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Crisi della Chiesa: l'art. 1 della Dichiar. Conc. Nostra Aetate sulle religioni non-cristiane
Crisi della Chiesa: Commento all’art. 1 della Dichiar. Conc. Nostra Aetate , sulle religioni non-cristiane
Sommario: 1. La considerazione ora “più attenta” delle religioni non-cristiane: una nozione ambigua. 2. La supposta “unificazione del genere umano”, artificiosa giustificazione della nuova considerazione per le religioni non-cristiane. 3. Un nuovo “dovere” della Chiesa: promuovere l’unità tra i popoli ed “esaminare” ciò che essi hanno in comune e li spinge a “vivere insieme il loro comune destino”. 4. Il genere umano inteso arbitrariamente come “una sola comunità”, gratificato di un’unità vista nella prospettiva di una salvezza che non distingue più tra Eletti e Reprobi. 5. Non chiara la posizione del Cattolicesimo rispetto alle “varie religioni”.
L’art. 1 di questa Dichiarazione, etichettato Introduzione, sembra riproporre l’insegnamento tradizionale della Chiesa, consistente nella conversione dei popoli e quindi del genere umano a Cristo, nell’opera missionaria per la salvezza delle anime. Ma lo ripropone, sin dal primo capoverso, con una sfumatura nuova, che, ad un’attenta analisi, appare ambigua e gravida di possibili errori dottrinali.
1. La considerazione ora “più attenta” delle religioni non-cristiane: una nozione ambigua.
Secondo la tradizione e l’insegnamento millenario della Chiesa, l’opera di conversione muove dal presupposto che il mondo da convertire sia, come ha detto Nostro Signore, “il regno del principe di questo mondo” (Gv 12, 31). Il mondo vive sotto il segno del peccato originale. Il mondo, il genere umano deve esser salvato poiché tende sempre a prevalervi il male, anche se la possibilità del bene e quindi della salvezza non viene mai meno, per Grazia di Dio, poiché la corruzione della natura umana è stata parziale. L’idea di un mondo tendente sempre a far prevalere il male diventò parte integrante della nostra tradizione culturale.
“Gesù Cristo fu il primo che distintamente additò agli uomini quel lodatore e precettore di tutte le virtù finte, detrattore e persecutore di tutte le vere; quell’avversario di ogni grandezza intrinseca e veramente propria dell’uomo; derisore d’ogni sentimento alto, se non lo crede falso, d’ogni affetto dolce, se lo crede intimo; quello schiavo dei forti, tiranno dei deboli, odiatore degl’infelici; il quale esso Gesù Cristo dinotò col nome di m o n d o , che gli dura in tutte le lingue colte insino al presente”[1].
A questo Regno, il cui Signore è il Demonio, sono sempre state considerate appartenere t u t t e le altre religioni, in quanto non rivelate dal vero Dio (o, come nel caso dell’ebraismo post-cristiano, apostate rispetto alla loro missione autentica, per via del loro rifiuto del vero Messia). Ciò non significa, come sappiamo, che i loro seguaci siano a priori tutti dannati, potendo essi salvarsi individualmente nonostante la loro appartenenza a una di queste false religioni (Dottrina del battesimo di desiderio, esplicito ed implicito, che non esaminiamo qui, dandola per conosciuta).
Ora, il testo conciliare afferma che, a causa del processo di unificazione del genere umano, “la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane”: attentius considerat quae sit sua habitudo ad religiones non-christianas (N Aet 1.1).
Bisogna chiedersi: con “maggiore attenzione”, rispetto a che cosa o a chi? Evidentemente rispetto al passato della Chiesa stessa, al modo nel quale la Chiesa ha sempre giudicato le altre religioni, tutte non rivelate dal vero Dio, Uno e Trino, e quindi per la Chiesa f a l s e , in quanto pretendano di esser a loro volta rivelate o comunque di professare una verità assoluta valida per tutti gli uomini.
In questo attentius del testo conciliare appare implicitamente una critica al magistero del passato. Come se, per duemila anni, la Chiesa, missionaria per vocazione, dato che la missione di conversione di individui e popoli le appartiene per istituzione divina, non avesse considerato le “religioni non-cristiane” con la dovuta attenzione!
Questa è dunque, a mio avviso, la prima nota discordante, già nell’incipit di questo testo conciliare: con quell’avverbio esso, senza dirlo apertamente, sottopone a critica il modo nel quale la Chiesa stessa, per ben due millenni, ha preso in considerazione e giudicato le religioni non-cristiane. Secondo la logica che qui fa capolino, si dovrebbe allora dire che mons. Marcel Lefebvre, per più di vent’anni missionario nell’Africa equatoriale francese, protagonista di un’opera di conversione che, alla vigilia del Concilio, appariva assai fiorente, fonte di salvezza per tanti africani strappati alle tenebre dei loro culti pagani, non avesse in realtà avuto una considerazione veramente “attenta” della natura delle false religioni alle quali sottraeva le anime, convertendole a Cristo?
Si vede subito come le implicazioni logiche di certe affermazioni conciliari, apparentemente innocque o solo descrittive, conducano a conseguenze assurde, se applicate, come di dovere, a ciò che la Chiesa ha sempre fatto e a ciò che essa è sempre stata. Questo mi sembra un punto importante da tener presente.
Ma esaminiamo ora la ragione che indurrebbe a questo modo più attento e quindi nuovo di considerare le religioni non-cristiane.
2. La supposta “unificazione del genere umano”, artificiosa giustificazione della nuova considerazione per le religioni non-cristiane
La frase citata, contenente l’attentius, ha dunque, agli occhi del Concilio, una giustificazione nel fatto del (presunto) processo di unificazione del genere. umano. Il testo si inizia, infatti, in questo modo:
“Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggior attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane”(N Aet 1.1). Dunque, la “maggior attenzione” nel valutare le religioni non-cristiane dipenderebbe dal processo di “unificazione del genere umano”, cioè da un fatto esterno alle religioni non-cristiane, rimaste come tali immutate (tutte ostili, si noti bene, alla nostra, unica vera). Poiché tra i popoli “cresce l’interdipendenza”, la Chiesa deve cambiare il modo di considerare le loro religioni. Il testo non dice espressamente così ma questo è quello che si può legittimamente dedurre da questo art. 1, introduttivo.
Domanda del semplice credente: prescindendo dal carattere estrinseco dell’accostamento tra “unificazione del genere umano” e maggiore attenzione alle religioni non-cristiane, era poi vero che nel 1965, anno in cui fu approvata questa fatale Dichiarazione, quasi alla fine del Concilio, il genere umano si era già messo sulla via dell’unificazione? E poi, unificazione c o m e ? Sembra un concetto chiaro, quello dell’unificazione. Ma come applicarlo addirittura al genere umano? Unificazione che avrebbe portato ad un’unica lingua comune, ad un’unica religione comune, ad un governo comune (democratico) per tutta l’umanità, un governo mondiale, decidente non per questa o quella nazione ma ad un tempo per l’intero genere umano? Come si vede, l’idea di una “unificazione del genere umano” non riesce a darsi un contenuto concreto: sfocia di per se stessa nell’utopia più astratta. Non c’è bisogno di tanti ragionamenti per capire che l’unificazione del genere umano in un unico sistema di pensiero, credenze, vita, istituzioni (altrimenti, che “unificazione” sarebbe?) è compito superiore alle limitate forze dell’uomo. Già le differenze di lingua e di religione rendono a priori impossibile “l’unificazione del genere umano”. Per tacere di quelle di mentalità, usi e costumi.
Era all’opera l’ONU, è vero, e con compiti più limitati degli attuali, e, se mi ricordo bene, non così distruttivi per la famiglia e la morale, ma sempre in sostanza cassa di risonanza della lotta in corso tra gli schieramenti predominanti: al tempo, l’Occidente a guida americana, capitalista e democratico di contro all’Oriente a guida comunista, con i Paesi del c.d. “socialismo reale”. Il mondo era diviso in due blocchi. A parte se ne stavano i Paesi così detti “non allineati” (Yugoslavia, India, Indonesia e altri) che cercavano di trarre vantaggio da entrambi. Allora è stato profetico il Concilio nel prevedere e persino promuovere un processo di superamento dei “blocchi” grazie all’unificazione del genere umano che, settant’anni fa già in fieri, secondo molti oggi avrebbe raggiunto uno stadio irreversibile?
Secondo me, è più corretto dire che il mondo cominciava a far vedere una maggior “interdipendenza tra i popoli”, grazie anche alla loro comunanza forzata nei due blocchi politico-militari contrapposti, ma in nessun modo un processo di “unificazione del genere umano”. Questo processo, dov’è ancor oggi? Assistiamo ad una grande mescolanza di popoli e attività economiche, grazie all’abolizione di molte frontiere doganali e non. Ma forse che questo è un segno del realizzarsi dell’unità del genere umano? La mescolanza e la promiscuità non sono certo segni di unificazione, sono segni e agenti del caos. Nell’ambito di questo movimento spicca da tempo il trapiantarsi sempre più aggressivo e compatto di comunità islamiche in Europa. C’è un’invasione continua e di massa dalle zone più povere a quelle più ricche (Europa, Stati Uniti, Australia, Canada). Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con una “unificazione del genere umano”. Mostra solo una migrazione di popoli da una parte ad un’altra del mondo, dalla parte prolifica a quella che non lo è più. Tale migrazione non unifica il genere umano più di quanto lo unificassero le migrazioni ed invasioni barbariche del tardo impero romano, che provocarono una graduale “sostituzione etnica” di razze e popoli, all’origine delle successive nazioni europee. Ma non certo l’unificazione del genere umano allora conosciuto.
Ma nuove realtà politiche quali l’Unione Europea non mostrano forse in atto l’unificazione del genere umano, per ciò che riguarda l’Europa? L’Unione Europea è una costruzione artificiosa, nata da un’utopia laica che ha preso corpo dopo le carneficine della Grande Guerra, traducendosi però nella pratica secondo i dettami di precisi interessi statali ed economici (in particolari tedeschi). Sul piano dei valori, essa poggia sui contro-valori dell’ugualitarismo incondizionato e livellatore e della Rivoluzione Sessuale, distruttrice del matrimonio, della famiglia, della possibilità stessa di una vita etica, sia privata che pubblica. L’Unione difende i c.d. “orientamenti sessuali”, pseudo-categoria che include ogni sorta di deviazione, favorendo così il diffuso libertinaggio, il libero aborto, l’omosessualismo; impedendo con leggi inique di difendere la morale tradizionale e la famiglia secondo natura. Spiritualmente, si è rivelata una vera figlia del Principe di questo Mondo. Economicamente, lascia prevalere il capitalismo finanziario del c.d. “mercato globale”, funzionale al potere dei suoi Stati più forti. Costituzionalmente, è un’unione di Stati, in teoria rimasti sovrani, nella quale stanno prevalendo gli Stati economicamente e politicamente più forti (in particolare la Germania, con i suoi satelliti). Attualmente, dopo l’uscita della Gran Bretagna, è entrata in una fase critica, i cui sviluppi sono imprevedibili.
L’Unione Europea non mostra altro che l’omologazione di quella che era una volta l’Europa al medesimo spirito mercantile e alla medesima corruzione dei costumi. Sarebbe questa un’attuazione significativa dell’“unificazione del genere umano”? Si assiste all’unificarsi del nostro modo di vivere a costumi (di origine statunitense) che sono diventati gli stessi, in senso peggiorativo, in tutta Europa; in coincidenza con il diventar dell’Europa una società multirazziale e multiculturale, come si suol dire oggi. Ma ogni società di questo tipo è solo una Babele via via sempre più ingovernabile, come dimostrano ampiamente i fatti. Ciò è la dimostrazione che l’attuazione pratica di una società che mostrerebbe l’auspicata unificazione del genere umano, grazie al mescolarsi delle etnie e delle culture, non può condurre altro che alla negazione stessa di ogni veraunità e alla decadenza dei disgraziati popoli che si trovano ad esserne vittime.
La mia impressione è che quest’idea completamente assurda dell’unità del genere umano quale compito da realizzare, ricorrente nei testi del Concilio, e posta addirittura tra i compiti della Chiesa, presa a prestito (quanto alla sua origine) dalle filosofie della storia illuministiche, dal taglio cosmopolita e visionario, trapassate nelle utopie rivoluzionarie dei Giacobini, del socialismo umanitario di un Mazzini, di quello marxista, apocalittico e sterminatore dei Bolscevichi, tutte miranti alla palingenesi del genere umano per realizzarne l’unità secondo ideali ugualitari, democratici, comunistici; sia tornata in auge, tale idea, soprattutto come aspirazione della Gerarchia cattolica, a partire appunto dal Concilio. In tal modo quest’idea è diventata una sorta di nozione comune accettata soprattutto grazie al Concilio e all’ecumenismo propagandato a gran voce dalla Chiesa in nome del Concilio. Si tratta di un’idea cui non corrisponde né potrebbe corrispondere alcuna effettiva realtà storica concreta. È solo un’insana utopia.
Bisogna pertanto ribadire che quest’idea non è stata adottata dalla Chiesa perché espressione di un processo storico irresistibile già in movimento; al contrario, in quanto elaborata dalla Chiesa (nei filamenti neomodernisti penetrati nei testi del Concilio e nella praxis del Postconcilio) ha influito sulla mentalità delle moltitudini, a cominciare da quelle cattoliche, convincendole (a torto) della realtà di quello che è solo un rigurgito di antiche eresie millenaristiche, sottoposte a maquillage con il rancido belletto acquistato nel retrobottega del pensiero moderno e contemporaneo.
Le masse maomettane che si stanno riversando da noi, e da parecchi anni, aspirano al dominio delle nostre società e in generale del mondo, secondo i dettami della loro religione. Non abbiamo qui il genere umano che cerca di unirsi per realizzare la pace tra i popoli: abbiamo, invece, una parte considerevole di esso che si sta espandendo per conquistare e sottomettere tutto il resto. Un processo di conquista e sottomissione, con tutti i mezzi, alla faccia della supposta unificazione.
L’interpretazione della realtà storica del tempo del Concilio, offertaci dal Concilio stesso quale realtà in atto di un processo di unificazione del genere umano, non va perciò accettata come se essa esprimesse una valida intuizione del futuro autentico sviluppo storico. Essa va invece respinta in quanto falsa in sé e in quanto attestato di una falsa coscienza che si voleva dare al Concilio ossia alla Chiesa cattolica. Falsa, questa coscienza, perché coscienza che era in realtà espressione di un’ideologia di tipo neoilluministico, marxisteggiante ed esistenzialistico; coscienza di un desiderio del tutto profano, quello dei neomodernisti di rappresentare la Chiesa come autocoscienza di un mondo che stava andando (a dir loro) verso l’unità, in modo che fosse la Chiesa stessa (in quanto “Chiesa aperta” - Karl Rahner) a porsi a capo di questo affermato movimento, in sostanza anticipandolo. La Chiesa, allora, come coscienza del mondo, con un fine solamente terreno, per di più utopico, e non più come Corpo Mistico di Cristo, con il suo fine sovrannaturale unico, la salvezza eterna dell’anima di ciascuno di noi. Secondo questa falsa coscienza di sé che il Concilio ha insufflato nella Chiesa, hanno operato e operano i Papi da Giovanni XXIII in poi: l’ecumenismo da essi proposto è l’attuazione di questa falsa coscienza.
3. Un nuovo “dovere” della Chiesa: promuovere l’unità tra i popoli ed “esaminare” ciò che essi hanno in comune e li spinge a “vivere insieme il loro comune destino”.
Prosegue il testo di N Aet 1, sempre nel primo capoverso, che va letto aggiungendovi la prima frase del secondo, per averne il senso completo:
“Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, essa [la Chiesa] in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino.
I vari popoli costituiscono infatti una sola comunità [etc]”.
Abbiamo qui una nozione di dovere della Chiesa che dovrebbe essere conforme a quanto sempre insegnato sulla base della Scrittura, della Tradizione, del Magistero ecclesiastico. Il Concilio ci dice che la Chiesa ha “il dovere di promuovere l’unità e la carità tra i popoli” oltre che tra gli uomini. Per adempiere a questo “dovere” la Chiesa esamina ora tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spingerebbe “a vivere insieme il loro comune destino”.
Ma questo dovere corrisponde effettivamente a quanto ordinato da Cristo alla Chiesa da Lui fondata? Non ha Egli ordinato ai Discepoli di “andare e insegnare” sì da rendere suoi discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo? (Mt 28, 16 ss.). E ribadendo che chi non avrebbe creduto non si sarebbe salvato? “Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo, chi non crederà, sarà condannato”(Mc 16, 15-16).
La missione della Chiesa, stabilita dal Signore in persona, è quella di convertireindividui e popoli a Cristo, facendo di ogni uomo peccatore un “uomo nuovo” in Cristo (Gv 3, 3 ss). Una missione soprannaturale, assolutamente unica. Ma il testo conciliare, anziché ribadirla, questa missione, la sostituisce con l’unità del genere umano e la carità tra i popoli quale vero scopo della missione della Chiesa. Un’unità che prescinde dalla conversione, dunque, mai nominata. E di quale carità si parla qui? Dovrebbe essere la carità cristiana, l’amore del prossimo per amor di Dio. Ma come può esserci “carità tra i popoli” senza la loro conversione a Cristo? La carità, ci ricorda san Paolo, non può esser separata dalla verità: “La carità si compiace della verità”(1 Cr 13, 6). E la verità, per noi cattolici, è solo quella che ha insegnato Nostro Signore. Egli ha ordinato alla sua Chiesa di convertire i popoli, con la predicazione e l’esempio di una santa vita, non di ricercare l’unità del genere umano, prescindendo dalla loro conversione.
Con ogni evidenza, si introduce qui, preliminarmente al discorso sul rapporto con le religioni non-cristiane, il concetto del tutto nuovo che l’unità tra i popoli, l’unità del genere umano sia ora la missione specifica della Chiesa, il suo fine. Tale straordinario concetto, non conforme a quanto sempre insegnato e creduto, viene affermato in modo tortuoso anche nell’art. 1 della costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa (21 novembre 1964), che si occupa della Chiesa come sacramento in Cristo, espressione tutt’altro che chiara.
Va pertanto osservato:
1. Non risulta che tale fine sia stato mai indicato da Nostro Signore né dagli Apostoli. Egli pone sempre l’accento sul significato e sul valore dell’unità di coloro che credono e crederanno in Lui, l’unità dei suoi fedeli, dei cristiani, non quella del genere umano. Nella grande Preghiera al Padre subito prima della Passione, riportata da san Giovanni, Egli afferma di pregare per i discepoli non per il mondo in generale; di pregare affinché il Padre li custodisca dopo la sua morte, ormai imminente: “Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che mi hai donati, perché sono tuoi” (Gv 17, 9). E specifica di pregare anche “per quelli che crederanno in Me, per la loro parola” cioè per merito della predicazione dei Discepoli, che li avrà per l’appunto convertiti a Cristo; di pregare, “affinché siano tutti una cosa sola, come tu sei in me, o Padre, ed io in te; che siano anch’essi una cosa sola in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato”(Gv 17, 20-21). Alla vigilia della Croce, Nostro Signore pregò dunque il Padre affinché proteggesse, mantenendoli uniti, i Discepoli e i fedeli da loro convertiti con la predicazione, cioè con la loro opera missionaria, e tutti quelli che avrebbero in futuro creduto in lui per opera loro, dei Discepoli. Non c’è né ci potrebbe essere qui spazio per l’unità del genere umano, non meglio specificata ed indipendente dalla conversione.
Ma proprio questi versetti di Gv 20-21 vengono impropriamente citati a giustificazione del sincretistico ecumenismo attuale, quello appunto che ha sostituito l’unità del genere umano alla conversione; un fine intramondano e per di più utopistico al fine sovrannaturale della Chiesa. E lo ut unum sint del versetto 20 ha dato il titolo ad una celebre Enciclica di Giovanni Paolo II, dedicata allo “impegno ecumenico”, ovviamente nel senso auspicato dal Vaticano II.
2. Che la missione della Chiesa dovesse essere quella di convertire il genere umano sino a realizzarne l’unità in Cristo, nemmeno si può dire. Infatti, secondo quanto ci è stato rivelato, il mondo e la sua storia finiranno all’improvviso, così come si troveranno, dal momento che il Ritorno o Parousia del Signore come Cristo Giudice, alla fine dei tempi, sarà istantaneo come il lampo (Mt 24, 27). E molti non si salveranno, ci ha detto più volte il Signore (“di due che si troveranno in un campo, l’uno sarà preso e l’altro lasciato”, Mt 24, 40). E se non si salveranno, ciò vuol dire che non ci sarà m a i l’unità del genere umano, nemmeno nella conversione. Anzi, il Cristo Giudice, separando alla fine dei tempi per sempre gli Eletti dai Reprobi (Mt 25, 31 ss.), dimostrerà che l’unità del genere umano non c’era mai stata, mentre il loglio cresceva assieme al buon grano (le agostiniane Due Città, celeste e terrena, intrecciate in questo mondo ma intimamente separate). Né mai ci sarà, dato che la divisione incolmabile in Eletti e Reprobi durerà in eterno (Lc 16, 26, parabola del Ricco Epulone).
4. Il genere umano inteso come “una sola comunità”, gratificato di un’unità vista nella prospettiva di una salvezza che non distingue più tra Eletti e Reprobi
Il Concilio attribuisce dunque alla Chiesa il compito di esaminare ciò che i popoli hanno in comune e che li spingerebbe verso “il loro comune destino”.
“I vari popoli costituiscono infatti una sola comunità [Una enim communitas sunt omnes gentes]. Essi hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra [At 17, 26]; hanno anche un solo fine ultimo, Dio, la cui provvidenza, le cui testimonianze di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti [Sap 8, 1; At 14, 27; Rm 2, 6-7; 1 Tm 2, 4], finché gli eletti saranno riuniti nella Città santa, che la gloria di Dio illuminerà e dove le genti cammineranno nella sua luce [Ap 21, 23 ss.]” (N Aet 1.2).
Il fatto che i popoli, secondo il Concilio, “siano una sola comunità” sembra posto come un dato oggettivo giustificante il dovere della Chiesa di promuovere l’unità del genere umano. Tale unità costituisce allora il fine dell’azione missionaria della Chiesa, che tuttavia già deve presupporla, se i popoli, in quanto tali, costituirebbero già “una sola comunità”. L’unità del genere umano, posta o r a come fine alla Chiesa, sarebbe la logica conseguenza, per il Concilio, del fatto che in se stessi i popoli sarebbero di già “una sola comunità”.
Il dovere della sua azione missionaria alla Chiesa l’ha imposto il suo divino Fondatore, non il mondo. Ora, invece, il fondamento di tale dovere diventa terreno, mondano: la Chiesa avrebbe il dovere di promuovere quell’unità dei popoli ossia del genere umano che il genere umano già possederebbe in quanto di per sè costituente una sola comunità.
Viene qui applicato il concetto di comunità, come se si trattasse di nozione ovvia e scontata. In ogni caso, nell’uso comune, la nozione di comunità implica sempre, in prima approssimazione, quella di un aggregato umano coeso sulla base di princìpi e interessi appunto comuni, condivisi, e ispirato da essi nel suo comportamento giornaliero. Che tale nozione si possa applicare sic et simplicter al genere umano in quanto tale, sembra come minimo temerario. Ad ogni modo, il testo conciliare giustifica tale applicazione con una serie di passi scritturali riportati in nota, e da me indicati nel testo, che dovrebbero conferirle anche un fondamento teologico. I vari popoli costituirebbero una comunità in senso oggettivo, perché dipendente dal modo nel quale Dio li ha concepiti, in relazione al suo disegno di salvezza: uniti per la comune origine e per il fine, ugualmente comune, entrambi voluti da Dio.
4.a I passi scritturali citati in nota dovrebbero rappresentare le fonti grazie alle quali si dimostra la continuità degli assunti del Vaticano II con la dottrina di sempre della Chiesa. Andiamo a vedere che cosa dicono questi passi. Il primo è tratto dagli Atti degli Apostoli, 17.26:
“Egli da un solo uomo ha fatto uscire tutto il genere umano, per popolare tutta la faccia della terra, avendo determinata la durata dei tempi e i confini della loro dimora”.
Il brano proviene dal discorso di san Paolo all’Areopago. Qui san Paolo ci ricorda che siamo tutti figli dello stesso Padre, Dio Onnipotente, che ha voluto crearci e popolare la terra, determinando anche i “confini” delle nostre “dimore”. Ma questa comunanza di natura, fisica e psicofisica, non implica affatto che tutti gli uomini, tutti i popoli costituiscano “una sola comunità” per il sol fatto di esser tali. L’esser gli uomini “progenie divina” è concetto utilizzato da san Paolo non per affermare che il genere umano costituisca un’unità, “una sola comunità”, ma per dichiarare, invece, che ognuno di noi deve ricercare il vero Dio, che ora egli sta annunziando a un limitato e occasionale pubblico di Ateniesi incuriositi anche se scettici, tra i quali tuttavia alcuni credettero.
Infatti, come continua quel celebre discorso? Dio “ha voluto che gli uomini cercassero Dio e si sforzassero di trovarlo, come a tastoni; quantunque Egli non sia lontano da ciascuno di noi”. Non è “lontano” perché non possiamo mai esser separati da Dio: “In Lui, infatti, noi viviamo, ci muoviamo e siamo, come hanno detto alcuni dei vostri poeti: - Di lui, infatti, progenie siamo” (At 17, 27-28). Dio non ha imposto nessuna uniformità al genere umano ma ha lasciato che i popoli seguissero le loro vie nel “cercare Iddio”. Ed essi l’hanno fatto inevitabilmente “a tastoni”, ossia alla cieca, fabbricandosi tante religioni diverse, non rivelate. Dunque, la ricerca di Dio secondo la religiosità naturale non ha comportato alcuna unità del genere umano, nonostante l’origine divina comune a tutti gli uomini: individui e popoli si sono fatti le loro particolari credenze religiose, procedendo come chi cammina nell’oscurità.
Ma dal verso del poeta – Arato, modificato dallo stoico Cleante nel suo famoso Inno a Giove, ci informano gli esegeti – san Paolo trae ulteriori conseguenze, quelle più importanti.
Essendo “progenie” di Dio non possiamo considerarci “lontani” da Lui. Per scoprire la vera presenza di Dio in noi e nel mondo, dobbiamo però liberarci delle false rappresentazioni di Dio, che sono quelle offerteci dal politeismo e dal culto degli idoli, impestato dal Demonio . Le dispute di san Paolo con gli Ateniesi vertevano proprio sul loro culto sbagliato a Dio, compreso l’altare “Al Dio Ignoto”, che l’Apostolo prese a spunto del suo intervento, peraltro sollecitato dagli stessi ateniesi, desiderosi di capire quale fosse veramente la sua dottrina (At 17, 16 ss).
“Perciò Iddio, non tollerando più i tempi di questa ignoranza [del vero Dio], annunzia agli uomini, che tutti e in ogni luogo, devono pentirsi, perché ha fissato un giorno in cui a rigor di giustizia, giudicherà il mondo per mezzo di un uomo, che Egli ha designato, dandone sicura prova a tutti col risuscitarlo dai morti”(At 17, 30-31).
Il tempo dell’ignoranza è finito. Come lo sappiamo? Per divina rivelazione, che ammonisce “tutti e in ogni luogo” a pentirsi, rinunciando alle loro religioni (e al loro modo di vivere pagano) se vogliono salvarsi. Tutti, infatti, il Giorno del Giudizio saranno giudicati dal Risorto.
L’unica “unità” possibile per il genere umano, qual’è essa allora, da un punto di vista cristiano? Quella del pentimento di ciascuno, della conversione, della scoperta della fede nel vero Dio. Così deve agire chi è veramente “progenie di Dio”.
Ma il testo di Nostra Aetate lascia completamente fuori la teologia del pentimento e della conversione a Cristo, che san Paolo espone già sulla semplice constatazione dell’origine divina del genere umano, cosa che ci rende tutti figli di uno stesso Padre celeste, con il conseguente obbligo di riconoscerne la vera natura e adorarlo in conseguenza, ora che tale natura è stata rivelata per tutti dall’Incarnazione del Verbo, Nostro Signore Gesù Cristo.
L’”una sola comunità” che tra i popoli verrebbe ad esser costituita dal fine della loro salvezza, voluto da Dio in modo da ricomprendere tutti, come verrebbe allora a giustificarsi nell’ottica del testo conciliare? Con l’intenzione di Dio che tutti siano salvi. Ciò desidera la bontà divina, che provvede materialmente per tutti gli abitanti della terra. Il “fine ultimo”di tutti gli uomini è dunque rappresentato dalla salvezza, è di natura escatologica. Ciò risulterebbe dai seguenti testi, citati a sostegno in nota.
4.b Il passo del libro della Sapienza, si limita a richiamare come Dio governi con bontà il mondo.
“Essa si estende, con potenza, [la Sapienza di Dio] da un capo all’altro del mondo, e con bontà governa l’universo intero”(Sap 8, 1-3).
La bontà di Dio ricomprende anche i Gentili, essa provvede per tutti, giusti o ingiusti che siano. Provvede per l’esistenza materiale, ordinando la natura in modo che l’uomo ne possa trarre il legittimo vantaggio e godimento. Ma provvede anche per lo spirito e l’anima, estendendo la Rivelazione e quindi la possibilità della salvezza anche ai Gentili, ossia all’intero genere umano, oltre che ai soli ebrei: “Appena giunti, convocarono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo di loro e come avesse aperto ai Gentili la porta della fede”(At 14, 27).
Questo è il secondo passo degli Atti degli Apostoli citato in nota dal Concilio, per dimostrare l’estendersi della bontà di Dio a tutti i popoli, tramite l’opera missionaria degli Apostoli. Paolo e Barnaba, rientrati ad Antiochia di Siria dal loro viaggio missionario nella anatolica Liconia, informano la comunità cristiana ivi presente, formata probabilmente in gran parte da giudei convertiti, delle conversioni ottenute presso i pagani, nonostante il tumulto suscitato contro di loro da “alcuni Giudei”, che aizzarono la folla e lapidarono Paolo, lasciandolo come morto fuori della città, “credendo d’averlo ucciso”. San Paolo, invece, si salvò e testimoniò ai convertiti “tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo di loro” (At 14, passim).
Da ricordare che san Paolo, avendo guarito miracolosamente uno storpio nella città di Listri, in Liconia, era stato acclamato come divinità dalla folla (gridavano che Paolo era Mercurio e Barnaba Giove). Ma egli, assieme a Barnaba, si precipitò in mezzo alla stessa folla per farle capire il suo grave errore, riproponendo la medesima verità del Discorso dell’Areopago: noi siamo solo uomini come voi, esclamò, “venuti ad annunziarvi che voi dovete abbandonare codeste vanità [il culto pagano], per rivolgervi al Dio vivente, che ha creato il cielo e la terra. Questo Dio, nelle generazioni passate, ha permesso che tutte le nazioni seguissero le loro vie, quantunque Egli non abbia mai cessato di render testimonianza di se stesso, facendo del bene, mandando dal cielo le piogge e le fertili stagioni, dandovi cibo in abbondanza e ricolmando di gioia i vostri cuori”(At 14, 15-17).
Dal punto di vista religioso, non c’era né ci poteva essere, unità del genere umano: Dio aveva permesso che “ogni nazione seguisse le sue vie” anche se non per questo aveva smesso di governare il mondo con bontà, non facendo mancare il necessario, anche dal punto di vista delle semplici gioie della vita di tutti i giorni, quella che appunto trae diletto dalle cose semplici, quotidiane. Dunque, dai Testi citati risulta che il Disegno di Salvezza viene esteso da Dio a tutti gli uomini, che questa salvezza passa per il pentimento e la conversione al cristianesimo, che tutti gli uomini devono diventar cristiani. Insomma, che la salvezza si può ottenere solo ad opera di Cristo e della Chiesa da Lui fondata. Ma questo fondamentale concetto non si ricava dal capoverso conciliare in esame: sembra anzi che la salvezza sia ora la naturale conseguenza, voluta da Dio, dell’unità del genere umano da Lui stesso stabilita, con il crearlo, unità che la Chiesa deve mantenere, arricchire, portare a compimento!
4.c Che a tutti gli uomini sia offerta la possibilità della vita eterna, viene ribadito anche da due altri testi, gli ultimi due tra i quattro riportati.
Il versetto della Lettera ai Romani, costituente la terza citazione riportata in nota dallaNostra Aetate, ci insegna che ciascuno sarà giudicato secondo le sue opere, “nel Giorno dell’Ira e della manifestazione del Giudizio di Dio”. In quel giorno, ci rivela l’Apostolo, “Egli darà a ciascuno secondo le sue opere: a coloro che, con la perseveranza nel bene, cercarono l’onore, la gloria e l’immortalità – la vita eterna”(Rm 2, 6-7). Qui si ferma la citazione, come indicata in nota dal testo conciliare, che non ha voluto riferirsi anche alla continuazione: “ma per coloro che sono ostinati, che si ribellano alla verità e credono invece all’iniquità – è riservata ira ed indignazione”(Rm 2, 7-8). Perché questa troncatura? Perché il Concilio non ha voluto ricordare che la divina Giustizia inevitabilmente separerà per l’eternità gli Eletti dai Reprobi?
4.d L’incompleta rappresentazione della vera escatologia cristiana si conclude con la citazione del famoso passo della Lettera a Timoteo, nel quale, lodando la pratica della preghiera dei fedeli “per tutti gli uomini” anche “per i re e per tutti quelli che sono costituiti in dignità”, l’Apostolo spiega: “È cosa buona questa e gradita al cospetto di Dio, nostro Salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità. Non vi è, infatti che un Dio solo, e uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, uomo anche lui, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa è la testimonianza resa a suo tempo da Dio, per la quale io sono stato costituito banditore e apostolo…”(1 Tm 2, 4 ma in realtà: 1-5).
4.e Perché incompleta, questa rappresentazione, dietro l’apparente riproposizione della dottrina di sempre? Perché, come già detto, essa insinua l’idea che Dio, creando tutti gli uomini e ponendo per tutti loro il fine della salvezza, avrebbe realizzato in tal modo l’unità del genere umano, avrebbe cioè fatto di tutti gli uomini “una sola comunità”, che sarebbe durata fino al giorno in cui “gli eletti” si sarebbero “riuniti nella Città santa”; come a dire: sino al giorno in cui sarebbero andati tutti in Paradiso (Ap 21, 23-24, ultima citazione riportata nel testo conciliare: “La città non ha bisogno di sole né di luna che la illumini; perché la illumina la gloria di Dio e il suo luminare è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce, e i re della terra portano in lei la loro gloria”).
E allora, dov’è lo scandalo, potrebbe dire qualcuno? Se il testo dice che “il disegno di salvezza di estende a tutti, finché gli eletti saranno riuniti nella Città santa”[consilia salutis ad omnes se extendunt, donec uniantur electi in Civitate Sancta], usando il termine “eletti” non si implica la verità di fede del Giudizio finale e la divisione finale del genere umano in Eletti e Reprobi, come risulta dal Vangelo (Mt 25, 31 ss) e dalla stessa Apocalisse? Certamente, si può leggere il testo in questo modo, conforme alla dottrina di sempre della Chiesa, inequivocabilmente dichiarata nei Testi sacri.
Ma il fatto di stabilire una inesistente “unità” di tutti gli uomini, per il solo fatto di esser stati creati da Dio; unità ricompresa come tale nel disegno di salvezza, senza poi precisare che alla fine dei tempi il loglio sarà separato dal grano, può indurre a leggere il testo nel senso che gli “eletti” siano qui tutti gli uomini, che cioè l’unità del genere umano attuata dal disegno di salvezza manterrà uniti tutti gli uomini anche nel Regno di Dio o Città Santa; in definitiva, ingenerare l’impressione che tutti gli uomini sono gli eletti. E sono gli eletti perché sono già stati eletti in quanto uomini, ricompresi da Dio nel suo disegno (unitario) di salvezza, in quanto da Lui creati. Il testo non avrebbe dovuto dire, ad evitare equivoci: “i cui eletti” o “gli eletti dopo il Giudizio finale”?
4.f L’impressione discordante con il dogma della fede deriva da una combinazione di affermazioni non vere (l’esser i vari popoli “una sola comunità”) e di omissioni, di silenzi(sulla verità di fede che gli Eletti siano tali solo dopo il Giudizio finale, che divide per sempre il genere umano in Beati e Dannati, dimostrando così che l’unità del genere umano, oltre a non esser mai esistita in sé non ha mai costituito un elemento essenziale del disegno di salvezza del Padre).
E che, dal punto di vista di Dio, l’unità del genere umano non abbia mai rappresentato un valore, e quindi un fine in sé, lo capiamo già dal fatto che Egli ha inizialmente scelto un solo popolo, l’ebraico, per iniziare da esso il disegno di salvezza. Con l’Incarnazione del Verbo e la sua missione, tale disegno si sarebbe poi esteso a tutti i popoli, diventando, in tal modo, progressivamente universale. Ai culti pagani dei vari popoli, peraltro tra loro piuttosto differenziati, si contrapponeva il rigido e chiuso monoteismo degli ebrei. Se presso il paganesimo, anche presso popoli primitivi, troviamo diffusa l’intuizione di un Essere Supremo onnisciente, ossia un’intuizione in senso monoteistico, la salvezza per loro dipendeva pur sempre dal giudizio della coscienza individuale, dalla sua capacità di ascoltare e seguire i dettami della legge di natura posta da Dio nei loro cuori, capacità sicuramente sorretta in modo misterioso dallo Spirito Santo (Rm 2, 12 ss)[2]. La percezione diffusa dell’esistenza di un Essere Supremo non dimostrava, comunque, l’esistenza dell’unità del genere umano. Le differenze tra le varie religioni e società persistevano immutabili.
Il disegno di salvezza del Padre operava dunque in modo differenziato, non unitario, muovendo in modo esplicito da un solo popolo, contrapposto a tutti gli altri. Questo popolo ha poi rinnegato il Messia atteso, anche se pro tempore (Rm 11, 25), rinchiudendosi in se stesso e frapponendo ostacolo al disegno di salvezza del Padre, attuatosi pertanto in contrapposizione all’Israele post-cristiano oltre che in antitesi al mondo, che non amava e non ama esser convertito : “les hommes ont mépris pour la religion; ils en ont haine, et peur qu’elle soit vraie”[3]. In realtà, il disegno di salvezza del Padre si attua nella contrapposizione e nella lotta (“Credete che io sia venuto a mettere la pace sulla terra? No, io vi dico, ma la divisione”, Mt 12, 51); esso mira all’unità in questo mondo dei convertiti, dei cristiani (Gv 17, 6 ss), non all’unità del genere umano in quanto tale, la cui realtà resta invece, anche e soprattutto dal punto di vista religioso, quella della scissione e della divisione, della lotta perenne; lotta che per noi lo è contro noi stessi (in interiore homine) in quanto parte del mondo e contro il mondo regno del Principe di questo mondo (Lc 11, 23), sino al giorno della Parousia.
Il nesso tra unità del genere umano e salvezza voluta dalla Provvidenza in modo per l’appunto unitario agli “eletti”, nesso che il testo (per come è formulato) autorizza a scorgere, appare pertanto frutto dell’intrusione di una concezione della salvezza non conforme a quanto sempre insegnato dalla Chiesa, dal momento che vi viene del tutto obliata la verità di fede del Giudizio universale. Il testo, infatti, fa apparire il finale esser “riuniti nella Città Santa” quale risultato lineare della bontà di Dio che si attua nel suo “disegno di salvezza”. Questo disegno “si estende a tutti finché gli eletti non saranno riuniti” in Paradiso, senza evidentemente esser passati al vaglio di alcun Giudizio, visto che esso non viene nominato quale indispensabile cerniera tra l’essersi esteso del Disegno Salvifico del Padre e l’esser entrati quali Eletti nella Città Santa (tra “l’estendersi” e “l’entrare” interviene la Parousia di Nostro Signore, che perfeziona “l’estendersi” con la dovuta, sovrannaturale cernita finale e defintiva del genere umano). Del resto, quest’omissione è perfettamente comprensibile: il Giudizio assolve e condanna e quindidivide, facendo venir meno la pensabilità stessa di una qualsiasi unità intrinseca al genere umano, tale, per di più, da mantenerlo tutto unito sino alla salvezza.
4.g Il testo di Nostra Aetate 1 permette dunque, a mio avviso, una lettura nel senso dell’esistenza di una volontà incondizionata di salvezza da parte di Dio. Non lo dice apertamente, è ovvio, ma lo suggerisce. Ora, anche solo suggerire una prospettiva del genere significa andare contro la dottrina sempre insegnata dalla Chiesa. Infatti, la teologia ortodossa, sempre approvata dal Magistero, ha efficacemente dimostrato, sulla base inequivocabile dei testi, che la volontà di salvezza del Padre non è incondizionata. Il che significa, in altre parole: che Dio voglia che tutti gli uomini siano salvi non significa affatto che tutti per ciò stesso lo saranno; che insomma tutti in ogni caso si salvino, come in effetti si crede ormai oggi, in modo del tutto scorretto, non cattolico. Si tratta di un terribile errore nella fede.
La Grazia e la volontà divine nei nostri confronti si attuano coinvolgendo sempre lalibera volontà di ciascuno di noi, la nostra individuale responsabilità.
Consideriamo la nozione della grazia attuale, che è la grazia in atto, che ci spinge ad un comportamento valido per la salvezza, ma agendo in modo non continuativo (come invece quella abituale, santificante, segno di predestinazione alla Gloria). Essa è “un’azione di Dio sovrannaturale e temporanea sulle forze dell’anima umana, con l’intento di spingere l’uomo a compiere un’azione salvifica”[4].
Ora, è sentenza certa (contro Lutero ed accoliti) che “la grazia attuale illumina l’intelligenza e fortifica la volontà interiormente e direttamente”. È invece dottrina della Chiesa, e quindi verità di fede dogmaticamente definita, che “è assolutamente necessaria la grazia interiore sovrannaturale divina (gratia elevans) ad ogni atto salvifico” prodotto dall’uomo. Quest’atto, ossia ogni atto conforme ai Dieci Comandamenti, ogni atto moralmente valido, insomma ogni atto gradito a Dio non può aver luogo con le sole forze umane, che pur devono concorrervi. Contro l’errore pelagiano e razionalista, la Chiesa ha sempre ribadito che senza l’aiuto, il concorso indispensabile della Grazia noi non possiamo né avere la fede né fare il bene[5].
Questo stimolo e concorso dall’alto opera dunque in noi “elevando” le nostre facoltà. Questo stimolo e concorso sovrannaturale è dato a tutti gli uomini per metterli in grado di esercitare ciò che è gradito a Dio per la loro salvezza. Esso opera in due modi tra loro coordinati: l’azione della grazia preveniente e della grazia conseguente.
È verità di fede che “esiste un’azione sovrannaturale di Dio sulle forze dell’anima, precedente la libera decisione della volontà”. Nella circostanza, Dio agisce da solo (in nobis sine nobis), producendo un atto spontaneo nostro di conoscenza e volontà. Questo è l’agire della grazia preveniente (gratia praeveniens, antecedens, excitans, vocans, operans). Forse, aggiungo, l’azione della grazia preveniente la riscontriamo in certe improvvise illuminazioni interiori sul vero significato delle nostre o altrui azioni, nel sopravvenire di certi improvvisi rimorsi, nell’ispirazione subitanea a compiere una buona azione, a fuggirne una cattiva…Immagine classica di questo operare della Grazia si ha in Ap 3, 20: “Ecco, io sto alla porta e busso: se uno sente la mia voce e mi apre, io entrerò da lui e cenerò con lui, e lui con me”[6].
Possiamo dire che, in quest’azione della grazia preveniente, si riveli nello stesso tempo la volontà di salvezza di Dio nella sua universalità ossia in tutti gli uomini, ma come volontà condizionata. Condizionata, nel senso che ad essa deve corrispondere l’azione della nostra libera volontà, cooperante con la Grazia (bisogna aprire la porta al Signore), per non cadere in peccato e per uscire da questa vita in stato di grazia. Ancora Ott: “la volontà di salvezza generale (universale) di Dio, senza tener conto della situazione morale definitiva di ciascuno di noi, vuole la salvezza di tutti a condizione che essi abbandonino questa vita in stato di grazia: voluntas antecedens et condicionata”[7].
Tornando alla grazia attuale: qual è il ruolo svolto dalla grazia susseguente? È articolo di fede che: “esiste un’azione divina sovrannaturale sulle forze dell’anima, temporaneamente coincidente con l’azione della volontà libera dell’uomo”. Questa grazia “sostiene ed accompagna la libera attività della volontà umana e viene chiamata gratia subsequens perché in rapporto all’effetto della grazia preveniente, o gratia adiuvans, concomitans, cooperans”. Un testo classico per determinare quest’azione concomitantedella Grazia si ha in san Paolo, 1 Cr 15, 10: “Ma per la grazia di Dio sono quello che sono, e la grazia, che Egli mi ha data, non fu vana, ma ho lavorato più di tutti loro; non io, ma la grazia di Dio insieme a me [gratia Dei mecum]”[8].
In altre parole: non possiamo fare il bene e obbedire ai comandamenti del Signore senza l’aiuto della Grazia, che viene prima offerta a ciascuno di noi e poi si accompagna, però sostenendola in maniera determinante, alla nostra esplicita quanto libera volontà individuale di seguire l’impulso scaturito da quell’offerta. Ma che la volontà di Dio di salvare tutti gli uomini sia condizionata dalla loro risposta all’azione della Grazia attuale, dal loro cooperare con essa nella lotta per la loro santificazione quotidiana; di questa fondamentale verità di fede in Nostra Aetate non sembra esservi traccia.
6. Non chiara la posizione del Cattolicesimo rispetto alle “varie religioni”
Nell’ultimo capoverso di questo articolo 1, Nostra Aetate ci presenta il significato delle “varie religioni” dal punto di vista delle attese spirituali degli uomini, che nella religione notoriamente trovano da sempre conforto ai loro problemi più gravi, alle loro ansie, ai loro drammi, alle loro disperazioni, alle loro speranze.
“[Homines a variis religionibus responsum expectant…] Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo” (N Aet 1.3).
Che gli uomini, sin dai tempi più antichi cerchino nella religione anche una risposta a problemi e situazioni di questo tipo, coinvolgenti questioni essenziali sulle loro necessità, su ciò che sono, su quale sarà il loro destino ultraterreno, sul perché la vita sia così spesso afflitta da gravi sofferenze spirituali - tutto questo, non lo si può certo negare.
Non è stato proprio Nostro Signore a dire: “Venire a me voi tutti che siete stanchi ed affaticati ed Io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me poiché sono dolce ed umile di cuore; e troverete pace per le anime vostre poiché il mio giogo è soave e il mio peso leggero “(Mt 11, 28-30)? Come sono state sempre intese queste profonde e divinamente misericordiose parole se non nel senso che solo in Cristo, accorrendo a Lui, dandosi a Lui, pentendosi, cambiando vita, è possibile trovare un senso al mistero della sofferenza, del dolore, delle sventure che sempre si abbattono su di noi, connesse le nostre sofferenze da sempre al mistero del male, del peccato, della redenzione?
Ma ora, ciò che gli uomini si attendono dalle “varie religioni” non trova più risposta nell’unica e vera, ossia nella religione cattolica, l’unica rimasta fedele nei secoli all’insegnamento del Divino Maestro? Di frone a questo testo conciliare bisogna infatti chiedersi: tra le “varie religioni”, che non hanno ancora dato all’uomo la risposta che il dramma dell’esistenza richiede, bisogna includere anche la cattolica? In altre parole: tra le “varie religioni”, dalle quali gli uomini si attenderebbero ancora le risposte vitali per la loro anima, c’è anche quella cattolica oppure no? Se c’è anche quella cattolica, essa allora si deve intendere (come usano dire oggi) “in ricerca”, “in cammino”, “in ascolto”, come lo sarebbero le “varie religioni”; come se essa non possedesse già, per divina rivelazione, mantenuta dalla Tradizione e dall’insegnamento costante della Chiesa, una risposta più che soddisfacente alle domande fondamentali sul perché della nostra esistenza, sulla natura dell’uomo, sul problema del male, sul significato della nostra vita, che è ultraterreno, essendo la vera felicità solo quella eterna della Visione Beatifica, per gli Eletti che ne saranno trovati degni, alla fine dei tempi.
C’è, dunque, a mio avviso, una nota ambigua anche nell’ultimo capoverso di questo art. 1 della Nostra Aetate. Il testo non dice “le altre religioni” ma “le varie religioni”, come se si riferisse a tutte le religioni esistenti, in generale. La religione cattolica sembra doversi allora includere tra le “varie religioni”, dalle quali l’uomo si attende ancora risposte definitive, come se essa fosse per l’appunto una religione come le altre, non rivelate. E come se essa non fosse stata finora capace di dare risposte definitive.
Improprio appare poi rappresentare le “varie religioni” come se esse non avessero dato risposte dal loro punto di vista definitivo alle domande essenziali sulla condizione umana. Pensiamo all’Islam, per esempio, al suo Dio concepito come un assoluto dominatore, che tutto ha già predisposto nel migliore dei modi per i suoi seguaci, in senso sia morale che materiale: un determinismo assoluto, un predestinazionismo ancora più assoluto, se così posso dire, che lascia assai poco spazio ai drammi esistenziali del singolo, alle risposte agli “enigmi della condizione umana”, enigmi che per i musulmani non esistono.
Paolo Pasqualucci, domenica 6 agosto 2017
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