Per un pugno di monete: la dottrina cattolica sull’elemosina
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Un’altra prova del vissuto dottrinalmente e pastoralmente vago, imbrogliato: l’amnesia, forse l’ignoranza, sul corretto esercizio, significato e valore dell’elemosina. Suscita scalpore la suora che, per strada, non versa un obolo al mendicante. Davvero? A me, francamente, ha indignato di più il racconto schietto di una monaca padovana. Uscita a piedi, una mattina, per recarsi non so dove, aveva la tasca dell’abito bianco pesante di monete. Vicino alla stazione ferroviaria ha incontrato una zingarella. Mossa a compassione, le ha dato un euro. Davanti alla basilica del Carmine stava seduta una signora sporca, vestita di stracci, con il piattino e la corona del Rosario in mano: altro euro. In piazza del Duomo passeggiava un africano che si lamentava: “Ho fame”. Terzo euro. In via Roma ne ha incrociati altri due. Giunta al Prato della Valle, è stata fermata da una giovane coppia dell’Est con un bimbetto nato da poco. “Suora! Suora! Aiuto! Lavoro!”. E dove andava a trovargliela a quelli, lei, un’occupazione? Tre euro per non averli più intorno. Poi, verso Santa Giustina, un barbone in bicicletta. In via Belludi altri due rom e una zingara. In piazza del Santo… A mezzogiorno, povera sorella, nel suo modesto portafogli c’erano quasi venti euro in meno. Nel suo cuore, sotto il crocifisso metallico appeso al collo, la triste consapevolezza di non aver risolto alcun problema, né di povertà né di sopravvivenza.
Sarà il caso, allora, di ripassare bene la dottrina cattolica sull’elemosina. La si può ricavare tradizionalmente da tre libri (Michele Pellegrino, Ricchezza e povertà, versione italiana di otto omelie di san Giovanni Crisostomo; Julian Kaup, Die theologische Tugend der Liebe nach der Lehre des hl. Bonaventura; Ermenegildo Lio, Determinatio “superflui” in doctrina Alexandri Halensis eiusque scholae) compendiati in un testo manualistico del padre domenicano Ludovico Bender, che fu professore a Roma, nella facoltà giuridica del Pontificio Ateneo Angelicum. Si definisce elemosina “l’atto con cui si dà qualche cosa al prossimo bisognoso, per amore di Dio”. La specificazione “per amore di Dio” è importante, perché esprime il motivo che rende l’elemosina un atto di carità cristiana, ossia soprannaturale. Il gesto non si limita a essere un’opera buona, meritevole e perciò da consigliare; in certe circostanze diviene un’opera obbligatoria, prescritta dalla legge della carità verso il prossimo. Perché l’elemosina sia obbligatoria è indispensabile che si verifichino determinate condizioni, sia da parte di chi dona sia da parte di chi prende. Quali? Ci viene in aiuto il Bender: “È necessario che il ricevente sia bisognoso, e poiché dei bisognosi ce ne sono e ce ne saranno sempre nel mondo, non manca mai la condizione per rendere l’elemosina obbligatoria. Da parte di chi dà, si richiede la condizione che abbia dei beni superflui. Per beni superflui intendiamo i beni che non sono necessari per poter vivere decentemente nello stato al quale un uomo appartiene per nascita, vocazione, libera scelta…”. Infatti, “ognuno può lecitamente usare i beni che ha per fare tutto ciò che appartiene al tenore di vita del suo stato sociale. Questo comprende, per esempio, il sostentamento della famiglia e l’educazione dei figli in modo che possano decentemente continuare la vita nello stesso stato, esercitare le virtù di ospitalità, di liberalità e magnificenza per promuovere la scienza, l’arte e la cultura del popolo…”. Insomma, “ciò che costituisce, per una persona, il necessario per il suo stato non può essere fissato in una cifra. Può essere che l’uno usi più di un altro, pur vivendo nello stesso stato e condizione, e che nondimeno l’uno non viva sopra il suo stato. Ma tutto ciò non toglie che non si possa avere più beni di quelli che sono necessari e utili per vivere secondo il proprio stato. Allora si ha del superfluo; allora vi sono dei beni che non si possono più usare bene, ma soltanto per scopi inutili (forse cattivi). Un tale uso è abuso e prodigalità, perché ci sono dei bisognosi, a cui gli stessi beni possono servire utilmente, perché essi non hanno ciò che è necessario per vivere secondo il loro stato (spesso modesto)”.
Nonostante le falsificazioni, i travisamenti, le doppiezze, le ciance, il comandamento è dunque quello di “dare il superfluo in elemosina ai poveri e ai bisognosi”. Non tutti sono chiamati né obbligati a sacrificarsi, a privarsi, a spogliarsi di tutto, a inseguire la radicalità. Così si giunge a un altro punto della dottrina sull’elemosina: a chi dare? Riassume il Bender: “Ci sono due specie di bisognosi: bisognosi ordinari, che sono molti e che ci sono sempre; e bisognosi che si trovano in estrema necessità. Bisognosi della seconda specie non ci sono sempre. Si tratta di casi singolari, dipendenti da circostanze eccezionali. È bisognoso di tale genere l’uomo che si trova in tali ristrettezze che soltanto un’elemosina data in tempo può salvarlo dalla morte o da un grave pericolo di morte o di danni come la perdita di un membro, la perdita per sempre o per lungo tempo della salute”. Ora, appare evidente che la preferenza dell’elemosina deve andare a questo soggetto. “Anzi, sono obbligato a salvare il mio prossimo nell’estrema necessità anche con i miei beni, che non sono superflui nel tenore di vita confacente al mio stato, ma che posso dare senza grave danno per me stesso. In altre parole, la carità verso il prossimo mi obbliga in questi casi a dare beni che posso anche usare utilmente per me stesso, ma che non mi sono proprio necessari per la mia vita”.
Si tratta di una specie di eccezione, per così dire, a conferma di una regola. Questa, insieme con la giusta dottrina sull’elemosina, andava certamente illustrata. In chiesa, dopotutto, nessuno la ricorda più.
di Léon Bertoletti
Un’altra prova del vissuto dottrinalmente e pastoralmente vago, imbrogliato: l’amnesia, forse l’ignoranza, sul corretto esercizio, significato e valore dell’elemosina. Suscita scalpore la suora che, per strada, non versa un obolo al mendicante. Davvero? A me, francamente, ha indignato di più il racconto schietto di una monaca padovana. Uscita a piedi, una mattina, per recarsi non so dove, aveva la tasca dell’abito bianco pesante di monete. Vicino alla stazione ferroviaria ha incontrato una zingarella. Mossa a compassione, le ha dato un euro. Davanti alla basilica del Carmine stava seduta una signora sporca, vestita di stracci, con il piattino e la corona del Rosario in mano: altro euro. In piazza del Duomo passeggiava un africano che si lamentava: “Ho fame”. Terzo euro. In via Roma ne ha incrociati altri due. Giunta al Prato della Valle, è stata fermata da una giovane coppia dell’Est con un bimbetto nato da poco. “Suora! Suora! Aiuto! Lavoro!”. E dove andava a trovargliela a quelli, lei, un’occupazione? Tre euro per non averli più intorno. Poi, verso Santa Giustina, un barbone in bicicletta. In via Belludi altri due rom e una zingara. In piazza del Santo… A mezzogiorno, povera sorella, nel suo modesto portafogli c’erano quasi venti euro in meno. Nel suo cuore, sotto il crocifisso metallico appeso al collo, la triste consapevolezza di non aver risolto alcun problema, né di povertà né di sopravvivenza.
Sarà il caso, allora, di ripassare bene la dottrina cattolica sull’elemosina. La si può ricavare tradizionalmente da tre libri (Michele Pellegrino, Ricchezza e povertà, versione italiana di otto omelie di san Giovanni Crisostomo; Julian Kaup, Die theologische Tugend der Liebe nach der Lehre des hl. Bonaventura; Ermenegildo Lio, Determinatio “superflui” in doctrina Alexandri Halensis eiusque scholae) compendiati in un testo manualistico del padre domenicano Ludovico Bender, che fu professore a Roma, nella facoltà giuridica del Pontificio Ateneo Angelicum. Si definisce elemosina “l’atto con cui si dà qualche cosa al prossimo bisognoso, per amore di Dio”. La specificazione “per amore di Dio” è importante, perché esprime il motivo che rende l’elemosina un atto di carità cristiana, ossia soprannaturale. Il gesto non si limita a essere un’opera buona, meritevole e perciò da consigliare; in certe circostanze diviene un’opera obbligatoria, prescritta dalla legge della carità verso il prossimo. Perché l’elemosina sia obbligatoria è indispensabile che si verifichino determinate condizioni, sia da parte di chi dona sia da parte di chi prende. Quali? Ci viene in aiuto il Bender: “È necessario che il ricevente sia bisognoso, e poiché dei bisognosi ce ne sono e ce ne saranno sempre nel mondo, non manca mai la condizione per rendere l’elemosina obbligatoria. Da parte di chi dà, si richiede la condizione che abbia dei beni superflui. Per beni superflui intendiamo i beni che non sono necessari per poter vivere decentemente nello stato al quale un uomo appartiene per nascita, vocazione, libera scelta…”. Infatti, “ognuno può lecitamente usare i beni che ha per fare tutto ciò che appartiene al tenore di vita del suo stato sociale. Questo comprende, per esempio, il sostentamento della famiglia e l’educazione dei figli in modo che possano decentemente continuare la vita nello stesso stato, esercitare le virtù di ospitalità, di liberalità e magnificenza per promuovere la scienza, l’arte e la cultura del popolo…”. Insomma, “ciò che costituisce, per una persona, il necessario per il suo stato non può essere fissato in una cifra. Può essere che l’uno usi più di un altro, pur vivendo nello stesso stato e condizione, e che nondimeno l’uno non viva sopra il suo stato. Ma tutto ciò non toglie che non si possa avere più beni di quelli che sono necessari e utili per vivere secondo il proprio stato. Allora si ha del superfluo; allora vi sono dei beni che non si possono più usare bene, ma soltanto per scopi inutili (forse cattivi). Un tale uso è abuso e prodigalità, perché ci sono dei bisognosi, a cui gli stessi beni possono servire utilmente, perché essi non hanno ciò che è necessario per vivere secondo il loro stato (spesso modesto)”.
Nonostante le falsificazioni, i travisamenti, le doppiezze, le ciance, il comandamento è dunque quello di “dare il superfluo in elemosina ai poveri e ai bisognosi”. Non tutti sono chiamati né obbligati a sacrificarsi, a privarsi, a spogliarsi di tutto, a inseguire la radicalità. Così si giunge a un altro punto della dottrina sull’elemosina: a chi dare? Riassume il Bender: “Ci sono due specie di bisognosi: bisognosi ordinari, che sono molti e che ci sono sempre; e bisognosi che si trovano in estrema necessità. Bisognosi della seconda specie non ci sono sempre. Si tratta di casi singolari, dipendenti da circostanze eccezionali. È bisognoso di tale genere l’uomo che si trova in tali ristrettezze che soltanto un’elemosina data in tempo può salvarlo dalla morte o da un grave pericolo di morte o di danni come la perdita di un membro, la perdita per sempre o per lungo tempo della salute”. Ora, appare evidente che la preferenza dell’elemosina deve andare a questo soggetto. “Anzi, sono obbligato a salvare il mio prossimo nell’estrema necessità anche con i miei beni, che non sono superflui nel tenore di vita confacente al mio stato, ma che posso dare senza grave danno per me stesso. In altre parole, la carità verso il prossimo mi obbliga in questi casi a dare beni che posso anche usare utilmente per me stesso, ma che non mi sono proprio necessari per la mia vita”.
Si tratta di una specie di eccezione, per così dire, a conferma di una regola. Questa, insieme con la giusta dottrina sull’elemosina, andava certamente illustrata. In chiesa, dopotutto, nessuno la ricorda più.
di Léon Bertoletti
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7/8/2017https://www.riscossacristiana.it/per-un-pugno-di-monete-la-dottrina-cattolica-sullelemosina-di-leon-bertoletti/
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