Il relativismo teologico, ultima tappa nell’autodistruzione del cristianesimo
La cultura moderna ha prodotto il relativismo, una “scoperta” di cui va particolarmente fiera, dato che lo considera la quintessenza della “civiltà” e il criterio per distinguere ciò che è civile da ciò che è incivile (chi crede in qualcosa di vero, per essa, è un ”fondamentalista”, cioè un fanatico e un barbaro: specialmente se è un europeo); il relativismo, a sua volta, ha prodotto l’autocensura e l’autodistruzione del pensiero; l’autocensura e l’autodistruzione del pensiero hanno generato, a loro volta, il disprezzo di sé, delle proprie radici, della propria identità, e specialmente dei suoi fondamenti ultimi: filosofici, spirituali e religiosi.
Il relativismo è la tipica tendenza filosofica delle società decadenti, mai sazie di giochi intellettuali e desiderose di trovare una passabile giustificazione al loro lassismo etico. Il relativismo è comodo, sotto parecchi punti di vista: intellettuale, perché evita la fatica del pensare; morale, perché dispensa dal dovere di scegliere; perfino culturale, perché offre uno spazio e una illusione d’importanza anche agli intellettuali falliti, agli artisti mancati, agi scrittoi velleitari, ai filosofi scadenti, e così via. Una cultura la quale adotti, a maggioranza, un credo relativista (il che, peraltro, è una contraddizione in termini: se c’è il relativismo, vuol dire che quella società non crede a niente), è il terreno adatto perché vi prosperino ogni sorta di spostati, di parassiti e di maniaci, per giunta con l’ambizione di essere qualcuno e di avere una missione fondamentale da svolgere per il progresso e per la consapevolezza del genere umano. Se non esiste alcun criterio assoluto di oggettività, verità, giustizia, bellezza e anche di bontà, allora c’è posto per tutti, e specialmente per i peggiori. Chi, infatti, ricaverà maggiori vantaggi dall’instaurarsi di un clima così innaturale, così malato, di quegli individui i quali, in condizioni normali, non avrebbero alcuna seria possibilità di affermarsi, né come artisti, né come pensatori, né come politici, né come professionisti, ma, semmai, solo e unicamente come avventurieri, imbroglioni e ciarlatani? A chi fa comodo il pensiero debole, se non ai filosofi di mezza tacca, o l’arte informale, se non agli artisti senza talento, o lo sviluppo a pagamento di una “coscienza cosmica”, se non a dei venali mercanti di fumo?
Il relativismo, filosoficamente, si manifesta sotto due aspetti: o come storicismo, situazionismo, contestualismo, cioè come la pretesa di ridurre ogni verità al contesto specifico di questa o quella cultura, a cominciare dal linguaggio, che muta continuamente, o come decostruzione, ossia come distruzione sistematica di ogni criterio di verità, mostrando l’inadeguatezza, la fragilità e, magari, l’ipocrisia di ogni pretesa verità: capofila della prima tendenza si può considerare Wittgenstein, o anche il suo maestro Russell; della seconda, Nietzsche, e, in seconda battuta, Derrida. Insuperabili maestri del sospetto, abilissimi costruttori di cavilli, sofismi e ragionamenti capziosi, questi signori sono praticamente imbattibili sul terreno astratto delle chiacchiere; un po’ meno, anzi, appaiono decisamente patetici, sul terreno della vita concreta. perché nella vita concreta non c’è spazio per troppi sofismi. Essa è fatta di scelte, anche minime, ma continue: qualsiasi persona ne fa decine ogni giorno, e ad ognuna di essere corrisponde – anche se costoro si farebbero amputare un braccio piuttosto che ammetterlo – dei ben precisi giudizi di valore. In pratica, si sceglie una cosa invece di un’altra, perché la si ritiene migliore, e quell’altra, peggiore: questa è la nuda verità dei fatti. E non ci sono chiacchiere che possano modificare questo fatto, nudo e semplice.
Il relativismo, filosoficamente, si manifesta sotto due aspetti: o come storicismo, situazionismo, contestualismo, cioè come la pretesa di ridurre ogni verità al contesto specifico di questa o quella cultura, a cominciare dal linguaggio, che muta continuamente, o come decostruzione, ossia come distruzione sistematica di ogni criterio di verità, mostrando l’inadeguatezza, la fragilità e, magari, l’ipocrisia di ogni pretesa verità: capofila della prima tendenza si può considerare Wittgenstein, o anche il suo maestro Russell; della seconda, Nietzsche, e, in seconda battuta, Derrida. Insuperabili maestri del sospetto, abilissimi costruttori di cavilli, sofismi e ragionamenti capziosi, questi signori sono praticamente imbattibili sul terreno astratto delle chiacchiere; un po’ meno, anzi, appaiono decisamente patetici, sul terreno della vita concreta. perché nella vita concreta non c’è spazio per troppi sofismi. Essa è fatta di scelte, anche minime, ma continue: qualsiasi persona ne fa decine ogni giorno, e ad ognuna di essere corrisponde – anche se costoro si farebbero amputare un braccio piuttosto che ammetterlo – dei ben precisi giudizi di valore. In pratica, si sceglie una cosa invece di un’altra, perché la si ritiene migliore, e quell’altra, peggiore: questa è la nuda verità dei fatti. E non ci sono chiacchiere che possano modificare questo fatto, nudo e semplice.
L’ultimo passo sulla via del totalitarismo relativista è stato segnato dall’avvento del relativismo teologico. Da che mondo è mondo, la teologia non va d’accordo col relativismo: non potrebbe, anche se lo volesse; ebbene, i teologi moderni, o piuttosto modernisti, hanno trovato il modo di sposare il relativismo nei suoi due aspetti, contestualismo e decostruttivismo, contemporaneamente. Il processo è incominciato con la cosiddetta “svolta antropologica”: sostituendo il punto di vista umano, che è relativo, a quello divino, che è assoluto, si è imboccata fatalmente la strada dell’auto-dissoluzione della teologia. La ragion d’essere della teologia è la presunzione di verità – ma non di una verità qualsiasi, bensì della verità assoluta – riguardo a una ed una sola religione: se tutte le religioni sono “vere”, allora la teologia non ha più ragion d’essere. La teologia non può sostenere la verità del cristianesimo e, nello stesso tempo, sostenere che anche il giudaismo, l’islamismo, il buddismo, l’induismo, e magari l’ateismo, sono altrettanto veri, o che servono in egual modo a condurre fino alla verità (e alla salvezza). Questa sarebbe una follia: eppure, è la strada che ha imboccato la teologia modernista. Ma perché la follia fosse completa, e non vi mancasse nulla, ha imboccato anche l’altra strada: quella del decostruttivismo. Quando il generale dei gesuiti, Sosa Abascal, afferma che noi non sappiamo cosa abbia realmente detto Gesù, perché, al suo tempo, non esistevano i registratori, e questo dopo aver sostenuto che le cose dette da Gesù devono essere debitamente contestualizzate e riportate a quella lingua, l’aramaico, a quel luogo, a quel momento storico, è come se dicesse: finora abbiamo scherzato, il cristianesimo, come lo conosciamo, è solo un’invenzione degli evangelisti, per cui occorre ripartire da zero. Insomma, per essere sicuro di azzerare la fede cristiana, prima contestualizza al massimo le parole di Gesù, per evitare che qualcuno le legga in senso assoluto e non relativo, poi dice che il loro senso ci sfugge comunque, perché forse non le hanno riportate fedelmente. Alla faccia della divina ispirazione della Scrittura e del fatto che, per un teologo, i Vangeli non sono quattro libri qualsiasi, scritti come si scrive un qualsiasi libro da un qualsiasi autore umano.
A questo proposito, osservava Marcello Pera, filosofo della scienza ed ex Presidente del Senato italiano, nella sua lectio magistralis su Il relativismo, il cristianesimo e l’Occidente, tenuta il 12 maggio 2004 alla Pontificia Università Lateranense (in: Marcello Pera, Joseph Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Milano, Mondadori, 2004, pp. 24-27):
… Da tempo il relativismo è penetrato anche nella teologia cristiana, l’ultima roccaforte che esso non aveva ancora espugnato, sostituendovi tanto l’esclusivismo quanto l’inclusivismo. La conquista ha proceduto nel modo consueto. Si è partiti dall’osservazione fenomenologica della pluralità dei credi e delle religioni, si è proceduto con la comparazione, si è disperato nel metacriterio, si è finito con la messa in questione dei credi fondamentali (è l’ultimo stadio, quello della reinterpretazione o decostruzione dei fatti).
Il percorso del teologo Paul Knitter è tipico. “Il presupposto fondamentale del pluralismo unitivo” egli ha scritto “è che tutte le religioni sono o possono essere ugualmente valide. Ciò significa che i loro fondatori, i personaggi religiosi che stanno dietro ad esse, sono o possono essere ugualmente validi. Ma ciò potrebbe dischiudere la possibilità che Gesù Cristo sia ‘uno tra i tanti’ nel mondo dei salvatori e dei liberatori. E il cristiano non può semplicemente riconoscere una cosa del genere, o lo può?” (P. Knitter, “Nessun altro nome?”, Brescia, Queriniana, 1991, p. 44).
Per quanto inaudito da parte cristiana, secondo Knitter, LO PUÒ. È così che teologi come lui,John Hick e parecchi altri hanno cercato di rivedere i punti fondamentali – e, appunto, universali – della cristologia tradizionale. “Ego sum via, veritas et vita”; “extra Verbum nulla salus”, “Gesù è l’unigenito Figlio di Dio”, “Non c’è altro nome nel quale possiamo essere salvati”: queste e altre affermazioni del Vangelo, secondo i teologi relativisti, dovrebbero essere rivedute o intese diversamente. Come? Contestualizzandole o decostruendole.
“Gli autori del Nuovo Testamento” ha scritto Knitter “quando parlano di Gesù non usano il linguaggio dei filosofi analitici ma quello di credenti entusiastici, non il linguaggio degli scienziati ma quello di chi ama”. E se colui che ama dice: “Gesù è l’unico amore”, ciò va inteso, sostiene ancora Knitter, nel senso che un marito usa nei confronti di sua moglie (o viceversa): “Sei la donna più bella del mondo, sei l’unica donna per me” (Ibid., pp. 155-156). Insomma, dire: “Gesù, ti amo” sarebbe né più né meno come dire: “Cara, ti voglio bene”. Naturalmente, i competenti, cioè i filosofi analitici e gli scienziati, non possono usare un linguaggio così terra terra, e neppure in camera da letto si lascerebbero andare a tali confidenze linguistiche. Essi devono parlare in modo più educato e corretto. E siccome sono relativisti, questi competenti altro non possono fare sede non parlare relativisticamente e relativizzare anche Gesù.
ma perché il povero credente incolto dovrebbe convertirsi a questa “neolingua” dei competenti filosofi analitici? la ragione – come ha scritto ancora il cardinale Ratzinger – sta nel fatto che “il ritenere che vi sia realmente una verità, una verità vincolante e valida nella storia stessa, nella figura di Gesù Cristo e della fede della Chiesa, viene qualificato come fondamentalismo (J. Ratzinger, “Fede, verità, tolleranza”, Siena, Cantagalli, 2003, p. 124). E poiché il fondamentalismo è oggi un nuovo peccato capitale, meglio votarsi al relativismo, tanto più che – ha scritto ancora il cardinale Ratzinger – “il relativismo appare come il fondamento della democrazia” (Ibid., p. 121).
Questa dunque è la risposta che all’incolto credente dà il teologo competente: un suggerimento ad autocensurarsi. Il credente in Cristo non può dire che Cristo sia LA Verità, perché ciò sarebbe dogmatico e antistorico. Né può dire che Cristo sia L’UNICA verità, perché ciò sarebbe fondamentalismo.
Il cardinale Ratzinger nega valore a questa tesi e anch’io trova che sia contraddittoria, falsa e controproducente per il cristiano. Contraddittoria: se con il relativismo si sostiene che non esistono fondamenti, allora neppure il relativismo può essere il fondamento della democrazia. Falsa: la democrazia presuppone a proprio fondamento i valori della persona, della dignità, dell’uguaglianza, del rispetto; togliete valore a questi fondamenti e avrete tolto la democrazia. E controproducente: se, relativisticamente, una verità equivale all’altra, a che scopo il dialogo? E se, nella fede, non esiste la Verità, come ci si può salvare?
In realtà, io credo, parlare di un cristiano relativista è un ossimoro, che anziché al dialogo porta all’apostasia. E il punto contro cui anche questo relativismo cozza è lo stesso contro cui cozzano tutti i relativismo: un FATTO, più precisamente, come lo ha chiamato monsignor Angelo Scola, il “fatto cristiano”, il quale consiste “nella decisione della Verità trascendente” – il “Deus Trinitas” – di comunicarsi in forma gratuita, vivente e personale all’uomo” (A. Scola, “Cristianesimo e religioni nel futuro dell’Europa”, in “L’identità dell’Europa e le sue radici”, Edizioni del Senato, Soveria Mannelli, Rubbettino, 202, p. 39).
di Francesco Lamendola del 21-06-2017
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