E' MALVAGIO QUELL'UOMO ?
Noi diciamo che è malvagia una persona la quale fa frequentemente del male agli altri che lo fa in piena consapevolezza perché vede perfettamente gli effetti del suo dire e del suo fare e tuttavia non si astiene dal farlo
di Francesco Lamendola
Nelle sue relazioni quotidiane, ciascuno di noi cerca di farsi un’idea delle persone che ha di fronte, specialmente se deve entrare in relazione con esse in maniera personale, o sul piano professionale, o su quello del semplice vicinato, oppure su quello forse più impegnativo e coinvolgente di tutti, il piano sentimentale e affettivo. Chi non è affetto da una patologia psichica, come il masochismo o il sadismo, cerca istintivamente di relazionarsi, se lo può, con persone che lo facciano stare bene, o che, quanto meno, non lo mettano frequentemente a disagio, o in difficoltà, o in imbarazzo. Ci sono persone verso le quali nutriamo stima rispetto, ma che non vorremmo come amiche e che non ci piacerebbe neppure avere come colleghi di lavoro o come vicini di casa. Ci sono persone che naturalmente cerchiamo di evitare, perché hanno un qualcosa, non sempre del tutto esplicito, che provoca in noi sentimenti di ansia, di tensione, di turbamento o d’irritazione; così come ce ne sono altre di cui cerchiamo la compagnia, perché, vicino a loro, sentiamo un senso di pace, di serenità, di accoglienza e di distensione. Specialmente chi è dotato di una più accentuata sensibilità, percepisce, a volte di primo acchito, benessere o malessere in presenza di certe persone.
A volte, comunque, le cose sono particolarmente chiare ed esplicite. Vi sono persone le quali, si direbbe, non sanno astenersi dall’assumere comportamenti che mettono gli altri in difficoltà; non sono capaci di rispettare la sensibilità altrui, ma si muovono sempre sopra le righe, giudicano, pontificano, aggrediscono, provocano. Nessuno, che possieda un normale equilibrio interiore, sta volentieri con simili soggetti; se lo fa, se ne è attratto, se ne viene affascinato, ciò significa che ha dei problemi non lievi con se stesso, e cerca, inconsciamente, di punirsi per qualche ragione, che lui stesso, probabilmente, non sa esattamente identificare. Sia come sia, talvolta è impossibile evitare la compagnia di quelle tali persone: siamo costretti, da ragioni familiari o lavorative, a convivere con esse, a dividere un medesimo spazio, a parlare e confrontarci con loro. Possiamo sceglierci gli amici, ma non tutte le altre persone che formano la materia delle nostre relazioni sociali. Alcune persone dobbiamo letteralmente subirle, ad esempio perché sono nostri colleghi, o compagni di squadra, o di classe, o, addirittura, ed è il caso più sgradevole, perché sono nostri superiori gerarchici. Chi ha fatto il militare, sa cosa vuol dire avere un superiore aggressivo e arrogante; chi è stato a scuola, sa cosa vuol dire avere una maestra antipatica, un professore autoritario; chi lavora in ufficio, sa cosa vuol dire avere un capo sempre agitato, incontentabile, sgarbato. Ma può accadere che le persone sgradevoli siano i propri genitori, o i propri figli, o, magari, il proprio coniuge: che lo siano diventati, mentre prima non lo erano; e che non ci sia modo di tenerli a distanza, per via della responsabilità civile e morale che si ha nei loro confronti.
Finora abbiamo parlato di persone sgradevoli, che ci mettono a disagio; ma che dire delle persone decisamente malvagie? Che dire se la nostra esistenza deve fare costantemente i conti con una persona malvagia? Che cosa potremmo fare, in simili casi, qualora non avessimo la possibilità di allontanarci, di porre una distanza fisica, oltre che psicologica, fra noi e loro? Vediamo. Per prima cosa, proviamo a dare una definizione di cosa si debba intendere per malvagità. Noi diciamo che è malvagia una persona la quale fa frequentemente, sistematicamente, del male agli altri; che lo fa in piena consapevolezza, perché vede perfettamente gli effetti del suo dire e del suo fare, e tuttavia non si astiene dal suo modo di agire, dal suo modo di porsi nei confronti dell’altro; e che, inoltre, lo fa per un fine suo, che non tiene in alcun conto il bene degli altri, per cui non prova ripensamenti, e tanto meno rimorsi, davanti alla sofferenza che provoca. Questo terzo punto è quello decisivo. Un chirurgo provoca la sofferenza del paziente, specie se è costretto ad operare senza anestesia e senza strumenti adatti: però non lo fa volentieri, anzi, considera la sofferenza del paziente come un male necessario per fargli del bene, forse per salvargli la vita. Il malvagio, invece, non ha a cuore il bene dell’altro, mai: lo fa soffrire perché ciò far star bene lui, o perché risponde ai suoi fini.
Ed eccoci arrivati al nodo del discorso: il papa Francesco si direbbe un malvagio, per come parla, per come agisce, e anche per quello che non dice e che non fa, ma soprattutto per la sofferenza continua che infligge a una parte dei fedeli cattolici, sofferenza che conosce perfettamente, perché il suo ufficio stampa di certo non gli nasconde il turbamento e lo sconforto di non pochi cattolici, così come tali sentimenti si esprimono a voce, o per iscritto, anche in rete; e, del resto, in numerosissime occasioni egli si è mostrato ben conscio di tale stato di cose, tanto è vero che non cessa di polemizzare proprio con quei cattolici perplessi o amareggiati, accusandoli di essere rigidi, di essere chiusi, di essere in mala fede, di avere una doppia vita. Dunque, non solo sa benissimo che una parte dei cattolici soffre per causa sua – quanti, è impossibile dirlo; ma anche una sola anima turbata e confusa dovrebbe costituire un problema per chi sa di esserne la causa -, ma non solo non ha mai pronunciato una parola di conforto, di spiegazione, di attenuazione, insomma di paterna dolcezza e comprensione, ma ha continuamente rilanciato la posta, cioè ha rimproverato a quei cattolici proprio la loro sofferenza, vedendo in essa la manifestazione di un atteggiamento sbagliato, o una sorta di resistenza, se non di ribellione, alla sua azione pastorale.
Ora, la sua azione pastorale – e lo ha detto subito, appena eletto, in una intervista e non in un documento ufficiale, mostrando anche con ciò quale sarebbe stato il suo stile abituale nella comunicazione - scaturisce da un progetto ben preciso: quello di cambiare la Chiesa e di creare una situazione rispetto alla quale non sarà più possibile, anche nei pontificati che verranno dopo di lui, tornare indietro. Egli vuole, cioè, creare un cambiamento irreversibile: ritiene che sia questa la sua missione di papa; anche se, con falsa modestia, ha detto più volte, specialmente all’inizio, di non considerarsi tanto il papa, quanto il semplice vescovo di Roma; salvo poi smentire coi fatti quelle parole (ad esempio, ma è un esempio scelto fra mille, quando va a vistare i carcerati fuori dalla diocesi di Roma, scavalcando il vescovo locale e arrogandosi una funzione che, come vescovo di Roma, non sarebbe di sua spettanza). A quanto pare, non ha considerato che nessun papa, prima di lui, si è mai sognato di pensare, e tanto meno di dichiarare pubblicamente, essere sua missione quella di cambiare la Chiesa, per la semplice ed evidentissima ragione che la Chiesa non è del papa, non appartiene al papa, ma che egli, anzi, è il servo della Chiesa, ne è il capo non nel senso che la comanda e decide per essa, come un autocrate, ma nel senso che la rappresenta e la custodisce, adoperandosi in ogni modo affinché rimanga salda sulle sue basi dottrinali e si espanda ovunque, mediante l’evangelizzazione. Insomma, il papa è il buon pastore che, sull’esempio di Gesù Cristo, si prende cura del gregge e si adopera affinché nessuna delle pecorelle, per quanto sta in lui, vada perduta; anzi, se qualcuna si perde, egli la va a cercare.
Ebbene: non è questo che sta facendo papa Francesco. Non custodisce il gregge, lo turba e lo confonde; non protegge le pecorelle a lui affidate, ma le tratta in modo tale che una parte di esse è spinta ad uscire dall’ovile, venendo a trovarsi in uno stato di oggettivo pericolo (almeno se la dottrina cristiana sul peccato e sul giudizio è una cosa seria ed è ancora valida, o se la neochiesa modernista non l’ha già abolita); e non solo lascia che tali pecorelle siano insidiate dai lupi, ma sembra quasi compiacersi di un tale stato di cose, viste le parole trancianti, impietose, ingenerose, che egli molto spesso riserva ai suoi critici e visto il silenzio, carico di disprezzo, con cui ha accolto il documento dei quattro cardinali (i quali parlavano, e legittimamente, non lo si scordi, non solo a nome proprio, ma di milioni di fedeli), col quale si chiedevano schiarimenti a proposito di alcuni punti controversi, e assai delicati, dell’esortazione apostolica Amoris laetitia. Dunque, torna la domanda: è una persona malvagia, colui che si comporta come ha fatto, e continua a fare, papa Francesco? Provoca la sofferenza altrui; non cerca di addolcirla, di attenuarla, ma, al contrario, versa continuamene del sale sulla piaga; e intanto cerca continuamente l’approvazione degli ambienti politicamente corretti, nonché l’applauso delle folle, anche con gesti spettacolari e talvolta discutibili e demagogici, peraltro ben calcolati, anche se possono sembrare del tutto spontanei, e ne gode intensamente e visibilmente. Tutto ciò configura la personalità e il modo d’agire di una persona malvagia? A nostro parere, e dopo aver soppesato attentamente non solo le parole – almeno finché esse conservano ancora un significato – ma anche, e soprattutto, i concetti ad esse sottese, ci sembra di non poter rispondere – e non proviamo alcuna gioia nel farlo, semmai una profonda tristezza – che in senso affermativo. Non potremmo rispondere diversamente, se non barando al gioco e falsificando i dati della realtà.
Due cose, in particolare, segnano il confine fra la malvagità e ciò che malvagità non è, anche se, visto da lontano, può apparire simile ad essa: primo, il fatto di non fare nulla per alleviare la sofferenza, ma, anzi, l’evidente piacere di accrescerla; secondo, il fatto di non dolersene minimamente, ma, semmai, di compiacersene, ostentando sorrisi e atteggiamenti gioiosi, proprio in presenza di quella sofferenza e di quella amarezza, come se esse non significassero proprio nulla e come se l’unica cosa importante fosse avere l’approvazione e il consenso delle folle, anche nelle forme più esagerate e quasi idolatriche, godendo, narcisisticamente, di quel modo di procedere che è causa di dolore e turbamento tra i fedeli. In altre parole: chiunque può fare del male al prossimo, sia intenzionalmente, sia no; se no, si è trattato solo di fatalità, o, nel peggiore dei casi, d’imprudenza; se sì, il male fatto potrebbe essere giustificato da un bene superiore. In nessun caso, però, è lecito aggravare la sofferenza altrui oltre lo stretto necessario. Il chirurgo che deve amputare una gamba al paziente, magari con una sega da falegname - come avvenne nel caso del patriota Piero Maroncelli, nel carcere dello Spielberg - non sarebbe giustificato se non facesse il possibile per alleviare la sua sofferenza, né, a maggior ragione, se l’aggravasse, ad esempio con un atteggiamento sprezzante e derisorio nei suoi confronti. In pratica, la linea di confine tra un’azione malvagia, e una che non lo è, pur essendo, in se stessa, crudele, è data dal tipo di atteggiamento interiore di colui che la compie: il malvagio se ne compiace, o, comunque, non se ne preoccupa affatto; mentre colui che non è malvagio, ma è stato costretto, dalle circostanze, ad agire in maniera crudele, prova sgomento per la sofferenza altrui, ne è profondamente toccato, e nutre un immediato, intenso desiderio di lenirla, di medicarla, di porvi rimedio. Un altro esempio, ancor più banale: a tutti sarà capitato, probabilmente, di investire, con l’automobile, un animaletto, per esempio un uccello che stava attraversando, in volo, la sede stradale: colui che possiede un animo buono, resta dispiaciuto e rattristato dall’avvenimento; colui che possiede un animo malvagio, resta del tutto indifferente, o, peggio, prova una segreta soddisfazione, una sorta di perverso compiacimento.
Purtroppo, quest’ultima disposizione interiore è quella che traluce dallo sguardo, dai gesti, dalle parole di papa Francesco ogni volta che le sue omelie, le sue dichiarazioni, le sue interviste provocano sofferenza, turbamento e tristezza nell’anima di tanti cattolici. Egli sa e vede, o addirittura prevede, che, dicendo quella tale cosa, o facendo quel tale gesto, causerà dei sentimenti depressivi e infliggerà della sofferenza a una parte delle anime a lui affidate: ma non se ne cura, non se ne preoccupa, non se ne duole: semplicemente, non lo considera un suo problema, o, tutt’al più, ritiene che ciò sia il prezzo inevitabile da pagare per attuare quel cambiamento della Chiesa (peraltro illegittimo), di cui abbiamo detto. Ragiona, cioè – nel migliore dei casi – come un generale poco sensibile al dramma umano dei soldati a lui affidati: un generale che li manda all’assalto delle ben munite postazioni nemiche, come fossero carne da macello, avendo di mira unicamente il risultato finale – la vittoria sul nemico – e senza tenere in alcun conto il fattore morale costituito dalle perdite, sia in termini di vite umane sacrificate, sia in termini di sofferenza, compresa quella dei feriti, dei mutilati e dei loro parenti, delle vedove, degli orfani, dei genitori. Ma che importa a lui, di tutto questo? L’importante è aver raggiunto le posizioni prestabilite; l’importante è aver portato a termine la manovra studiata e pianificata a tavolino.
Dispiace dirlo, ma questo sembra essere, precisamente, l’atteggiamento di papa Francesco. Pur andando all’attacco, praticamente ogni giorno, delle idee e dei sentimenti dei cattolici che hanno ricevuto una formazione cristiana non modernista, o che hanno, comunque, una sensibilità di tipo non modernista, e volendo imporre loro una visione modernista della liturgia, della pastorale e della stessa dottrina cattolica, e, dunque, pur sapendo benissimo il dolore e lo sgomento che provoca a tutti costoro, egli va avanti, dritto per la sua strada, senza esitazioni, né ripensamenti, e, quel che più colpisce, senza alcuna dolcezza, senza alcuna delicatezza, senza la benché minima misericordia. Si direbbe che non voglia fare prigionieri: e non stiamo parlando del “nemico”, ma del suo stesso gregge: delle pecorelle a lui affidate. Ma ha mai letto e meditato a fondo il Vangelo, costui? Ha mai letto il passo evangelico in cui Gesù dice di sé: Imparate da me, che sono mite e umile di cuore?
È malvagio, quell’uomo?
di Francesco Lamendola
Quando inizieremo, noi laici, a fare le veglie antiparrocchiali, antivescovili, antpapali ? sarà sempre troppo tardi per venire in aiuto di una Chiesa che sta morendo, tradita dai suoi stessi pastori e consegnata ai suoi nemici storici di sempre. Sarebbe ora, per noi laici amanti della Chiesa preconciliare, di rispondere all'appello, alla chiamata fatta dalla Madonna a La Salette nel Suo messaggio finale:
RispondiElimina-- "Io chiamo gli apostoli degli ultimi tempi, i discepoli di Gesù Cristo ... che sono vissuti nella preghiera e nella mortificazione, nella castità e nell'unione con Dio... è tempo che vengano ad illuminare la terra. Andate e mostratevi come i Miei cari figli; Io sono con voi e in voi, purché la vostra fede sia la luce che vi illumina in questi giorni di disgrazia. Che il vostro zelo vi renda come gli affamati per la gloria e l'onore di Gesù Cristo. Combattete, figli della luce, voi, piccolo numero che ci vedete, perché ecco il tempo dei tempi, la fine delle fini"... e se non è questo il tempo di cui ci parla la nostra Madre Celeste, quale altro dovrebbe essere? cos'altro possiamo aspettarci di peggio, dopo Bergoglio e il suo clero apostata, che sta dilagando a macchia d'olio su tutto l'orbe ex cattolico ? sursum corda, quindi, e ... avanti con Maria !
Gentile dottor Lamendola,
RispondiEliminacondivido il suo stato di allarme - che in me rasenta lo spavento - per tutta la situazione, assolutamente infiammata e fomentata da questo papa, senza che c'entrino le fiamme dello Spirito Santo.
Ho letto più volte in diversi blog la riflessione per la quale egli è solo l'ultimo di una serie di papi devianti verso l'eresia, spesso in osservanza a quanto dettato dal Concilio Vaticano II, che lo si voglia ammettere o meno.
Ecco, a mio avviso - a parità di fatti - occorre considerare tutto il 'book' di una persona per capire in modo abbastanza certo quali erano/sono le sue intenzioni, intenzioni di bene o intenzioni di male.
A me pare di poter dire, nel mio ignorare moltissime circostanze ecclesiali, quindi da credente semplice, che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI NON sono stati animati da dolo nè dalla volontà di mandare a perdizione il gregge che il Signore aveva loro affidato. Lo dicono tutte le altre circostanze del loro pontificato, al netto di tante improvvide o sciagurate decisioni 'ecumeniche'.
Sempre secondo me, è MOLTO DIFFICILE (eufemismo) affermare che papa Bergoglio NON sia animato da dolo o dalla volontà di mandare a perdizione il gregge che gli è stato affidato. Lo dicono tutte le altre circostanze del suo pontificato, al netto di altrettanto improvvide o sciagurate decisioni 'ecumeniche'.
Quanto ai motivi di questo andazzo sciagurato e calamitoso credo che, nella Chiesa e fuori, ci siano molti esperti in varie discipline che, già a occhio e croce, avrebbero molte cose da esprimere in merito (e questo fin dai primi mesi del pontificato...).
Ma il 'cordone di sicurezza' steso attorno a tutto il problema dall'establishment non permetterà che la verità venga a galla. E noi credenti continueremo a non avere risposte, e continueremo a fidarci di Nostro Signore che ci ha assicurato che le forze del male non prevarranno.
Come Dio vuole, fra due giorni saremo al centenario delle apparizioni di Maria Santissima a Fatima. Mi auguro col cuore che Ella ci potrà finalmente concedere un po' di respiro e di pace.