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Modernisti e progressisti, giù le mani dalla Chiesa
Si direbbe che ai più diretti interessati, o almeno, a quelli che ci s’immaginerebbe essere tali – sacerdoti, religiosi, vescovi, cardinali, teologi – la cosa non importi poi molto: a giudicare da come lasciano fare, da come dicono di sì a tutto, da come fanno buon viso a cattivo gioco, e si adattano con sospetta, camaleontica disinvoltura, alle situazioni più impensate, più incresciose, più blasfeme; si direbbe che, se pure la Sposa di Cristo sta diventando un’adultera sfrontata, o peggio, una immonda prostituta, pronta a vendere i suoi favori al primo offerente, la cosa non li riguardi, né li tocchi più di tanto.
Questa apatia, questa passività, questo conformismo, hanno qualcosa d’incredibile, d’innaturale, perché confinano con qualcosa di assai più grave: con l’eresia, con l’apostasia, e, quindi, per coloro i quali dovrebbero vegliare e vigilare sulla sicurezza del gregge loro affidato, con il tradimento vero e proprio. Perché “tradimento” è l’unica parola che possa rendere tutta la gravità, tutta la perfidia, tutta la spregevolezza, del loro modo di agire (o, come sarebbe più giusto dire, del loro modo di non agire); non ce ne sono altre, o meglio, qualunque altra parola non farebbe che mascherare e minimizzare l’estrema serietà, la cupa drammaticità, del loro modo di comportarsi, entro la cornice generale di un piano di sovversione realmente diabolico, quale mai, nel corso della storia due volte millenaria della Chiesa cattolica, si era dato a vedere. Infatti, quale piano potrebbe essere più diabolico di questo: trasformare la Chiesa di Cristo in una cosa completamente diversa, in una sinagoga di satana, senza che la stragrande maggioranza dei fedeli se ne rendano conto, cioè sorprendendo la loro buona fede, e approfittandosi della fiducia che essi ripongono, purtroppo, nei loro sedicenti pastori, senza sapere che si tratta, in realtà, di vili mercenari, o, peggio, di lupi rabbiosi e di rapaci avvoltoi, pronti a balzare sulle loro pecore per divorarle, cioè, fuor di metafora, per sospingerle verso le fiamme dell’inferno: di quell’inferno che è la destinazione finale delle anime che non temono Dio, e contro il quale i pastori hanno la specifica missione di preservarle, anche a costo, se necessario, di sacrificare la propria vita?
No, non si tratta di una “normale”, per quanto deprecabile, evoluzione, o piuttosto, involuzione, della Chiesa cattolica, verso le forme degradate che le vengono suggerite, e che essa prontamente accoglie, dalla cultura oggi dominante, secolarizzata, irreligiosa, scettica e materialista: è qualcosa di assai più grave. Tutti possono cambiare idea, chiunque può perdere la fede; quello che non è normale, che non è onesto, che non è assolutamente accettabile, è che chi ha cambiato idea, chi ha perso la fede, resti nelle posizioni che occupava, alla guida di una diocesi, come vescovo, o ad occupare una cattedra di teologia, presso una sede universitaria, o presso un seminario, e, intanto, semini la zizzania della sua fede perduta, della sua religiosità putrefatta, facendola passare per merce di prima qualità, e facendo credere che si tratta dell’ultimo grido di una teologia veramente matura, dell’ultima espressione di una fede a misura della società moderna, nella quale ci troviamo a vivere e dalla quale non si può prescindere, in nessun caso, se si vuole annunciare la Parola di Cristo.
Ecco la loro astuzia: contrabbandare per una forma di dialogo, di apertura, per un atteggiamento costruttivo nei confronti del mondo moderno, ciò che è, invece, una resa incondizionata, una sottomissione radicale, un consegnarsi inermi, le mani e i piedi legati, la catena al collo, ai poteri diabolici di questo mondo, alle loro seduzioni, ai loro allettamenti: l’avidità, la concupiscenza, la vanagloria, la smania febbrile di novità ad ogni costo, l’inquietudine che nasce dalla cattiva coscienza e dall’ambizione smodata; e, più grave di tutto il resto, da una superbia intellettuale luciferina, da una pretesa di sapere e di capire tutto, oltre i limiti consentiti alla ragione umana, e molto al di là di ciò che può essere compreso dalle persone comuni, per rendesi simili a Dio. La gnosi, appunto: contro la quale Gesù in persona aveva rotto in una esclamazione di lode a Dio, allorché aveva detto (Mt, 11, 25-26): Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agl’intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli! Sì, o Padre: perché così è piaciuto a Te! Parole che dovrebbero far riflettere quanti si accostano al Vangelo con la riserva mentale che, loro, alla fine, ne capiranno qualcosa più degli altri, ne scoveranno i messaggi segreti, ne esploreranno i meandri insondati, insomma riusciranno ad arrivare là dove tutti gli altri, i fedeli pecoroni, gli uomini dappoco, devono fermarsi, o per insufficienza intellettuale, o per una forma di timidezza e di pudore; mentre loro sapranno riconoscere quelle verità nascoste che fanno capolino fra le righe, e loro soltanto sapranno come svelarle, come interpretarle, perché solo loro possiedono la chiave della conoscenza, e non temono di aprire l’ultima porta, di strappare l’ultimo velo. Non hanno timor di Dio: pensano che si possa costringere il Vangelo a rivelare più di quanto sia accessibile al credente comune, così come il mago sa costringere le forze misteriose presenti nella natura, e anche quelle del mondo degli spiriti, a porsi al suo servizio, e a sottomettersi alla sua volontà.
Difatti, la neochiesa dei nostri giorni trabocca letteralmente di gnostici: da quel generale dei gesuiti, Sosa Abascal, che pretende di sapere che nessuno sa cosa Gesù abbia realmente detto, con la motivazione che, ai suoi tempi, non c’erano registratori per registrare la sue parole (ma lui, implicitamente, sembra convinto di sapere cosa Gesù abbia detto: in che modo, lui solo lo sa), a quel Gianfranco Ravasi, cardinale sempre tronfio e compiaciuto di sé, sempre molto politicamente corretto, che è capace di scrivere un lungo articolo sulla morte per L’Avvenire, citando “il grande Montaigne”, autore non cristiano, e tacendo bellamente (lo aveva notato Antonio Socci) quisquilie come Dio, Gesù Cristo, la resurrezione, la vita eterna, per non parlare del paradiso e dell’inferno. Ravasi è il cardinale che saluta pubblicamente i massoni, chiamandoli, in una lettera pubblica, “cari fratelli” (benché formalmente scomunicati dalla Chiesa cui egli appartiene e che dovrebbe servire, scomunica che non è mai stata ritirata); ma l’elenco completo sarebbe lunghissimo e potrebbe andare avanti con decine e centinaia di nomi, anche di grande risonanza. A nostro parere, la vera radice della neochiesa gnostica e massonica sta proprio qui, in una sconfinata superbia intellettuale, pari solo al protagonismo, al narcisismo e al senso di onnipotenza di certi personaggi. È in questo modo, cioè con la superbia intellettuale e con l’ambizione di trovare una convergenza fra cattolicesimo e deismo illuminista, che si spiega come la massoneria abbia fatto tanti progressi, e così rapidi, nella Chiesa cattolica (oppure la Chiesa nella massoneria?, a questo punto, la domanda è pertinente), tanto da venire pubblicamente lodata da figure autorevoli (si fa per dire), come il defunto cardinale Carlo Maria Martini, universalmente noto come il “papa rosso” e che non pochi avrebbero visto bene sul seggio di san Pietro, nel 2005, al posto di Benedetto XVI.
Sappiamo, del resto, dal 2015, grazie alla pubblicazione di una biografia del cardinale belga Godfried Danneels, scritta da Jürgen Mettepenningen e da Karim Schelkens, che esisteva da anni un gruppo, denominato gruppo di San Gallo, o anche “club mafia”, come lo definiva lo stesso cardinale (contento lui, contenti tutti), che ne era il massimo promotore, impegnato a spingere nell’angolo Benedetto XVI, a isolarlo, a esautorarlo, e ad indurlo alle dimissioni, per sostituirlo precisamente con l’attuale pontefice, Jorge Mario Bergoglio, il quale già nel 2005 aveva sfiorato l’elezione; e ciò allo scopo di affrettare quei cambiamenti della Chiesa cattolica che i porporati del gruppo – di cui faceva parte anche l’impagabile Walter Kasper, il “delfino” del teologo Karl Rahner, grande architetto del Vaticano II – riteneva necessari e indilazionabili. Quando poi si saprà che il cardinale Danneels, su questioni come il cosiddetto matrimonio omosessuale e come l’aborto, la pensava e la pensa in una maniera che non concorda affatto con il Magistero ecclesiastico – o, almeno, non concorda con il Magistero, quale esso è stato fino all’elezione di papa Francesco – forse le cose cominceranno a diventare più chiare. Oppure bisogna attribuire ad una mera coincidenza il fatto che, proprio in questi ultimissimi anni, questioni come l’aborto e le unioni omosessuali siano tornate prepotentemente alla ribalta nella Chiesa cattolica, a volte come “uscite” imbarazzanti ed estemporanee (o apparentemente tali), come il maldestro outing di monsignor Charamsa, proprio alla vigilia del sinodo sulla famiglia; altre volte, come nel caso del gesuita James Martin, in maniera estremamente calcolata, pianificata, sistematica, con tanto di “studi teologici” apertamente pubblicati, nei quali si invita la Chiesa, senza mezzi termini, ad “aprire” ai matrimoni omosessuali? Oppure ancora, parlando dell’aborto, è da considerarsi una mera combinazione che appena un paio d’anni dopo essere stato eletto, papa Francesco abbia concesso ai confessori di assolvere le donne dal peccato di aborto, mentre prima ci voleva l’assoluzione del vescovo, e che tale concessione, decisa per l’apertura dell’anno giubilare straordinario, il 2015, si stata poi allargata, sempre per volontà esplicita del papa, fino a renderla una prassi ordinaria? Insomma: è un caso che le idee di Danneels siano “filtrate” così velocemente nella Chiesa, dopo l’elezione di Bergoglio, e che stiano dando dei frutti così inattesi e abbondanti? Vediamo.
Fino a quattro anni fa, quei temi erano assolutamente tabù: per il Magistero, aborto, unioni omosessuali e cose del genere erano peccati molto gravi, senza “se” e senza “ma”. Poi, dopo l’elezione di papa Francesco, si comincia a parlare apertamente di una revisione nei loro confronti, si abbonda in “perdono” e in “misericordia”, si raccomanda ai confessori la virtù del “discernimento”, li si esorta ad “accompagnare” le persone che sono state “ferite”. Frattanto, il gesuita Martin dichiara che molti santi, probabilmente, erano gay, e un teologo abortista, l’anglicano Nigel Biggar, viene chiamato da monsignor Paglia a far parte della Pontificia Accademia per la Vita. Sembrerebbe uno scherzo di cattivo gusto, invece, purtroppo, è la pura verità. Oh, ma niente paura, perché il buon Paglia si è affrettato a ribadire che “il nostro no all’aborto è totale”: rassicurazioni che somigliano moltissimo a quelle della diva che giura e spergiura che il suo matrimonio sta andando a gonfie vele, mentre i suoi avvocati stanno dando battaglia quelli del dolce consorte dal quale sta già divorziando. Certo, il papa ribadisce che l’aborto è un peccato “molto grave”; però, per far capire quanto esso sia grave, comincia col togliere la facoltà di assolverlo ai soli vescovi, e la demanda ai comuni sacerdoti, nel Sacramento della Confessione, come si fa per i peccati di minor conto. Non è molto logico, vero? Oppure lo è fin troppo, se il tutto viene collocato in un’altra prospettiva: quella del “gruppo di San Gallo”, e, più in generale, del grande complotto per attuare un silenzioso colpo di stato nella Chiesa cattolica; per esautorare gli ultimi esponenti della vera dottrina cattolica, retrocedendoli al rango di ”fanatici”, come ha detto, a chiare note, il papa nella sua omelia del 19 maggio 2017, cominciando a gettare la maschera; e per consegnare l’intero edificio nelle mani dei progressisti e dei modernisti, all’insegna della riabilitazione di preti come Lorenzo Milani, ribelle all’autorità della Chiesa, poco cattolico quanto alla dottrina e alla pastorale, nonché moralmente discutibile. Tutto ciò ricorda molto la strategia della “rana bollita”: si mette la rana in pentola, nell’acqua, che poi viene riscaldata lentamente, molto lentamente, così lentamente che la bestiola non se ne rende neppur conto, e, quando comincia ad accorgersene, perché l’acqua è sul punto di bollire, ormai è troppo tardi, la rana è spacciata e può solo rassegnarsi a finire sul piatto dei golosi commensali.
di Francesco Lamendola del 29-06-2017
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