studioso della Bibbia il quale confessò che, nel giorno del Giudizio Universale, come prima cosa avrebbe chiesto al Signore che cosa stesse facendo Natanaele sotto quel fico: quel curioso episodio sdrammatizza una situazione iniziale di diffidenza e la trasforma in decisione per la sequela.
[3] S. Ignazio di Loyola, Autobiografia, Milano, TEA, 1992.
– di Carla D’Agostino Ungaretti
5/5/2017
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