ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 18 luglio 2017

La Dottrina divide?

PERSERVARE LA "VERA" DOTTRINA
Preservate l’integrità della dottrina, ammoniva san Pio X; il che è la stessa cosa che dire: Non allontanatevi mai dalla Verità; non da una verità qualsiasi, da una verità di comodo, ma la sola Verità che reca alla salvezza                                                                                          di Francesco Lamendola                                                                 



Nel corso della messa di santa Marta del 19 maggio 2017, il papa ha tenuto una omelia sorprendente, affermando che la vera dottrina cattolica unisce, mentre la dottrina, quando divide, è cattiva e ciò significa che è diventata ideologia. Stranissima affermazione, aggravata dall’epiteto di “fanatici” che il santo padre ha dispensato a quanti restano saldi nella dottrina cattolica, così come essa è sempre stata insegnata e custodita dal sacro Magistero. A quanto pare, la dottrina serve a “unire”, sempre e comunque: ma a unire con chi, e in che senso? A unire i cattolici coi non cattolici, passando sopra la dottrina stessa, retrocessa al rango di anticaglia archeologica e di fastidiosa zavorra del passato? E la dottrina diventa cattiva, se “divide”: ma se divide da chi, da che cosa? Se divide i cattolici dai malvagi, dai nemici di Cristo e della Chiesa, davvero la dottrina è cattiva? Se li divide dai criminali che decapitano i cristiani, solo perché cristiani, davvero è una cosa sbagliata? Francamente, l’idea espressa dal pontefice in quella omelia non sembra affatto in linea con il Magistero di sempre: è uno dei segnali che egli sta cambiandola Chiesa, come aveva promesso di voler fare, subito dopo essere stato eletto.

Rileggiamoci cosa dice il Nuovo Testamento riguardo a ciò che unisce e a ciò che divide: Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il foglio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa (Matteo, 10, 34-36). Queste sono le precise parole di Gesù (precise, checché ne pensi padre Arturo Sosa Abascal, il nuovo generale dei gesuiti, il quale ha dichiarato che noi non  sappiamo cosa disse esattamente Gesù Cristo, visto che a quell’epoca non esistevano i registratori). Ed ecco le parole di san Giovanni, nella prima epistola che porta il suo nome (5, 19): Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del maligno. A quanto pare, né Gesù Cristo, né san Giovanni, consideravamo un problema il fatto che il Vangelo, cuore della dottrina cristiana, crei delle divisomi all’intermo della società e perfino delle singole famiglie; al contrario, consideravano tali divisioni come inevitabili e necessarie, perché, senza di esse, non ci sarebbe stata, da parte dei seguaci di Gesù, una vera adesione agli insegnamenti del Maestro. L’attuale pontefice si ritiene dunque in diritto di modificare sia la lettera che lo spirito della Bibbia, capovolgendo le precise indicazioni di Gesù e dei suoi Apostoli? Se è così, allora bisogna che qualcuno lo dica ad alta voce, che qualcuno lo faccia notare; mentre lo spettacolo sconfortante a cui stiamo assistendo è quello di un silenzio assordante da parte dei media cattolici, a cominciare dalla Radio Vaticana, e anche dei cardinali e dei vescovi, i pastori della Chiesa di Cristo, o, peggio, di un loro sforzo costante per rendere perfettamente accettabili le parole del papa, oscurandone il carattere profondamente eversivo e facendo a gara nella servile adulazione del suo stile, dei suoi discorsi,  e profondendosi in una esegesi ingannevole e truffaldina di essi, il cui scopo è accompagnare e favorire un radicale cambiamento nella dottrina cattolica, senza che i cattolici se ne rendano conto. In altre parole, favorire una generale apostasia dei cattolici da quella stessa fede che ritengono di professare.
Può essere d’aiuto, in tempi così torbidi e tristi, abbeverarsi alle sorgenti della pura dottrina e del sano e veritiero Magistero, quale la Chiesa lo ha sempre insegnato, almeno fino alla rivoluzione operata dal Concilio Vaticano II. In questo caso, fa bene all’anima andarsi a rileggere quel che affermava uno degli ultimi grandi papi nella storia della Chiesa, san Pio X, che molti hanno accusato di oscurantismo, di pessimismo antropologico e di aver assunto un atteggiamento retrivo di fronte alla civiltà moderna e alle sue sollecitazioni, mentre è vero il contrario: che quest’umile ex parroco di campagna, venuto su da una sana civiltà contadina e giunto al soglio pontificio passando per tutti i gradini della gavetta, seppe vedere e comprendere l’avvicinarsi di un pericolo terribile per la sopravvivenza della Chiesa, che veniva non tanto dall’esterno, quanto dalle sue stesse viscere: lo spirito del modernismo. E lo seppe vedere, e vi seppe reagire con pronta decisione, mentre la maggior parte dei cardinali e dei vescovi, per non parlare dei teologi e degli uomini di cultura cattolici, non videro un bel nulla, o, peggio, videro, sì, le svariate forme del modernismo, che insidiosamente si avvicinavamo e penetravano nel cuore stesso della Chiesa, ma sottovalutarono clamorosamente il pericolo, o lo ignorarono, o lo scambiarono addirittura per un apporto positivo, per un utile aggiornamento della dottrina e della vita cattolica, per una preziosa occasione di rimettersi “al passo coi tempi”, dopo che la Chiesa aveva perso fin troppo tempo, attardandosi su posizioni vecchie e superate. Guarda caso, sono gli stessi discorsi che faceva il defunito cardinale Carlo Maria Martini, il quale lamentava che la Chiesa fosse in ritardo di almeno due secoli rispetto al doveroso aggiornamento pastorale e dottrinale di cui abbisognava. E, guarda caso, l’ombra inquietante della massoneria si stende sia dietro le avanguardie moderniste dei primi anni del ventesimo secolo, contro le quali lottò con fermezza san Pio X, sia dietro l’operato di illustri porporati degli ultimi decenni del secolo scorso, come appunto il cardinale Martini: sarà una mera coincidenza? Lasciamo che ciascuno giudichi da sé, con retta coscienza e sulla base, oltre che della fede, anche di un sano, elementare buon senso.
San Pio X sarebbe morto il 20 agosto 1914: il cuore spezzato dal dolore per lo scoppio dell’immane catastrofe mondiale, che egli aveva presentito e aveva visto arrivare, senza poter far nulla per fermarla, riconducendo i cuori e le menti alla ragione. Il 27 maggio, meno di tre mesi prima di esalare l’ultimo respiro, il papa pronunciò, davanti a ventisei cardinali, fra i quali era anche il suo successore, Giacomo Della Chiesa, il futuro Benedetto XV, un’allocuzione  che, per molti aspetti, si può considerare il suo testamento spirituale. Ai nuovi porporati, ricordò che il loro compito era mantenere intatto il deposito della fede e custodire l’ecclesiastica disciplina e resistere ai subdoli assalti  a cui è fatta segno la Chiesa, non tanto per parte di aperti nemici, ma specialmente degli stessi suoi figli.E volle precisare, contro ogni facile ottimismo, che Siamo purtroppo in un tempo in cui con molta facilità si fa buon viso e si adottano certe idee di conciliazione della fede collo spirito moderno, idee, che conducono molto più lontano che non si pensi, non solo all’affievolimento ma anche alla perdita totale della Fede.
Vale la pena di rileggersi la parte finale di quel discorso così carico di significato e, per taluni aspetti, anche così drammatico, non solo alla luce delle terribile tempesta che si andava allora addensando, non vista e non prevista, sui cieli dell’Europa, oscurando la civiltà europea e mondiale e sprofondandola nella barbarie (e questo è, di per sé, un terribile atto d’accusa verso una intera classe dirigente, che non seppe vedere il pericolo, se non quando era ormai troppo tardi per scongiurarlo), ma anche alla luce di quel che è successo poi nella Chiesa cattolica e che sta continuando a succedere, in mezzo allo sconcerto, al dolore e alla profonda amarezza di tanti buoni cattolici, e nell’apatia, nell’indifferenza o, peggio, con la connivenza e l’attiva complicità di una parte significativa del clero, a quanto pare niente affatto preoccupato da tale smarrimento e da tale angustia generalizzati (cit. da Gianpaolo Romanato, Pio X. La vita di papa Sarto, Milano, Rusconi Editore, 1992, pp. 287-288):

Predicate a tutti, ma specialmente agli Ecclesiastici ed agli altri Religiosi, che niente tanto dispiace a Nostro Signore Gesù Cristo e quindi al suo Vicario, quanto la discordia in fatto di dottrina, perché nelle disunioni e nelle contese Satana mena sempre trionfo e domina sui redenti. Per conservare l’unione nella integrità della dottrina, premunite specialmente i sacerdoti dalla frequenza di persone di fede sospetta e dalla lettura di libri e giornali, non dirò pessimi, dai quali rifugge ogni onesto, ma anche di quelli che non sieno in tutto approvati dalla Chiesa,  perché è micidiale l’aria che si respira ed è impossibile maneggiare la pece e non restarne inquinati. Se mai vi incontraste in coloro che si vantano credenti, devoti al Papa, e vogliono essere cattolici ma hanno per massimo insulto l’essere detti clericali, dite  solennemente che figli devoti del Papa sono quelli che obbediscono alla sua parola ed in tutto lo seguono, e non coloro, che studiano i mezzi per eluderne gli ordini, o per obbligarlo con insistenze degne di miglior causa ad esenzioni e dispense tanto più dolorose quanto più sono di danno e di scandalo. Non cessate mai di ripetere che, se il Papa ama ed approva le associazioni cattoliche, che hanno di mira anche il bene materiale, ha sempre inculcato che deve avere in esse la prevalenza il bene morale e religioso e che al giusto e lodevole intento di migliorare le sorti dell’operaio e del contadino dev’essere sempre unito l’amore della giustizia e l’uso dei mezzi legittimi per mantenere tra le varie classi sociali l’armonia e la pace. Dite chiaramente che le associazioni miste, le alleanze coi non cattolici pel benessere materiale a certe determinate condizioni sono permesse, ma che il papa predilige quelle unioni di fedeli, che deposto ogni umano rispetto e chiuse le orecchie ad ogni contraria lusinga o minaccia, si stringono intorno a quella bandiera, che per quanto combattuta, è la più splendida e gloriosa, perché è la bandiera della Chiesa.

Per san Pio X, dunque, il compito prioritario dei pastori è quello di preservare la dottrina, senza la quale non c’è vera unità nella Chiesa. L’unità a cui egli mira, evidentemente, non è la stessa che ha in mente il papa attuale: per questi, ogni divisione è dannosa (anche se non si preoccupa affatto delle divisioni che lui stesso crea, con il suo modo di procedere, all’interno della Chiesa di cui gli è stata affidata la custodia, disgustando e allontanando proprio le anime più devote e più fedeli alla vera dottrina, in cambio dell’applauso dei massoni, dei radicali, degli irreligiosi e dei nemici di Cristo); mentre per san Pio X l’unità ha senso se è illuminata dalla dottrina: non da una dottrina qualsiasi, continuamente rimodernata e rivista per renderla gradita al palato dei contemporanei, ma la sola, la vera, la perenne dottrina della Chiesa, tratta dalla Rivelazione, nella piena fedeltà alle Scritture e alla sacra Tradizione. 
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Del 14 Luglio 2017
Il testamento spirituale di san Pio X: «Preservate l’integrità della dottrina»

di Francesco Lamendola

Quella straordinaria avventura del “Credo di Paolo VI”

Domenica scorsa, 16 luglio, nella mia parrocchia sono stati battezzati quattro bambini. Cerimonia bella, con l’immersione totale dei piccoli nell’acqua benedetta. Una festa, com’è giusto che sia in questi casi. Ma il momento che mi fa riflettere di più è sempre quello del rinnovo delle promesse battesimali, quando a tutti i fedeli è chiesto di ripetere le formule tanto semplici quanto incisive previste dal rito.
«Rinunciate al peccato, per vivere nella libertà dei figli di Dio?»
«Rinuncio!»
«Rinunciate alle seduzione del male, per non lasciarvi dominare dal peccato?»
«Rinuncio!»
«Rinunciate a satana, origine e causa di ogni peccato?»
«Rinuncio!»
«Credete in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra?»
«Credo!»
«Credete in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, che nacque da Maria Vergine, morì e fu sepolto, è risuscitato dai morti e siede alla destra del Padre?»
«Credo!»
«Credete nello Spirito Santo, la Santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna?»
«Credo!»
Mentre rinnovavo le promesse assieme a tutti gli altri fedeli, pensavo alla nostra fede cattolica, a che cosa ne sappiamo veramente, a come la viviamo, al suo stato di salute in questi nostri tempi e al ruolo che tutti i battezzati, proprio in quanto tali, hanno nella sua salvaguardia, secondo l’insegnamento della santa madre Chiesa.
Mi è tornata così alla mente un’intervista concessa qualche tempo fa da don Nicola Bux, teologo, liturgista e scrittore, autore di «Con i sacramenti non si scherza», «Come andare a messa e non perdere la fede» e molti altri libri.
Nell’intervista, realizzata da  Edward Pentin per il «National Catholic Register», don Bux a un certo punto fa una proposta: di fronte alla grave crisi di fede che sta caratterizzando la nostra epoca sarebbe auspicabile un intervento esplicito del papa, per affermare ciò che è cattolico e correggere quelle prese di posizione ambigue o erronee che spingono molti a interpretazioni non cattoliche. Si dovrebbe trattare quindi di una vera e propria professione di fede (ecco il motivo per cui la proposta mi è tornata alla mente durante il rinnovo delle promesse battesimali), utile per fare chiarezza e dissolvere i dubbi che in questa stagione stanno proliferando.
Ora immagino le obiezioni di coloro secondo i quali il papa non è tenuto ad alcuna precisazione perché tutto è chiaro e limpido e perché il pontefice va sempre ascoltato senza muovere osservazioni né tanto meno critiche. Obiezioni che don Bux respinge spiegando che in realtà è impossibile non accorgersi del dilagare di sconcerto e confusione e ricordando che ogni credente, in quanto  battezzato (e quindi sacerdote, profeta e re), è «defensor fidei» e di conseguenza ha non solo il diritto, ma il dovere di chiedere a ogni pastore, e anche al papa se necessario, di rendere ragione di quanto dice e insegna: «Chiunque pensi che presentare dubbi (“dubia”) al papa non sia un segno di obbedienza, non ha capito, cinquant’anni dopo il Vaticano II, la relazione fra il papa e l’intera Chiesa».
Che cosa significa, infatti, obbedienza al papa? Significa forse accogliere a scatola chiusa tutto ciò che egli sostiene, evitando di esercitare il giudizio? No di certo, risponde don Bux. L’«obbedienza al papa dipende solamente dal fatto che lui è legato alla dottrina cattolica, alla fede che deve continuamente professare davanti alla Chiesa».
Di qui dunque l’idea, lanciata da don Bux, di una professione di fede da parte del papa, sull’esempio di quella che Paolo VI fece in un’altra stagione delicata e complessa per la Chiesa, cinquant’anni fa, quando, di fronte ad alcune interpretazioni quanto meno discutibili del Concilio Vaticano II, Montini avvertì il bisogno di una puntualizzazione. Perché, come hanno spiegato bene Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, anche il papa ha sempre bisogno di conversione, così da poter svolgere il suo compito di confermare e rafforzare i fratelli nella fede, secondo le parole di Cristo: «Et tu autem conversus, confirma fratres tuos».
In seguito all’intervista di don Bux, pensando a quanto può fare un credente laico, in quanto  battezzato, a difesa della fede, sono andato a rivedermi la storia di quella professione di fede di mezzo secolo fa, scoprendo che in effetti, all’origine del testo che il papa propose alla Chiesa, ci fu non un consacrato, non un prete e nemmeno un vescovo o un cardinale, ma proprio un laico.
Andiamo però con ordine e partiamo da quanto papa Montini disse il 19 aprile 1967, durante un’udienza generale.
Rievocando il battesimo amministrato giorni prima a due catecumeni nel restaurato battistero di San Giovanni in Laterano il pontefice sottolineò il significato potente del dialogo che caratterizza il sacramento: «Tu che cosa sei venuto a chiedere alla Chiesa di Dio?». «La fede; sono venuto a chiedere la fede».
Durante il battesimo, notò il papa, la Chiesa non si preoccupa di dare una definizione concettuale della fede, ma oggi, in una realtà umana segnata dall’incertezza circa il senso della vita e dalla mancanza di riferimenti in campo morale, una definizione del genere è importante per ogni persona, perché «dal concetto che uno si fa della fede dipende poi tutta la sua vita religiosa ed anche in gran parte la sua vita morale».
Che cos’è dunque la fede?
Un primo concetto di fede, spiegò il papa, «è quello che assimila semplicemente la fede col sentimento religioso, con la credenza vaga e generica dell’esistenza di Dio e d’un qualche rapporto fra Dio e la nostra vita». In questo caso la fede si riduce a una serie nozioni e formule «che sono come un sedimento residuo d’una istruzione catechistica dimenticata e d’una osservanza religiosa decaduta, ma dotata di qualche occasionale reviviscenza. È questa purtroppo la fede di molta gente del mondo odierno, una fede d’abitudine, una fede convenzionale, una fede non capita e poco praticata, una fede incoerente col resto della vita, e perciò noiosa e pesante. Non è del tutto morta, ma non è per niente viva».
Poi, spiegò il papa, c’è la fede intesa e vissuta a un altro livello, ben più consapevole, come risposta alla Parola di Dio, come dialogo che corrisponde a un «sì» che consente a Dio di entrare in noi e di trasformarci, così che credere ci appare del tutto ragionevole, logico, e la fede «ci fa cogliere come corrispondenti alla realtà le verità che la Parola di Dio ci ha rivelate».
E qui Paolo VI aggiunse un’importante precisazione: «Queste poche e semplici considerazioni ci fanno pensare al lato soggettivo della fede; ma questo nome benedetto si riferisce anche ad un complesso di dottrine, di dogmi oggettivi». La fede, infatti,  «non è solo l’atto per cui noi crediamo; è anche la dottrina a cui noi crediamo; è ciò che abitualmente chiamiamo il “credo”, quello che noi canteremo tra poco, alla fine di questa udienza. Non diciamo di più, per ora. Portiamo con noi la famosa definizione della Lettera agli Ebrei: “La fede è la realtà di cose sperate, e convinzione di cose che non si vedono” (11, 1)».
«Non diciamo di più, per ora». Il papa quel giorno si fermò lì, ma, come le sue parole lasciano intuire, continuò a pensarci, finché il 30 giugno 1968, a conclusione dell’Anno della fede da lui indetto nel diciannovesimo centenario del martirio di Pietro e Paolo, pronunciò una vera e propria professione di fede, «in nome e a impegno di tutta la Chiesa, come “Credo del popolo di Dio”». Fu un «ritorno alle sorgenti», come spiegò, in un momento in cui «facili sperimentalismi dottrinali» incrinavano le certezza non solo dei fedeli ma anche dei sacerdoti.
«Ci sembra che a Noi incomba il dovere di adempiere il mandato, affidato da Cristo a Pietro […], di confermare nella fede i nostri fratelli». Disse così Paolo VI (all’epoca il papa parlava ancora usando il plurale maiestatis) e aggiunse: «Nel far questo Noi siamo coscienti dell’inquietudine, che agita alcuni ambienti moderni in relazione alla fede. Essi non si sottraggono all’influsso di un mondo in profonda trasformazione, nel quale un così gran numero di certezze sono messe in contestazione o in discussione. Vediamo anche dei cattolici che si lasciano prendere da una specie di passione per i cambiamenti e le novità. Senza dubbio la Chiesa ha costantemente il dovere di proseguire nello sforzo di approfondire e presentare, in modo sempre più confacente alle generazioni che si succedono, gli imperscrutabili misteri di Dio, fecondi per tutti di frutti di salvezza. Ma al tempo stesso, pur nell’adempimento dell’indispensabile dovere di indagine, è necessario avere la massima cura di non intaccare gli insegnamenti della dottrina cristiana. Perché ciò vorrebbe dire – come purtroppo oggi spesso avviene – un generale turbamento e perplessità in molte anime fedeli».
Fu dunque pronunciata la solenne professione di fede, che ricalcò il Credo di Nicea e ribadì, tra l’altro, tre punti che in quel tempo erano sottoposti a contestazione: il dogma del peccato originale («Noi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato: il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa porta le conseguenze di quella colpa»), la missione della Chiesa al servizio della verità («la Chiesa ha la missione di custodire, insegnare, spiegare e diffondere la verità, che Dio ha manifestato in una maniera ancora velata per mezzo dei Profeti e pienamente per mezzo del Signore Gesù») e la natura della messa in quanto «Sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri altari».
Mi sembra che il riferimento alla fede come realtà non solo soggettiva ma anche oggettiva, perché composta da norme, leggi e dogmi immutabili, abbia un significato molto importante anche per noi, oggi. Ma proseguiamo.
Come nacque il «Credo di Paolo VI» e chi ne fu l’estensore? Da alcune ricostruzioni storiche siamo venuti a sapere che nell’elaborazione del testo ebbe un ruolo determinante un laico, il filosofo Jacques Maritain, grande amico di Montini, che nel gennaio del 1967 scriveva al cardinale Charles Journet: «Un’idea mi è venuta in mente da parecchi giorni, con una tale intensità e una tale chiarezza che io non credo di poterla trascurare. Era come un tratto di luce mentre pregavo per il papa e consideravo la crisi tremenda che la Chiesa sta attraversando».
Davanti a una crisi così profonda, spiegava Maritain, «solo una cosa è in grado di toccare universalmente gli spiriti, e di custodire il bene, assolutamente essenziale, che è l’integrità della fede»: non «un atto disciplinare, né delle esortazioni, né delle direttive, ma un atto dogmatico, sul piano della fede stessa»; un «atto sovrano dell’autorità suprema che è quella del Vicario di Gesù Cristo».
La necessità di un atto del genere era nell’aria, tanto che anche il teologo domenicano Yves Congar già nel 1964 aveva inviato al papa un progetto di «professio fidei», del quale però non si fece nulla perché Paolo VI non ne restò convinto.
Il progetto di Maritain invece fece strada. Mandato al papa tramite il cardinale Charles Journet, convincerà Paolo VI a tal punto che Maritain, leggendo sul giornale, il 2 luglio 1968, un’ampia sintesi del «Credo» pronunciato dal pontefice vi ritroverà in sostanza il testo da lui inviato a Roma.
All’epoca il clima generale è fortemente condizionato dal celebre, o famigerato, «Catechismo olandese,» presentato dal cardinale Alfrink nell’ottobre 1966. Journet, che ha fatto parte della commissione voluta dal papa per esaminare il documento, esprime un giudizio netto: i vescovi olandesi hanno elaborato uno strumento per «sostituire, all’interno della Chiesa stessa, un’ortodossia a un’altra, una “ortodossia moderna” all’ortodossia tradizionale». E quando poi il papa gli chiede una valutazione sulla situazione della Chiesa, Journet risponde con una sola parola: «Tragica».
Su punti nodali quali il peccato originale, il senso della redenzione, la natura del sacrificio della messa, la presenza corporale di Cristo nell’eucaristia, il primato di Pietro, la dottrina dei sacramenti, il «Credo di Paolo VI» suona in effetti, in gran parte, come una risposta al «Catechismo olandese». Ma qui vorrei sottolineare le parole con le quali Maritain accompagnò la sua bozza, quando la inviò all’amico Journet: «Sono stato contento di farlo: ansioso, allo stesso tempo, di ciò che voi ne penserete; e mortificato e confuso d’aver dovuto, per redigere queste pagine, mettere per qualche istante, con l’immaginazione, un povero diavolo come me al posto del Santo Padre! Non c’è situazione più idiota».
Insomma, se cinquant’anni fa il papa, in circostanze tanto complicate per la Chiesa cattolica, per la tenuta della fede e il rispetto della retta dottrina, fece la sua «professio fidei» fu anche, e anzi soprattutto, grazie a un credente laico che, prendendo sul serio il suo ruolo di battezzato e quindi di sacerdote, profeta e re, pur sentendosi inadeguato e confuso si lasciò guidare dallo Spirito e suggerì al pontefice le parole giuste.
Commenterà molti anni dopo l’allora teologo della Casa pontificia, il cardinale Georges Cottier: «Nello stendere il suo testo, Maritain aveva solo seguito quasi istintivamente il “sensus fidei”, lo stesso che si esprimeva in maniera concorde nelle richieste provenienti dal sinodo dei vescovi e che aveva ispirato Paolo VI nel proclamare l’Anno della fede. Con quella libertà che accompagna sempre le vicende della Chiesa, quando a guidare è il Signore. Al successore di Pietro non restava altro che riconoscere e autenticare quelle formule, che ripetevano semplicemente l’insegnamento ricevuto da Cristo, che attrae i cuori con la sua grazia».
Nel suo taccuino, dopo aver letto i giornali del 2 luglio 1968, Jacques Maritain, che all’epoca aveva ottantasei anni, attribuì il merito di tutto all’amatissima moglie e commentò così quanto gli era successo: «Sono confuso. Travagliato dal fatto di essere stato ingaggiato in un mistero che mi sorpassa così tanto. Per fortuna è Raïssa che ha tutto condotto, che ha fatto tutto, dopo l’inizio di questa straordinaria avventura».
Aldo Maria Valli

MONDO E MALIGNO 


  «Mundus totus in maligno postitus est». Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del maligno. Perchè l’uomo moderno ha eretto "l’ottimismo" al rango di filosofia di vita 

di Francesco Lamendola   
Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del maligno: queste parole severe, addirittura tremende, non sono il parto della mente esagitata di qualche monaco dell’anno Mille in attesa della fine del mondo, o di qualche rarissimo cattolico dei nostri giorni, fondamentalista e fanatico, ma sono scritte, nero su bianco, nel Nuovo Testamento (1 Gv., 5,19), vale a dire che sono, né più, né meno, Parola di Dio.
Questa espressione è stata ripresa, nel XX secolo, da almeno due pontefici, peraltro assai diversi fra loro: san Pio X e san Giovanni XXIII.
Quest’ultimo citò l’espressione della Lettera di san Giovanni nel corso dell’udienza generale del 28 ottobre 1959, precisamente nel sesto paragrafo del suo intervento, allorché disse:

La preghiera divina insegnataci da Gesù sul monte, e di cui la nostra vita vuole essere elevazione quotidiana, indirizzo ed insegnamento, si piega sopra un estremo grido di abbandono a Dio onnipotente, perché ci salvi dal “maligno”. “Libera nos a malo” (Mt 6,13).
Purtroppo “mundus totus in maligno positus est” (Gv 5,19).
La natura umana è soggetta alla tentazione, e nell’arrendersi ad essa sta la minaccia ed il pericolo più grave per la libertà e la dignità dell’uomo”. Nell’essere preservato da tanta sventura, noi possiamo contare sulla parte soccorritrice e misericordiosa di Dio; ma dobbiamo cooperare con volontà decisa a guardarci dal male e dal suo suggeritore ed ispiratore…

San Pio X, da parte sua, aveva usato quella espressione nell’enciclica Communium rerum del 21 aprile 1909, scritta in occasione dell’ottavo centenario della morte di S. Anselmo d’Aosta – del quale fa l’elogio -, nella sua parte iniziale:

Errano dunque gravemente coloro che si perdono di fede nella tempesta, perché vorrebbero per sé e per la Chiesa uno stato permanente di tranquillità, di prosperità universale, di ricognizione pratica e unanime del sacro suo potere senza contrasti. E molto peggio e turpemente errano quelli che s’illudono di guadagnarsi questa pace effimera col dissimulare i diritti e gli interessi della Chiesa,  col sacrificarli ad interessi privati, con l’attenuarli ingiustamente, col piaggiare il mondo che tutto sta sottoposto al maligno (“totus in maligno positus est”), sotto specie di riconciliarsi i fautori della novità e ravvicinarli alla Chiesa…

A questo punto, vorremmo capire.
Vorremmo capire come mai una espressione neotestamentaria, che è parsa giusta e opportuna a due pontefici del XX secolo, l’uno considerato “conservatore”, l’altro “progressista”, sia praticamente sparita dal vocabolario dei teologi, dei cardinali, dei vescovi e dei sacerdoti dei nostri giorni, per non parlare degli insegnanti di religione e dei catechisti. Vorremmo capire come sia possibile che un concetto così importante, anzi, così essenziale, sia potuto uscire di scena in maniera talmente silenziosa, che nessuno se n’è accorto, mentre una nuova generazione di teologi, cardiali, sacerdoti, eccetera, si sono messi a scrivere e predicare un concetto diverso, addirittura opposto: che non c’è niente di più bello e di più lieto, per un cristiano, che trovare una modalità di serena convivenza con questo mondo. Il quale, evidentemente, ha smesso di essere sotto il potere del maligno, perché, diversamente, non si potrebbe capire come una tale convivenza, e, sovente, una tale collaborazione, siano possibili. Oppure quel concetto è stato espunto, di fatto, dalla dottrina cattolica, precisamene perché rappresentava un ostacolo alla felice collaborazione con il mondo, sicché le due cose sono complementari, e frutto l’una dell’atra? È per questo, forse, che i cattolici odierni, e specialmente il Magistero, specialmente la gerarchia ecclesiastica, hanno praticamente smesso di parlare di tutte quelle cose – il divorzio, l’aborto, l’eutanasia, la manipolazione genetica, le unioni di fatto, per non dire degli sconci matrimoni omosessuali, le quali piacciono al mondo così tanto, da essere state sancite per legge, e inoltre salvaguardate da apposite leggi, o progetti di legge, contro coloro i quali facciano “discriminazioni “ e incitino “all’odio di genere”, solo perché si permettono di esprimere qualche dubbio sulla liceità, e, soprattutto, sulla compatibilità con l’essere cristiani, di simili pratiche e di simili istituti?
La questione del rapporto del cristiano con il “mondo”, antica quanto il cristianesimo stesso, è di duplice natura: teologica e storica.
continua su:
«Mundus totus in maligno postitus est»

di Francesco Lamendola

Del 14 Luglio 2017

Caro papa ti scrivo. Le proposte di un teologo a Francesco

Tornare a suscitare nei fedeli il santo timor di Dio, raccomandare l’osservanza dei comandamenti, precisare il concetto di misericordia collegandolo alla giustizia, ricordare le conseguenze del peccato originale, ribadire che la legge divina universale ha valore oggettivo, riaffermare il primato del cattolicesimo e sottolineare che «extra Ecclesiam nulla salus», ripensare il dialogo ecumenico con i luterani aiutandoli a ritrovare la piena comunione con il romano pontefice, limitare gli interventi pubblici improvvisati, limitare il rischio di usare un linguaggio impreciso o improprio.
Questi alcuni dei punti al centro di tre messaggi che un teologo italiano ha inviato di recente a papa Francesco, assieme a un’attestazione di stima e di affetto filiale per il pontefice.
Il teologo naturalmente non nasconde le sue perplessità circa il magistero di Francesco, ma, anziché scegliere la strada della polemica o della contrapposizione, ha preferito imboccare quella del suggerimento propositivo.
I tre messaggi sono stati inviati a Santa Marta, residenza del papa, tra la fine di giugno e l’inizio di questo mese di luglio. Ha fatto da tramite un religioso amico del teologo, un uomo di Chiesa che Francesco apprezza e che ha la possibilità di incontrare spesso il pontefice, a cadenza fissa, parlando con lui di tutto in modo aperto.
Sono in grado qui di riportare i contenuti delle tre lettere inviate al papa. Proponendoli ai lettori del mio blog non li sposo totalmente (per esempio, ho più di una perplessità circa ciò che il mittente sostiene a proposito di uso legittimo della forza). Non di meno giudico il contributo del teologo di grande importanza sia sotto il profilo delle questioni affrontate, perché aiuta il dibattito su questo pontificato a uscire da una certa indeterminatezza, sia sotto il profilo della strategia, perché fa capire che, pur in presenza di sensibilità diverse, c’è sempre la possibilità di collaborare con sincerità per il bene della Chiesa, a salvaguardia della fede e soprattutto per la gloria di Dio.

Sedici proposte
Sarebbe bene che il Papa parlasse di alcuni contenuti di fede, a integrazione dei temi che egli già sta trattando nella sua predicazione.
  1. Bisogna tornare a suscitare nei fedeli il santo timor di Dio, che serve a distoglierci dal peccato ricordando le sue conseguenze, senza abbandonare la confidenza.
  2. Ma questa confidenza dev’essere motivata dall’osservanza dei comandamenti e dalle opere buone, anche se è vero che queste a loro volta sono effetto della grazia. Dio ci giustifica, ma noi abbiamo il dovere di essere giusti. Dio ci salva solo se osserviamo i suoi comandamenti (Mt 19,17). E’ vero che noi possiamo convertirci a Lui, se Egli si converte a noi; ma vale anche l’inverso: Egli si converte a noi, se noi ci convertiamo a Lui, come dice il Concilio di Trento. Non possiamo infatti presumere di salvarci senza meriti.
  3. Occorre quindi ricordare che Dio, nel suo sapiente giudizio, non usa sempre nei nostri confronti la misericordia, ma anche la severità. Egli perdona il peccato del peccatore pentito, ma castiga il peccatore ribelle, affinché rifletta e si converta.
  4. Non bisogna credere che un Dio che castiga sarebbe un Dio crudele senza misericordia. Dio castiga paternamente, per il nostro bene e non usa la misericordia full-time, in modo indiscriminato, ma con saggezza e discernimento, solo a tempo e a luogo, sempre a fin di bene. Se Dio non fa misericordia, manifesta la sua bontà nella giustizia. E se non fa misericordia è solo perché l’uomo nel suo orgoglio la rifiuta.
  5. Occorre ricordare le conseguenze del peccato originale. Il permanere della malizia degli uomini giustifica in certi casi l’uso della forza e della coercizione. Le operazioni belliche non sono quindi sempre effetto dell’odio e della violenza, ma possono essere giustificate anche nel nome della giustizia o della libertà, e quindi nel nome di Dio, vindice degli oppressi. Dio non vuole la violenza, ma la vittoria sui suoi nemici. Egli farà giustizia nella vita futura dei delitti restati impuniti in questa vita.
  6. L’ostilità della natura nei nostri confronti è una delle conseguenze del peccato originale e può essere anche castigo salutare dei nostri peccati. Se così non fosse, si cadrebbe nell’errore di ammettere una natura cattiva indipendente da Dio, il che non ha senso.
  7. Occorre ricordare il senso cristiano della sofferenza. Cristo con la sua Croce ha trasformato in mezzo di riparazione e di salvezza il castigo del peccato: «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di Lui»
    (Is 53,5). «Satisfecit pro nobis», come dice il Concilio di Trento. La santa messa è appunto l’attualizzazione incruenta di questo Sacrificio redentore. La sofferenza degli innocenti dev’essere associata alla Croce del Signore.
  8. Il peccato mortale causa la perdita della grazia, che dev’essere riacquistata col pentimento e le opere della penitenza. Non può essere in grazia né fruire della divina misericordia chi si trova in peccato mortale e non vuole uscire da questo stato.
  9. Occorre ricordare che il peccato mortale non espiato merita l’inferno. Occorre dire anche che l’esistenza di dannati nell’inferno ci avverte che non dobbiamo prendere alla leggera il peccato con la scusa che Dio perdona, ma ricordarci della nostra parte di responsabilità nell’opera della nostra salvezza. Se infatti Dio vuole tutti salvi e dà a tutti i mezzi per salvarsi, tuttavia non si salva chi non corrisponde liberamente all’opera della grazia.
  10. La legge morale naturale e la legge divina evangelica sono norme oggettive, universali, immutabili, ed indispensabili, benché possano essere sempre meglio conosciute nel corso della storia. Non ammettono eccezioni, ma devono essere sempre applicate in modi diversi a seconda delle situazioni e dei vari casi. Per esempio, la norma divina dell’indissolubilità del matrimonio. Invece il Papa, in forza del potere delle chiavi, può mutare la legge ecclesiastica, per esempio, quella riguardante la proibizione della Comunione ai divorziati risposati.
  11. Bisogna ricordare l’importanza del dogma come interpretazione infallibile ed assolutamente vera, fatta dalla Chiesa, della Parola di Dio, morale o teoretica, contenuta nella Scrittura e nella Tradizione, e per conseguenza occorre ricordare il nostro dovere di riconoscere e respingere le eresie, secondo gli avvertimenti della Chiesa.
  12. Il buon pastore ha comprensione e pietà per le debolezze umane, ma dev’essere esigente e severo contro la malizia, l’arroganza e l’empietà. Egli propone con chiarezza la norma morale nella sua elevatezza ed assolutezza, senza sconti, ma poi deve aiutare il prossimo con pazienza, fermezza e dolcezza nella graduale realizzazione del fine da raggiungere. Nessuno è tenuto all’impossibile, ma deve fare tutto quello che può chiedendo aiuto a Dio. Occorre evitare la rigidezza nella pastorale, ma essere duttili e flessibili, senza cadere nel permissivismo. Occorre invece essere fermi e ben fondati nella fedeltà alla legge di Dio, così da costruire sulla roccia.
  13. L’opera più grande di Dio per l’uomo non è la misericordia, ma la glorificazione dell’uomo come figlio di Dio. In paradiso Dio non esercita più la misericordia, dato che non ci sono più miserie da togliere. E lo stesso dicasi dei beati. Il Papa dovrebbe parlare di più della vita eterna e del fine ultimo dell’uomo. La sua pastorale è troppo racchiusa nei doveri di questo mondo.
  14. Il vertice della nostra carità non è la misericordia, ma la contemplazione del mistero trinitario. In paradiso non c’è più bisogno della misericordia, ma tutta la nostra vita si riassume nella beata visione di Dio. Il nostro problema fondamentale non è il problema della salvezza, ma vedere Dio.
  15. Dio non è necessitato dalla sua essenza divina a far misericordia, come se il suo esercizio completasse la sua essenza, ma agisce per un liberissimo atto – «liberrimo consilio» dice il Concilio Vaticano I
    – di amore gratuito. Dio è perfetto e felice anche senza il mondo. Siamo noi che non possiamo neppure esistere senza di Lui. Gesù Cristo certamente è Dio. Ma la natura umana di Cristo non completa la natura divina, non le è necessaria, ma si aggiunge ad essa rimanendole distinta, in quanto assunta dal Verbo in unità di Persona.
  16. Occorre ricordare il primato del cattolicesimo sulle altre religioni e che solo nella Chiesa c’è salvezza, come insegna il Concilio di Firenze, benché l’appartenenza alla Chiesa possa essere inconscia.

Questi dunque i sedici punti al centro della prima lettera. E qui ecco il testo della seconda, inviata qualche giorno dopo.

Altri nodi centrali
Nel caso che il Santo Padre si degnasse di considerare benevolmente le mie proposte, mi permetterei di aggiungerne altre, che vorrebbero cogliere i nodi centrali della questione della predicazione del Papa e ai quali potrebbero ridursi le proposte precedenti.
Il nodo numero uno, principio di tutti gli altri, secondo me, è il rapporto del Papa con i luterani e quindi la questione dell’ecumenismo. La coscienza delle verità di fede, che abbiamo in comune con loro, è ormai chiara. Tuttavia occorre fare un passo ulteriore.
Il Papa, da padre buono, che vuole attorno a sé e con sé tutti i suoi figli, dovrebbe adesso, con coraggio e decisione, sulle orme di grandi santi come san Leone Magno, san Gregorio VII, sant’Ignazio di Loyola, san Domenico di Guzman, san Giovanni di Colonia, il beato Marco d’Aviano, san Pietro Canisio, san Roberto Bellarmino, san Francesco di Sales, porsi alla ricerca della pecorella smarrita e alla guida della seconda fase di quanto l’«Unitatis redintegratio» prescrive a noi cattolici: aiutare i fratelli separati ad entrare nella piena comunione col Romano Pontefice, togliendo quegli «ostacoli» e quelle «carenze», cioè quelle eresie già a suo tempo segnalate da Leone X e dal Concilio di Trento, che appunto impediscono a questi fratelli di essere in piena comunione con noi.
L’Europa potrà ritrovare le sue radici cristiane e tornare a svolgere la sua missione evangelizzatrice irradiante da Roma, solo quando essa, con i suoi «due polmoni», come disse Papa san Giovanni Paolo II, tornerà ad essere unita attorno al Romano Pontefice. L’Europa fa bene ad accogliere l’immigrazione islamica, me deve operare per la conversione a Cristo degli islamici.
Se il Papa non dà il via a questa seconda fase dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, i luterani in particolare penseranno di essere a posto, e così i cattolici si sentiranno attratti dall’etica luterana, meno esigente e prona a questo mondo. La Chiesa, invece di allargare i suoi confini, li restringerà.
Per imboccare questa via, il Santo Padre dovrebbe chiarire che i modernisti, e soprattutto Karl Rahner, hanno frainteso in senso lassista e relativista il vero significato dell’ecumenismo e più in generale delle dottrine del Concilio, come già aveva fatto notare Papa Benedetto XVI, affermando che il vero progresso non sta nella rottura ma nella continuità. Il Concilio non ha mutato i dogmi della fede, ma ce li ha fatti capire meglio. La fedeltà deve sposarsi col rinnovamento.
D’altra parte, il Santo Padre dovrebbe riconoscere ai lefebvriani di aver ragione nel sostenere che è dovere del Successore di Pietro insegnare infallibilmente e conservare fedelmente il deposito della fede e difenderlo dall’eresia, ma nel contempo dovrebbe ricordar loro che, come ha detto Papa Benedetto XVI, per essere in piena comunione con la Chiesa essi devono accettare le dottrine del Concilio, il quale conferma l’immutabile verità della fede, rendendola meglio comprensibile e meglio predicabile al mondo moderno.
Se il Concilio ha qualcosa di discutibile, come lo stesso Papa Benedetto ammise rivolgendosi ai lefebvriani, ciò riguarda una certa tendenza buonista della sua pastorale,  un certo pacifismo utopista, che sembra supporre – come crede Rahner – che tutti siano orientati a Dio, tutti siano in buona fede e di buona volontà; il che non è purtroppo vero, dato che tutti risentiamo delle conseguenze del peccato originale e ci sono anche i «figli del diavolo» (I Gv 3,10).
La Chiesa, pertanto, fa bene ad aprirsi al dialogo con tutti, ma non può promettere misericordia e salvezza a chi non pratica la misericordia. Essa pertanto, mentre non deve cessare di predicare che a tutti è aperto l’ingresso nel regno dei cieli, deve recuperare una giusta severità con i prepotenti, gli ipocriti, i superbi, fedifraghi, gli impostori e gli empi, individuati con sapiente discernimento, senza per questo cadere negli eccessi del passato.
Senza cessare di predicare l’amore disinteressato, la Chiesa deve tornare ad incutere nei peccatori induriti – nei «corrotti», come dice il Papa – un salutare timor di Dio, che distoglie dal peccato e induce ad osservare le sue sante leggi. Pur alimentando in tutti la speranza, la Chiesa non deve temere di tornare a minacciare l’inferno, come ha fatto Nostro Signore, ai ribelli e agli impenitenti. Deve tornare a dire che, se tutti possono salvarsi, non tutti di fatto si salvano.
Certi nemici ostinati ed arroganti della verità, della giustizia e della pace non possono essere fermati col dialogo, ma solo con la severità. Né la Chiesa deve temere di promuovere, all’occorrenza, lo stesso uso della forza, proprio in nome di Dio, per farsi vindice degli oppressi e degli umiliati. Si ricordi del «Magnificat».
Dio non vuole la morte di nessuno, ma non tollera l’ingiustizia ed è il supremo Vindice di tutti i torti e di tutti gli scandali. Altrimenti gli oppressori continueranno a farsi beffe di Dio e ad essere oppressori e gli oppressi continueranno ad essere oppressi, tentati alla disperazione e a bestemmiare Dio.
Inoltre, il Papa ha da Cristo il supremo compito di favorire e promuovere all’interno della Chiesa l’unità, la concordia e la pace in un legittimo pluralismo. Una Chiesa che sia lacerata da discordie non può dare una testimonianza credibile del Vangelo. Occorre pertanto a mio giudizio che il Santo Padre si impegni maggiormente in questo nobilissimo compito di pacificazione, per il quale lo Spirito Santo gli ha donato un carisma speciale.
Inoltre il Papa nella Chiesa è il supremo moderatore nell’amministrazione  della giustizia tra parti avverse, per cui al Papa si richiede una suprema imparzialità nel giudicare le controversie e un esemplare equilibrio nel risolverle. Pensiamo per esempio al contrasto fra i lefebvriani e i modernisti, che è sotto gli occhi di tutti da cinquant’anni. Ebbene, ormai da molti episodi risulta, purtroppo, che il Papa è troppo severo con i primi e troppo indulgente con i secondi.
È urgente, quindi, e quanto mai auspicabile, una convergenza nella verità e nella carità tra lefebvriani e modernisti attorno all’unico Padre e Pastore, i primi rinunciando alla polemica amara e offensiva, i secondi all’adulazione e alla falsificazione modernista della Parola di Dio. Gli uni e gli altri sono fatti per completarsi reciprocamente e fraternamente nell’unica verità e nella carità: i primi con l’apporto della tradizione, i secondi con quello del progresso, secondo la formula aurea «progresso nella continuità».
È bella e incoraggiante la lode che spesso il Santo Padre fa dei martiri. Bisogna però che Egli sia più chiaro nel ricordare che la loro perseveranza, resistenza e fortezza nascono dalla fedeltà assoluta all’immutabile verità e dalla radicazione irremovibile su quella roccia e su quel valore non negoziabile che è Cristo.
Se il cristiano è luce del mondo, tra tutti deve esserlo in un modo eminente il Vicario di Cristo. Bisogna pertanto che Egli, nella sua opera di promozione umana, indichi più chiaramente a tutta l’umanità e alle religioni il fine ultimo dell’uomo, che è quello di esser chiamato alla figliolanza divina in Cristo e alla visione beatifica.
La Beata Vergine Maria, Regina degli Apostoli, sostenga il Vicario del suo Figlio nella lotta vittoriosa contro le potenze del male.

Sulla comunicazione del papa
E infine ecco il testo della terza lettera, nella quale il teologo, rivolto all’amico religioso chiamato a fare da tramite, si dedica al modo in cui il papa si esprime.

Carissimo Padre,  approfittando della sua bontà e se non chiedo troppo, vorrei aggiungere altre proposte oltre a quelle che Le ho già fatto giungere.
  1. Sarebbe bene che il Santo Padre limitasse i suoi interventi pubblici improvvisati o a braccio su temi che possono toccare la fede e la morale, specie in occasione di interviste. Ciò per due motivi:
  2. a) Limitare il rischio di usare un linguaggio impreciso o improprio, che può prestarsi all’equivoco o alla strumentalizzazione da parte dei media;
  3. b) limitare l’espressione, come dottore privato, di idee estemporanee od opinioni non sufficientemente ponderate o fondate, che possono essere prese come pronunciamenti del magistero pontificio, col rischio inverso che il magistero possa esser preso con leggerezza.
  4. Il Santo Padre o chi per lui, per esempio la Congregazione per la Dottrina della fede o teologi fedeli, qualificati ed esperti, dovrebbe vigilare maggiormente sulla purezza dottrinale, che dev’essere irreprensibile, integerrima ed esemplare, espressa da membri del collegio cardinalizio o dell’episcopato o da ufficiali della Santa Sede, che dovessero mancare in questa delicatissima materia, affinché il popolo di Dio non ne soffra scandalo e non rischi di essere allontanato dalla retta via della verità e della morale evangelica. Se il pastore è colpito, il gregge si disperde (cf Zc 13,7).
  5. Il Santo Padre dovrebbe intrattenere un maggior dialogo col popolo di Diomancando il quale ne può risentire il prestigio del magistero pontificio e la saldezza della fede nei fedeli:
  6. a) rispondendo a rispettose richieste di chiarimento, osservazioni od obiezioni legittime, in materia grave e provenienti da membri qualificati. Se non lo fa, può dare l’impressione che le critiche abbiano colto nel segno;
  7. b) chiarendo equivoci, o dissipando malintesi sorti da interpretazioni false o tendenziose di larga risonanza di suoi pronunciamenti in materia grave, provenienti dai media o da ambienti seri e qualificati. Astenendosi dal far ciò, c’è il rischio che le dette interpretazioni appaiano valide;
  8. Suggerimenti circa le attività ecumeniche del Papa.
  9. a) Fa bene a promuovere l’ecumenismo della carità. Tuttavia l’«Unitatis redintegratio» fa comprendere chiaramente che il problema di fondo è quello della verità: i fratelli separati, per non restare separati, devono correggere i loro errori. La carità e l’unità si fondano sulla verità. Dal falso nasce il peccato e la divisione. Occorre evitare chiusure e rigidezze, saper cogliere le sfumature, essere accondiscendenti e flessibili. Ma non c’è una via di mezzo tra il vero e il falso (Mt 5,37; Ap 3,15);
  10. b) far capire ai fratelli separati che la coesistenza pacifica e la collaborazione reciproca di cristiani di diverse confessioni sono sì ottima cosa, ma senza dar l’impressione che tale diversità possa essere omologata alla normale diversità-reciprocità intraecclesiale che intercorre, per esempio tra Gesuiti e Domenicani.
  11. c) ricordare che esistono diversi gradi di comunione con la Chiesa e che chi non è in piena comunione deve raggiungerla. Nessuno deve stare sulla soglia e tutti sono invitati al banchetto, purché tutti abbiano l’abito di nozze (Mt 22, 1-14).
  12. d) ricordare altresì che Cristo ha affidato a Pietro il compito di procurare l’unità del suo gregge nella verità e di chiamare a sé le pecore disperse. Altrimenti c’è il rischio che si diffonda l’indifferentismo.

Nel segno della libertà
Ecco, queste le tre lettere che il teologo ha consegnato all’amico religioso e quest’ultimo ha portato a Santa Marta, sottoponendole all’attenzione del papa. Il teologo mi ha chiesto di mantenere assoluta riservatezza sul nome del religioso. Mi ha lasciato libero, invece, di decidere se svelare o meno la sua identità. Al momento ho preferito non svelarla, perché penso che in questo modo il dibattito sulle proposte inviate al papa potrà svilupparsi più liberamente. Lo spero.
Aldo Maria Valli

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