Che relazione c’è fra peccato e castigo?
Qualche tempo fa il mondo della cultura cattolica, o quella che si spaccia per tale, è stato messo a rumore – ma non quanto sarebbe stato giusto – dalla presa di posizione del teologo domenicano padre Giovanni Cavalcoli, che, dai microfoni di Radio Maria, aveva istituito una correlazione fra le calamità naturali che talvolta colpiscono gli uomini, in quel caso, il terremoto, e i peccati da loro commessi, in quel caso, la sodomia e l’approvazione, in parlamento, dei cosiddetti matrimoni omosessuali. Non lo avesse mai fatto: si è subito prodotta una levata di scudi contro di lui, e la sua “testa” è stata perentoriamente richiesta, e subito concessa, al direttore di Radio Maria. Fra tutti quelli che hanno voluto dire la loro su quanto aveva affermato padre Cavalcoli, sia al di fuori, sia, soprattutto, all’interno della Chiesa, non si è sentita quasi nessuna voce in sua difesa, tanto che egli ha dovuto difendersi da solo, ribadendo la perfetta legittimità della sua affermazione. Viceversa, vi è stata una specie di gara nel ricoprirlo di critiche, d’ironie, di apprezzamenti pesantissimi, evidenziando la sua (supposta) mancanza di sintonia con gli indirizzi attuali della Chiesa e, soprattutto, la mancanza di “misericordia” – parola oggi decisamente inflazionata – nella sua prospettiva teologica. Scaricato da tutti, dal vescovo al papa, dopo essere stato messo alla berlina sui mass media e portato ad esempio, ovviamente in negativo, di una Chiesa che non vuol rinnovarsi e che guarda soltanto al passato, è stato praticamente ridotto al silenzio.
Nella Chiesa di papa Francesco, nella quale è lecito a monsignor Paglia tessere i più alti elogi di Marco Pannella, a monsignor Galantino affermare che Dio ha risparmiato Sodoma, a padre Martin auspicare i matrimonio omosessuali, a padre Sosa Abascal affermare che i Vangeli non riferiscono fedelmente quel che Gesù ha detto, e negare che il diavolo esista, e al vescovo Julian Barrio ordinare sacerdoti due omosessuali dichiarati e conviventi; e in cui il papa stesso dichiara che le Persone della Santissima Trinità litigano continuamente fra di loro, e che Gesù, sulla croce, si è fatto diavolo, “brutto da fare schifo”, ebbene, in questa chiesa non è lecito a un teologo ricordare che i peccati degli uomini hanno come conseguenza degli effetti disastrosi, non solo sul piano morale, ma anche su quello fisico. Il guaio è che non si tratta di una stravaganza di padre Cavalcoli, ma della posizione che il Magistero ha sempre avuto su questo argomento, corroborata dalla Scrittura e dalla Tradizione. Perciò, il teologo domenicano ha perfettamente ragione quando ribatte ai suoi accusatori che dovrebbero vergognarsi loro, semmai, per aver celebrato Lutero, che era un eretico, non lui, che non ha detto niente di eretico e niente di strano, ma ha semplicemente ripetuto un concetto che è essenziale nella teologia morale cattolica.
Ecco, questo è un nodo cruciale: e chi non lo ha capito, non ha capito quale sia la reale posta in gioco, in questi mesi, in questi anni, riguardo al futuro della Chiesa cattolica. E allora domandiamoci: perché quella levata di scudi contro il discorso di padre Cavalcoli; perché tanto accanimento nel voler smentire, cancellare, rimuovere le sue affermazioni, come se fossero qualcosa d’intollerabile, di osceno? Perché, dietro la critica alla correlazione fra peccato e terremoto, vi è una questione molto più grossa in ballo, che nessuno (per ora) vuol dire apertamente, ma che, da molti segnali, si capisce che sarà il prossimo banco di prova dei modernisti nella loro diuturna, tenace, progressiva campagna per “normalizzare” la Chiesa secondo i loro postulati: quella del peccato in sé e per sé. In questa fase, l’obiettivo dei critici di padre Cavalcoli è – oltre a contare le loro forze e testare, come sempre, il grado di reazione, o di assenza di reazione, da parte delle forze cattoliche ancora sane, cioè fedeli alla vera dottrina – è quello di demolire definitivamente la correlazione fra peccato e conseguenze del peccato: ciò che, per semplificare, di solito si chiama “castigo”, ma che può indurre in errore, quasi che Dio attuasse una “vendetta” immediata contro i peccatori, mentre sono i peccatori stessi a punirsi da sé, sia pure in maniera indiretta e inconsapevole.
Una volta accertato che tale correlazione è stata rimossa e archiviata, i signori modernisti passeranno alla fase due: la rimozione e l’archiviazione dell’idea stessa di peccato. Di fatto, lo stanno già facendo, con il papa in testa, in una maniera subdola e soft: non parlando mai del peccato, e tanto meno delle sue conseguenze. Non parlare del peccato, per un teologo cattolico o per un vescovo o un sacerdote cattolico, è lo stesso che negarlo: sarebbe come se un commissario di polizia non parlasse più dei crimini, o come se un vulcanologo non parlasse più delle eruzioni vulcaniche, o un medico non parlasse più di virus, di batteri, di malattie e di terapie per sconfiggere, o prevenire, le malattie. In compenso, teologi, vescovi e sacerdoti di tendenza modernista, parlano in continuazione di giustizia sociale, di diritti sociali, di accoglienza dei migranti, di inclusione dei diversi; parlano molto di scuse che la Chiesa deve porgere a destra e a sinistra, agli omosessuali per averli discriminati, ai luterani per non averli ascoltati, ai musulmani per le crociate di otto secoli fa, e ai giudei perché gli evangelisti hanno avuto l’indelicatezza di scrivere che Gesù Cristo non è morto di raffreddore, ma è stato messo in croce per volontà dei sacerdoti e dei capi del popolo di Gerusalemme.
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di Francesco Lamendola del 06-06-2017
Divorziati risposati, i limiti della colpa
«A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato - che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno - si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (AL = Amoris laetitia 305).
AL 305 vanifica i discorsi sulla santità dell’Eucaristia e il criterio di quanti vi devono o non vi devono essere ammessi? Qualcuno lo sostiene, ma il discorso è più complesso.
NECESSARIE DISAMBIGUAZIONI
Facciamo il punto: di chi sta parlando AL 305? Parla di coppie non “regolarmente e cattolicamente” sposate - semplici conviventi, sposati solo civilmente, divorziati risposati ecc. -, con un periodo di convivenza che garantisca la serietà e l’impegno e magari con figli, coppie che praticano normali rapporti sessuali e che si sentono o possono essere veramente in grazia di Dio per via di fattori attenuanti. E che di conseguenza accedono all’Eucaristia.
La questione che si pone è: come fanno costoro ad essere a posto o a sentirsi tali? Le risposte possono essere molte, anche se quella accettabile sembra una sola:
1. O perché tra persone “libere” da vincoli matrimoniali è possibile l’attività sessuale sia subito, sia con maggiori ragioni dopo un periodo di convivenza. Ma questo non può stare in piedi ed è talmente ovvio che risparmio le citazioni magisteriali di supporto.
2. O perché, pur continuando a sussistere canonicamente un precedente matrimonio, dopo una nuova unione consolidata è possibile avere rapporti sessuali per tante ragioni, quali il “bene essere” della nuova unione o, più in radice, perché la morte dell’amore ha portato con sé anche la morte del precedente matrimonio. Ma questo non può stare in piedi: il matrimonio non può essere sciolto, i coniugi restano tali davanti a Dio e gli atti sessuali sono leciti solo all’interno del matrimonio valido (CCC 1614, 1640, 2382, 1649, 2390). A meno di entrare nella prospettiva di alcune Chiese ortodosse, le quali però prevedono un secondo matrimonio con dei testi liturgici da far morire di vergogna i nubendi: «Dona loro la conversione del pubblicano, le lacrime della cortigiana, la confessione del ladrone ... abbi pietà delle colpe dei tuoi servi, che non avendo sopportato la calura della giornata e la febbre della carne, vengono ad unirsi con un secondo legame matrimoniale».
3. Per ignoranza della norma o per una diminuita pienezza dell’atto volontario. Questa sembra l’unica via praticabile per interpretare cattolicamente AL 305.
CONOSCERE E NON CONOSCERE?
Prendiamo dunque in considerazione le attenuanti, che AL descrive tenendo conto della situazione attuale: «I limiti [di certe situazioni] non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma» e, «pur conoscendo bene la norma, un soggetto può avere grande difficoltà nel comprendere valori insiti nella norma morale» (AL 301). Altri condizionamenti nascono da violenza, timore, immaturità affettiva, angoscia, fattori psichici e sociali (cf AL 302, che cita a sua volta il CCC 1735 e altri documenti).
Mentre gli ultimi condizionamenti sono scontati, il discorso sull’ignoranza è relativamente nuovo: ci può essere ignoranza anche conoscendo la norma! Perché l’affermazione non risulti contraddittoria (conoscere e nello stesso tempo essere ignoranti), penso che bisogna distinguere tra la conoscenza di una affermazione e l’accettazione della sua autorevolezza. La quale autorevolezza viene minata o per lo meno diluita quanto più l’informazione è abbondante. La presenza di tantissime informazioni non “dall’altra sponda” ma dalla stessa comunità cristiana di appartenenza, fa sì che esse si relativizzino a vicenda e siano poste sullo stesso livello di elenco di notizie o di pareri. Da qui la difficoltà a comprendere i valori insisti nella norma morale (anche grazie alla spintarella di qualche teologo...); da qui una maggior facilità ad emettere un giudizio di coscienza difforme dalla norma soprattutto quanto si tratta di resistere alla seconda serie di condizionamenti quali immaturità, angoscia, modelli sociali ecc.: «Ma se uno (vescovo) dice così o un altro (vescovo) dice cosà, chi me lo fa fare a caricarmi della croce solo per seguire il parere di alcuni che non è condiviso da altri? E poi ho sentito dire che ci sono delle aperture da parte di papa Francesco...». Quante persone reagiscono così, condizionate dalle tante notizie, dalle immagini, dalla comunicazione informatica?
Anche se espresso in modo un po’ scanzonato, tutto questo porta a una conclusione seria: parecchia gente è così e seriamente la pastorale da qui deve partire.
Ma c’è un’altra conclusione altrettanto seria: così non dovrebbe essere, perché una buona frequentazione della comunità cristiana dovrebbe produrre un’altra situazione e non ci si può rassegnare ad accettare il dato di fatto.
COLORO CHE SI AUTOASSOLVONO
Sorge allora l’interrogativo: che fare per non trasformare in normale e abituale la situazione descritta in AL 305? La riposta è diversa a seconda di due gruppi di persone implicate:
- quanti, “irregolari”, in un modo o nell’altro si sentono “a posto” in forza di AL 305 e dunque hanno deciso di accedere all’Eucaristia senza più consultarsi con un sacerdote «o con laici che vivono dediti al Signore» (AL 312) (tra questi vanno annoverati anche quanti si sono consultati una volta con un prete, il quale ha detto loro che va bene così);
- quanti, “irregolari”, chiedono consiglio e instaurano un rapporto dialogico con un prete o con dei laici “dediti al Signore”.
Riservando a un successivo intervento alcune considerazioni sul secondo tipo di persone, consideriamo qui i primi, cioè persone che non possono essere “agganciate” direttamente in un dialogo pastorale.
Riguardo a questa tipologia, è anzitutto scorretto generalizzare, come se tutti o la maggior parte degli “irregolari” fossero nella situazione descritta in AL 305: ancora oggi c’è chi conosce in modo giusto la dottrina di Cristo e della Chiesa e, quando sbaglia, si ritiene peccatore! Anzi, si tratta di un piccolo gruppo, se consideriamo che AL 305 comporta la clausola «... che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno» e che il giudizio erroneo ma in buona fede della coscienza non lo si può presupporre «quando l’uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine del peccato» (GS 16). Se applichiamo questi due criteri, quanti restano presumibilmente in grazia pur «entro una situazione oggettiva di peccato» (AL 305)?
“LE COSE SANTE AI SANTI!”
In ogni caso, non potendo agganciare le singole persone, la Chiesa è tenuta a predicare l’ideale del matrimonio e questo va da sé. Ma più in profondità la Chiesa è tenuta a salvaguardare la santità dell’Eucaristia e il modo santo di accedervi.
San Giustino nel sec. II scriveva: «Questo cibo è chiamato da noi Eucaristia e a nessun altro è consentito parteciparne eccetto a colui che crede essere vere le cose insegnate da noi e a colui che si sarà bagnato nel lavacro per la remissione dei peccati e per la rigenerazione e che vive nel modo che Cristo ha insegnato» (Apologia I,66,1). È così scontato che molti “irregolari” vivano nel modo che Cristo ha insegnato?
Molte liturgie orientali prima della comunione prevedono l’ammonimento: «Ta àghia tois aghìois / Le cose sante ai santi». Ne è testimone già Cirillo di Gerusalemme al sec. IV nella Catechesi mistagogica V,19, il quale parla anche di “tremenda vittima” o “sacrificio terrificante” (V,9) presente nell’Eucaristia (nota bene: “dopo il concilio” la Catechesi è citata con compiacenza sul prendere la comunione in mano [V,21], ma ci si guarda bene dal citare V,9 sul “sacrificio terrificante”!). Certo, non si tratta di introdurre parole e riti estranei alla nostra liturgia latina, ma di parlare dell’Eucaristia “anche” in questo senso: accedere all’Eucaristia è accostarsi a un roveto ardente, a un sacrificio benevolmente tremendo, che richiede sempre un esame della nostra vita, della nostra situazione. E forse, accedendo con questa coscienza, si esaminerebbe meglio la propria vita e non sarebbe così facile dichiararsi in grazia di Dio pur entro una situazione oggettiva di peccato.
Ma infine può capitare che qualcuno sia realmente convinto di non trovarsi in peccato grave per via delle attenuanti, in primis l’ignoranza nella accezione contemporanea evocata prima. Ebbene, san Tommaso d’Aquino ritiene che se uno riceve l’Eucaristia «in peccato mortale senza averne coscienza e affetto» (questa frase sembra richiamare la clausola di AL 305), accostandosi all’Eucaristia «con devozione e riverenza, attraverso l’Eucaristia conseguirà la grazia della carità, la quale porterà a compimento la contrizione e la remissione del peccato» (III, q 79, a 3).
Cioè l’Eucaristia stessa porterà a far evolvere la situazione verso la verità della dottrina e della vita. Perché la situazione descritta in AL 305 è vera, ma non può che essere transitoria.
06-06-2017
1. continua
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