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Apologia pro via sua
Quando si combatte un nemico dalla forza (umanamente) schiacciante, non lo si affronta in campo aperto, ma si conduce un’azione di guerriglia. Quando si naviga nella tempesta tra opposti scogli, il timoniere che li evita non sta tentennando, ma impedendo alla nave di sfracellarsi. Quando si ha a che fare con una situazione completamente inedita, le soluzioni più ovvie non sono necessariamente le più opportune. Quando sono i Pastori ad andare fuori strada, bisogna redarguirli senza porsi fuori della comunione gerarchica. Se poi qualcuno ha la verità in tasca, fa un dogma anche dell’opinabile e se ne infischia dell’unità del Corpo mistico, io mi dissocio. Qualora il mio dolore per l’attuale situazione della Chiesa sia traboccato in un sarcasmo tagliente, spero con tutto il cuore che questo non abbia favorito in nessuno l’esecrabile tentazione di spezzarla.
Poiché non amo le discussioni senza fine e senza frutto, per questa sorta di apologia della via che ho scelto (non certo di tutta la mia vita, come quella del beato Newman) preferisco le metafore che fanno riflettere, mettendomi alla scuola dei sapienti della Bibbia e del nostro stesso Maestro. La ricerca di una terza via non è automaticamente sinonimo di equilibrismo e compromesso, ma normale espressione dell’uso di quell’intelletto che ci ha fornito il Creatore. Non ho mai accettato di essere intruppato in uno schieramento tanto compatto da esimermi dall’obbligo morale di pensare e di decidere, giacché la ragione e il libero arbitrio mi rendono responsabile davanti a Dio e alla mia coscienza – e di questo fardello non mi posso semplicemente sbarazzare.
Non ho mai inteso negare che ogni atto di riparazione, pubblico o privato, abbia comunque un effetto nell’economia divina e ottenga delle grazie, ma mi sono solo concesso la libertà di riflettere sul reale effetto delle nostre manifestazioni pubbliche in una società che è diventata un “buco nero” che risucchia anche la luce e se ne nutre. La macchina mediatica, in altre parole, riesce a piegare perfino l’affermazione della verità a sostegno dell’errore. Dato che ormai, per moltissima gente, quel che dice la televisione è verità assoluta, l’interesse dei mass media – inevitabile quando si scende in piazza – è una trappola che non solo neutralizza (sul piano umano) le intenzioni più sacrosante, ma le usa a vantaggio della sovversione. I nemici che abbiamo di fronte sono persone che si sono messe al diretto servizio del diavolo; i burattinai del sistema, per poter dominare le masse, hanno indotto una forma di demenza collettiva che ora sfrutta per dirigerle come vuole. Il Signore ci insegna a valutare bene l’avversario e le nostre forze, prima di affrontarlo a viso aperto (cf. Lc 14, 31).
Dobbiamo allora rinunciare a difendere pubblicamente la verità e rintanarci nelle devozioni private? Certamente no, ma dobbiamo usare quella prudenza soprannaturale che ci fa comprendere quando e con chi è opportuno parlare senza ottenere l’effetto contrario, approfittando al tempo stesso di tutte le occasioni di penitenza e mortificazione che ci si presentano. Su quest’ultimo punto, però, avverto una certa reticenza… I Santi si maceravano nel nascondimento, ma poi parlavano con franchezza, direttamente e personalmente, alle persone rivestite di autorità nello Stato o nella Chiesa. È ovvio che le pratiche penitenziali richiedano una saggia gradualità che permetta di evitare le trappole del demonio, mentre l’offrirsi come vittima esige un alto grado di maturità interiore e il permesso del padre spirituale. Ma nessuno ci impedisce di cogliere e valorizzare le innumerevoli occasioni che abbiamo quotidianamente di mortificarci e di aiutare altri a riflettere.
C’è chi ha l’impressione che io abbia un dente avvelenato contro qualcuno e che stia attraversando un passaggio delicato. Mi sia permesso rilevare con delicatezza che tali “processi alle intenzioni” assomigliano molto agli odiosi psicologismi con cui i modernisti cercano di squalificare chi non si omologa alla loro ideologia. In realtà ci troviamo tutti in un passaggio delicato e, quindi, nella necessità di evitare gli scogli, specie quelli ben camuffati. Quello che, in generale, mi sta a cuore ribadire è che la vita cristiana non può limitarsi al “minimo sindacale” o alle dichiarazioni di principio, ma è una vocazione alla santità, per tutti. Una vocazione da vertigini – siamo d’accordo – ma è quella. L’arma decisiva della nostra battaglia è dunque proprio la santità, nella misura che Dio ha assegnato a ciascuno, certo, ma la santità.
Se con qualcuno ho un dente avvelenato è con quei sacerdoti, membri di una fraternità a cui per altro verso dobbiamo moltissimo, che incitano i fedeli a disertare la Messa domenicale qualora non possano partecipare a quella tradizionale. Sono troppi, ormai, i lettori che mi scrivono confusi e angosciati dopo aver partecipato agli esercizi spirituali. In nome di Dio, non si può spingere la gente a violare in modo grave il terzo comandamento per amore della Tradizione, poiché questo è del tutto contrario alla Tradizione stessa! È innegabile che il novus ordo sia molto carente e, soprattutto a causa delle modalità celebrative più diffuse, possa a lungo andare deformare la fede, ma chi è ben istruito nella dottrina cattolica non corre certo questo rischio, dato che la sua retta precomprensione lo “vaccina” dalle distorsioni. Qui è in gioco la salvezza delle anime: rischia di portarle fuori strada chi – quasi fosse il detentore esclusivo del vero – si arroga il diritto di stabilire come, dove e quando vadano osservati i Comandamenti: se il terzo, perché non gli altri?
Non sto difendendo opinioni personali: l’unica cosa per la quale perdo le staffe è il bene delle anime! Non è lecito mettere i fedeli di fronte all’alternativa tra l’essere abbandonati al modernismo selvaggio e l’essere segregati in una “chiesuola a parte” guidata da preti che vivono in un mondo a sé e spesso non hanno una percezione sufficiente della realtà vera, quella in cui è costretto a vivere il Popolo di Dio, il quale non si riduce a un’accolta di eletti rinchiusa in una torre d’avorio, ma, per quanto sbandati e corrotti, comprende tutti i battezzati. È possibile che il Verbo incarnato abbia versato fino all’ultima stilla di sangue, di cui una sola sarebbe bastata a salvare il mondo, solo per quei pochi che accettano di incastrarsi nel letto di Procuste di una versione del cattolicesimo sclerotizzatasi in una forma che, così rigida, non è mai esistita?
Per concludere, lascio la parola a una lettrice che si firma simpaticamente Una vagabonda di Dio. Non è per darmi importanza, ma semplicemente per offrire una testimonianza di quel che significa oggi, per un cattolico, navigare tra opposti scogli: «Ringrazio don Elia perché è una delle poche voci che non mi fanno sentire matta quando avverto un clima di neognosticismo da tutte le parti, nel moderno ricorrere alle scienze antropologiche e psicologiche per redigere i parametri dello Spirito Santo, che «non si sa dove va» (ma non intendeva dire che è disorientato), e ancor di più per definire il vocabolone discernimento, diventato il solvente linguistico alla soluzione del «Ma posso o non posso?». Dall’altra parte, vi è altresì la barricata degli intellettualoidi maniaci di storicismo e di citazioni. Nel mezzo ci sono – ci sarebbero – i mistici e i santi, che in ogni epoca hanno incarnato il Verbo. Il Curato d’Ars fu uno spigolo vivo nel periodo successivo alla Rivoluzione Francese. Fu uno spigolo nelle ginocchia sia per la nouvelle culture che per il clero codardo dell’epoca… e sapeva poco o nulla di latino. Aveva 298 parrocchiani e mangiava patate ammuffite per penitenza e per salvare anime, il cui numero (298!) gli pareva una quantità pazzesca.
Ringrazio don Elia perché esce dal dualismo astratto del conflitto asimmetrico tra il partito del vero e il partito del buono. Sì, abbiamo i santi, ma che ormai sono solo una parentesi accanto al Vangelo del giorno (memoria oppure memoria facoltativa). Non conosciamo la Bibbia, i santi ancora meno. I mistici li relativizziamo, eppure sono sempre loro le pietre scartate dai costruttori (intellettuali) che ci rivelano l’impronta di Dio nel cammino della Chiesa pellegrina. Ognuno può salvare anime. E i più dotti come i più ignoranti sanno come si fa. Ma bisognerebbe avere meno desiderio di aver ragione e più amore per Cristo. Amare Cristo senza preoccuparsi in prima persona della salvezza dell’anima di qualcuno che ci sta accanto è come amare senza incarnazione. D’altra parte Cristo non si è antropologizzato, ma si è incarnato, e sono due realtà differenti, visto che era e resta vero Dio (la scienza antropologica del divino umanizzato è un po’ l’eresia gnostica di ogni tempo).
Salvare anime è urgente. I santi non facevano altro che cercare di darsi da fare per Dio in questo modo. Buone patate ammuffite a tutti».
Salvare anime è urgente. I santi non facevano altro che cercare di darsi da fare per Dio in questo modo. Buone patate ammuffite a tutti».
Pubblicato da Elia
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