Il male non è mai banale, ma forse vuol sembrarlo
Nel 1963 compariva il saggio di Hannah Arendt La banalità del male. Ella era rimasta colpita dall’aria dimessa e dalla mentalità ordinaria, da ragioniere, di Adolf Eichmann, il gerarca nazista rapito in Argentina da agenti israeliani, che lo avevano condotto a Gerusalemme, dove era stato processato e condannato a morte per il ruolo centrale svolto nella politica di sterminio a danno degli ebrei nella Germania hitleriana. Secondo la Arendt – che minimizza gli aspetti illegali del processo, a cominciare dal rapimento effettuato in un Paese terzo, che aveva riconosciuto all’imputato il diritto di asilo – Eichmann era un individuo assolutamente normale, addirittura banale nella sua normalità di funzionario di un apparato statale mostruoso, e proprio questo l’aveva in special modo impressionata. Secondo lei, in un certo senso, sarebbe stato assai più “normale” che uomini come Eichmann, responsabili della sofferenza e della morte di centinaia di migliaia di esseri umani, fossero vistosamente affetti da qualche tara psicologica o psichiatrica, mentre proprio la loro normalità generava un problema morale di difficile soluzione, quasi angoscioso: come è possibile che delle persone così interamente, piattamente normali, possano, di fatto, agire come dei mostri, al servizio di sistemi criminali e di idee assassine?
Giusta o sbagliata che sia la tesi dell’ebrea Hannah Arendt (che fu per anni, da parte sua, l’amante del filosofo Martin Heidegger, una delle menti più eccelse della Germania, ma che aveva accolto con grande favore l’avvento del nazismo; e anche questo è terribilmente banale), a partire dalla pubblicazione de La banalità del male, nell’immaginario collettivo occidentale è penetrata e si è stabilita l’idea che il male non veste, necessariamente, degli abiti spettacolari, ma che, al contrario, sovente si mimetizza e s’incarna in individui mediocri, con qualcosa di goffo, di pedante, di limitato; individui scarsamente dotati o del tutto privi di fantasia e d’immaginazione, che non sanno pensare in grande, ma si limitano a fornire la loro obbedienza e la loro collaborazione a qualcosa che è più grande di loro, a ordini che non discutono, perché non sono avvezzi a discutere ciò che viene dall’alto. Naturalmente, in questa immagine rientrano i malvagi, per così dire, di secondo e terzo livello, insomma gli esecutori, o, al massimo, gli organizzatori del male, non coloro che lo concepiscono e che sanno valutarne e soppesarne tutte le reali implicazioni; insomma, non i geni del male, ma i semplici manovali del male, o, tutt’al più, i ”tecnici” del male, dal momento che una società tecnologica ha bisogno del consenso e della fedeltà di codesti tecnici “amorali” per portare a buon fine i suoi piani strategici, siano essi, di per sé, buono o malvagi.
Per noi, che pensiamo al male come una efficienza, e non come una deficienza; che lo pensiamo, da cristiani, come un entità ben definita, anzi, come una persona, come uno spirito assai intelligente; per noi, cioè, che lo pensiamo come il Male, con la lettera maiuscola, perché ha una identità precisa e quindi anche un nome proprio (e se scriviamo “diavolo” con la minuscola non è per disconoscere il suo carattere di persona, ma per mostrargli la nostra totale disistima, e perché lo riteniamo indegno di essere anche lontanamente paragonato a Colui contro il quale si è ribellato, e per odio al quale tende continuamente le sue insidie agli uomini), il discorso sulla banalità si presenta come più articolato e complesso. Sì, è vero: a volte il male assume il volto inespressivo, e quasi rassicurante, dell’uomo e della donna banali, dei tipici uomini-massa che si muovono secondo la corrente, fanno quel che fanno gli altri, come lo fanno gli altri, e non si distinguono in nulla da innumerevoli altri, se non, forse, per il particolare zelo che mettono in ciò che fanno, anche se si tratta di qualcosa di orrendo. Però è altrettanto vero che questa banalità, nei disegni del grande burattinaio del Male, il diavolo, serve soprattutto da maschera, appunto per mimetizzarsi e confondersi nella folla anonima (tute le folle sono anonime e dunque la società moderna, che è la società di massa, si presta particolarmente bene a tale strategia della mimetizzazione del male). Il che significa che bisogna andare oltre l’apparenza e riconoscere quel che si cela dietro la maschera.
Queste riflessioni si sono sviluppate in noi dopo l’ultima “sparata” del nuovo generale dei gesuiti, padre Sosa Abascal, il quale, non pago di avere affermato che noi non sappiamo esattamente cosa abbia detto Gesù Cristo, perché a quel tempo non c’erano i registratori a catturare la sua viva voce, ha ora dichiarato che il diavolo non esiste, ma è solo una immagine simbolica per esprimere la realtà del male, con la minuscola. Le sue precise parole, tanto incredibili quanto disinvolte, sono state: Abbiamo creato figure simboliche, come il diavolo, per esprimere il male. Con il che, oltre a smentire e sbugiardare i Vangeli e duemila anni di Magistero della Chiesa, ha dato dei visionari e dei ciarlatani a tutti i sacerdoti esorcisti, e anche a dei santi illustri, quali Giovanni Bosco o Jean Marie-Vianney, per non parlare di Pio da Pietrelcina, i quali, a proposito del diavolo, non hanno espresso teorie o elucubrazioni personali, ma hanno portato la loro concreta esperienza di vita: perché lo hanno visto, lo hanno affrontato, e non una volta sola, ne hanno subito gli assalti, lo hanno riconosciuto nel corpo sofferente dei posseduti, lo hanno sconfitto con le armi della penitenza, della preghiera e della fede. Per non parlare di ciò che i dottori della Chiesa e gli stessi pontefici hanno sempre sostenuto, rifacendosi alle Scritture e alla Tradizione, compreso Paolo VI, il quale, nell’udienza generale del 15 novembre 1972, ricordò, senza badare allo sconcerto e alle critiche del mondo, la terribile realtà del diavolo, essere personale, potente e intelligente, che sta in agguato per trascinare gli uomini lontano da Dio, verso la rovina morale.
Evidentemente, padre Sosa Abascal ha una concezione gnostica del cristianesimo: ritiene che ci sia un livello popolare, ingenuo, che va bene per i sacerdoti come Gabriele Amorth, per i bambini e le vecchiette un po’ credule, un po’ deboli di nervi e di cervello; ed un livello alto, per i sapienti e gli intelligenti come lui, i quali hanno trovato la maniera di ovviare alla mancanza di registrazioni su nastro delle parole di Gesù, moltiplicando e raffinando gli strumenti esegetici ed ermeneutici e sovrabbondando in “discernimento”, che, secondo lui, è cosa diversa dal mettere in dubbio la Parola di Gesù (equilibrismi verbali veramente… gesuitici). Tuttavia, si tratta solo di questo? Certo, sarebbe già abbastanza: perché un generale dei gesuiti il quale è più gnostico che cattolico, pone evidentemente una serie di problemi, e, innanzitutto, la domanda: come è possibile che proprio lui sia stato eletto a ricoprire una carica di quella importanza, a diventare il “papa nero”? Che cosa si insegna, oggi, nei seminari cattolici, e particolarmente in quelli dei gesuiti? E come mai la dottrina che viene insegnata nei seminari, e specialmente presso i gesuiti, è cambiata così tanto, così radicalmente, sia nello stile, sia nei contenuti, rispetto a quella che vi si insegnava non più di due o tre decenni fa? Che cosa è cambiato, dopo il Concilio Vaticano II, e specialmente durante il pontificato di Giovanni Paolo II, e infine, ora, con quello di Francesco? Che cosa bisogna dedurne: che i preti e i fedeli di una o due generazioni fa avevano capito ben poco della Rivelazione divina, e perfino delle Sacre Scritture? Che non avevano appreso, nel corso di duemila anni, a leggere e comprendere bene il santo Vangelo? Sosa Abascal, interrogato su questo punto cruciale, ossia sulla relatività della Parola di Dio, ha risposto: Nell’ultimo secolo nella Chiesa c’è stato un grande fiorire di studi che cercano di capire esattamente cosa volesse dire Gesù… capire una parola, capire una frase… le traduzioni della Bibbia cambiano, si arricchiscono di verità storica… Così, ha confermato che, nella storia della comprensione della parola di Dio, ci sono un “prima” e un “dopo”: prima del Concilio, quando si era capito pochino, e dopo il Concilio, quando finalmente si è imboccata la strada giusta. Sono aumentate le tradizioni della Bibbia, si sono perfezionate le indagini filologiche… Che bello: così il Vangelo è stato messo in mano ai sapienti e agli intelligenti: proprio quelle due categorie di persone alle quali Gesù afferma che Dio ha negato la comprensione della Rivelazione, poiché Egli l’ha riservata ai piccoli e ai semplici (cfr. Matteo, 11, 25).
Come si vede, stiamo parlando di un questione enorme: una questione che viene sottaciuta, specialmente dai teologi modernisti e dal clero progressista, proprio per la sua enorme rilevanza, e perché farebbe nascere qualche domanda decisamente scomoda nella mente dei fedeli: che cosa sta succedendo, nella Chiesa, oggi? La Chiesa non è il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, di vecchia memoria: non può venir fuori un Kruscev, come al XX Congresso, e dire che “prima” era tutto sbagliato, o quasi, e ora si deve voltare pagina (di fatto, qualche giornalista fece precisamente questo paragone, quando si aprirono i lavori del Concilio Vaticano II: come se la Chiesa di Pio XII fosse stata qualcosa di equiparabile all’Unione Sovietica di Stalin). Eppure, per quanto enorme sia tale questione, vi è qualcosa di ancora più grande, e ancora più inquietante, che ci riconduce al nostro tema iniziale: l’apparente banalità del male. Non è ammissibile che un Sosa Abascal, per il ruolo che ricopre – è il numero uno dell’Ordine religioso più potente della Chiesa cattolica – se ne venga fuori a spiattellare, con la massima noncuranza, che noi non sappiamo cosa disse realmente Gesù; e che aggiunga, qualche settimana dopo, per buona misura, che il diavolo non esiste, è solo una figura simbolica. Se ciò accade, e nessuno reagisce, a cominciare dal papa, ciò significa che è in atto una vera e propria mutazione antropologica fra i membri del clero, una mutazione che li ha trasformati in persone fredde, insensibili, tutte testa e niente cuore, che non si curano del male che seminano, dei dubbi, delle angosce, del disorientamento che diffondono. E come mai non se ne curano? Sarebbe normale, sarebbe umano, provare un certo senso di responsabilità, se si provoca dolore e turbamento nel prossimo: lo prova perfino l’automobilista che, involontariamente, investe un passero che si era posato sul manto stradale: come può non provarlo un alto esponente del clero cattolico, davanti allo sconcerto, all’amarezza e al pericolo di allontanare le anime, che le sue parole sconsiderate, folli, intollerabili, non possono non produrre? Evidentemente, i casi sono due: o non pensa di aver detto nulla di strano (ma rimane l’interrogativo sulla sua mancanza di compassione per le “vittime” dei suoi discorsi: sui credenti piccoli e semplici, tanto cari al cuore di Gesù); oppure sa benissimo quel che sta facendo, e non gliene importa nulla, perché lui non ama la Chiesa, non ama i cattolici, probabilmente non crede neppure in Dio, tanto meno in Gesù Cristo. Chi ha letto anche superficialmente il Vangelo, sa che Gesù, al diavolo, credeva, eccome: fin dal principio della sua vita pubblica fu tentato dal diavolo; lo incontrò più volte lungo le strade della Palestina, esorcizzando gli indemoniati; e pregò il padre suo, durante l’Ultima Cena, perché custodisse i suoi discepoli contro il maligno. Dunque, un generale dei gesuiti che definisce il diavolo “una figura simbolica” quasi certamente non crede nemmeno a Gesù Cristo. Non è possibile credere in Gesù Cristo e non credere nel diavolo: perché ciò equivarrebbe a fare di Gesù un illuso, o un fanatico, o un bugiardo. Queste cose, le vedrebbe e le capirebbe anche un bambino; e padre Sosa Abascal, nonostante l’occhio pesante e l’aria un po’ svampita, possiede di certo abbastanza intelligenza da vedere tutto questo, da vederlo perfettamente.
di Francesco Lamendola del 04-06-2017
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