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Crisi della Chiesa: La Pastorale della VIA LARGA di Papa Francesco
Crisi della Chiesa : La pastorale della VIA LARGA di Papa Francesco
Sommario: 1. Il carattere gratuito del vero amore. 1.1 L’azione malvagia scaturisce dalla nostra infelicità esistenziale? 1.2 La buona e la cattiva tristezza. 2. L’Amore di Dio per noi, “anticipante” e “incondizionato”. 2.1 Citazioni scritturali fuor di contesto da parte del Papa. 3. Siamo tutti accolti nella “relazione di amore” della S.ma Trinità, e “per grazia”, senza le opere! 4. Anche nell’evocare l’episodio della Samaritana, Papa Francesco tace sulla necessità della conversione per entrare nella vita eterna. 5. Dall’amore incondizionato di Dio Padre, “che ci ama come noi siamo”, soffia un “vento di liberazione”, che non distingue tra Eletti e Reprobi.
Papa Francesco, durante una delle sue recenti udienze, cui ha partecipato via maxischermo anche un folto gruppo di malati, ha rivolto un indirizzo sul tema : “L’amore di Dio, anticipante e incondizionato”. Il testo l’ho trovato sul quotidiano in rete La Nuova Bussola Quotidiana del 14 giugno corrente.
Un tema, questo, continuamente ribattuto nell’omiletica dell’attuale Gerarchia. Tema certamente essenziale, anche se l’Amore non è ovviamente l’unico modo nel quale Dio si rivolge all’uomo. Sappiamo, infatti, dalla Rivelazione, che esiste anche “la giustizia di Dio”. Essa esprime, nella forma di un Giudizio infallibile, non solo la Bontà di Dio che premia in eterno i Giusti ma anche l’Ira di Dio nei confronti dell’impenitente, che persevera e si indurisce nel peccato sino alla fine dei suoi giorni. Ma della Divina Giustiziae del Giudizio non si parla più, oggi, così come non si nomina mai, da tempo immemorabile, la verità di fede del peccato originale.
Il nostro Dio, Uno e Trino, è solo e unilateralmente amore, dunque? Al punto daaccettarci così come siamo, senza pretendere nulla da noi? Questa è almeno l’impressione che si ricava dal ragionamento del Papa, visto che egli lo conclude con queste parole: “E la speranza è quella di Dio Padre che ci ama come noi siamo, ci ama sempre e tutti”. La “speranza” è quella della ‘’ liberazione”. Questo il termine usato dal Papa, al posto di “salvezza”, senza ulteriormente specificare. Speranza che nasce dal fatto che Dio “ci ama come noi siamo”, evidentemente accettandoci così come siamo. Concetto, questo, che non mi sembra affatto in armonia con i Testi né con la Tradizione e l insegnamento della Chiesa.
Ma procediamo con ordine.
1. Il carattere gratuito del vero amore.
Il Papa sottolinea inizialmente il carattere gratuito del vero amore. “Nessuno di noi può vivere senza amore”, esordisce. Tutti vogliamo essere amati. Però si cade, prosegue, “nella brutta schiavitù di ritenere che l’amore vada meritato”. Invece l’amore deve esser gratuito.
“Immaginate un mondo così: un mondo senza la gratuità del voler bene! Sembra un mondo umano, ma in realtà è un inferno. Tanti narcisismi dell’uomo nascono da un sentimento di solitudine e di orfanezza. Dietro tanti comportamenti apparentemente inspiegabili si cela una domanda: possibile che io non meriti di essere chiamato per nome, cioè di essere amato? Perché l’amore chiama sempre per nome”.
Bisogna amare gratuitamente, per non render infelici gli altri. Il Papa fa certamente bene a ricordare che l’amore, in sé, deve esser gratuito. Tuttavia, egli lo considera soprattutto dal punto di vista tutto umano e terreno della felicità nelle cose di questo mondo, intesa come felicità innanzitutto esistenziale perché derivante dal sentirsi amati, in generale. Felici, non per aver conseguito questo o quell’obiettivo – gradito a Dio – ma per il solo fatto di sentirsi amati dagli altri.
Ma di quale amore si parla qui? Esistono diversi tipi di amore. Non certo di quelloerotico, che, anche quando è legittimo, come nel matrimonio, è sempre interessato, in quanto sempre vincolato al carnale desiderio, di per sé egoistico. Dovrebbe trattarsi dell’amore per il prossimo, della carità cristiana, anche se il Papa non usa mai il termine “carità”. Ma, nel senso tradizionale del termine, l’amore cristiano per il prossimo non deriva dall’amor di Dio? Recita l’antica preghiera dell’Atto di Carità: “Mio Dio, vi amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, perché siete Bene infinito e nostra eterna felicità; e per amor vostro amo il prossimo mio come me stesso, e perdono le offese ricevute. Signore, fate ch’io vi ami sempre più”. La pratica della carità verso il prossimo, per amor di Dio, non implica la ricerca della felicità di questo medesimo prossimo; felicità in termini mondani, contingenti, quasi sempre di tipo esistenziale, emotivo. Implica, soprattutto, che nei nostri rapporti con il prossimo si cerchi di attuare sempre la giustizia, integrata con il comandamento della carità, che impone di dimenticare e “perdonare le offese”. Che poi il nostro prossimo possa sentirsi felice in conseguenza del nostro comportamento caritatevole verso di esso, ciò è bello e ci piace ma resta conseguenza del tutto secondaria e contingente. Non può costituire in ogni caso il fine essenziale della nostra azione nei confronti del prossimo. Spesso, infatti, il nostro prossimo è felice quando riceve da noi vantaggi materiali, favori, anche indebiti, o lusinghe che ne accarezzino i difetti o addirittura i vizi. La felicità è uno stato d’animo inevitabilmente soggettivo e mutevole, cui spesso fa da contrappeso l’infelicità altrui. E quando invecchiamo non ci sentiamo infelici, a volte, per cose che da giovani ci avevano reso felici?
1.1 L’azione malvagia scaturisce dalla nostra infelicità esistenziale?
Che l’amore del quale parla qui Papa Francesco non coincida con ciò che si intende tradizionalmente con carità cristiana, risulta, a mio avviso, anche dall’esempio che egli apporta, quello della supposta infelicità della gioventù. Dice infatti:
“Quando a non essere o non sentirsi amato è un adolescente, allora può nascere la violenza. Dietro tante forme di odio e di teppismo, c’è spesso un cuore che non è stato riconosciuto. Non esistono bambini cattivi, come non esistono adolescenti del tutto malvagi, ma esistono persone infelici. E che cosa può renderci felici se non l’esperienza dell’amore dato e ricevuto? La vita dell’essere umano è uno scambio di sguardi: qualcuno che guardandoci ci strappa il primo sorriso, e noi che gratuitamente sorridiamo a chi sta chiuso nella tristezza, e così gli apriamo una via d’uscita. Scambio di sguardi: guardare negli occhi e si aprono le porte del cuore”.
Da dove viene il male, se non dal cuore dell’uomo (Mt 15, 18-19)? Siamo tutti segnati dal peccato originale ed esiste in noi una tendenza a compiere il male, che si scontra con quella opposta, vòlta a compiere il bene. E riusciamo ad obbedire a quest’ultima solo se viviamo secondo gli insegnamenti di Cristo e ci sosteniamo alla sua Grazia, così come Lui stesso, gli Apostoli, la Chiesa ci hanno sempre insegnato.
Ma Papa Francesco sembra voler dire che il male (l’odio, la violenza, il “teppismo”) nascono dall’infelicità, da quell’infelicità che in particolare i giovani proverebbero per non esser stati amati o per non esserlo stati abbastanza. La colpa dell’origine del male negli individui sarebbe allora di tutti coloro che non li hanno amati abbastanza, rendendoli in tal modo infelici. Sarebbe, in sostanza, degli altri. Che il malvagio possa considerarsi nel suo intimo un infelice, sembra legittimo affermare purché non si sostituisca l’infelicità alla malvagità, cioè alla cattiva volontà quale causa effettiva delle sue pessime azioni.
L’esperienza mostra che quasi tutte le azioni malvage sono gratuite e che a loro fondamento si trovano quasi sempre la superbia, l’orgoglio mal riposto e, in verità, tutto l’oscuro coacervo delle nostre passioni, note e meno note. E che non sono mancati individui dalle spiccate tendenze criminali, cresciuti in un ambiente dove l’affetto e l’amore dei genitori non latitavano, inizialmente. Ma le azioni malvage delle persone normali, dobbiamo tutte ricondurle alla mancanza di un sorriso e di uno sguardo che aprissero il cuore, quando erano giovani?
1.2 La buona e la cattiva tristezza
Sulla tristezza bisognerebbe poi intendersi. Di quale tristezza di parla qui? Il Papa dice che se noi “gratuitamente sorridiamo a chi sta chiuso nella tristezza, gli apriamo una via d’uscita”. Egli vuol dire, certamente, che il mostrare comprensione, amore, affetto ad un soggetto, specialmente un giovane, chiuso nella tristezza, perché afflitto dalla mancanza di questi fondamentali sentimenti nei suoi confronti, può ”aprirgli una via d’uscita”. E non è vero, in certi casi? È sicuramente vero, tuttavia si tratta di una spiegazione piuttosto limitata.
Bisogna capire cosa c’è dietro questa tristezza. Esistono, infatti, la tristezza buona e quella cattiva. “Or, la tristezza che è secondo Dio, produce un pentimento salutare, che non si rimpiange, perché conduce a salvezza; mentre la tristezza del mondo procura la morte”(2 Cr 7, 10). Saeculi autem tristitia mortem operatur: e la “tristezza” di tanti uomini e donne di oggi, giovani e meno giovani, è secondo Dio o secondo lo spirito del mondo? Siamo forse così ciechi da non vedere che per ogni dove dilaga questa sinistratristitia saeculi? È la tristitia torva e proterva che si alimenta di superbia, orgoglio, spirito di vanità, lussuria, insomma di tutte le peggiori passioni. Per curarla ci vuole ben altro che “i sorrisi” menzionati dal Papa. Ci vorrebbe, in primo luogo, la predicazione della vera dottrina e morale cristiana, con al centro l’esigenza della salvezza e quindi della conversione a Cristo. Esattamente come faceva san Paolo. Proporre l’esercizio dell’umana simpatia e comprensione quali uniche medicine per curare la “tristezza” figlia delle Tenebre che affligge questa nostra generazione, sembra a me come pretender di curare la cancrena con l’aspirina.
2. L’Amore di Dio per noi, “anticipante e incondizionato”.
Stabilito il carattere gratuito del vero amore, Papa Francesco passa a spiegare ‘l’amore di Dio” nei nostri confronti. L’amore di Dio costituisce il parametro del vero amore. Secondo il Papa, esso, oltre che gratuito, è anche anticipante e incondizionato. Qui il discorso del Papa viene a coinvolgere la dottrina.
“Il primo passo che Dio compie verso di noi è quello di un amore anticipante e incondizionato. Dio ama per primo. Dio non ci ama perché in noi c’è qualche ragione che suscita amore. Dio ci ama perché Egli stesso è amore, e l’amore tende per sua natura a diffondersi, a donarsi. Dio non lega neppure la sua benevolenza alla nostra conversione: semmai questa è una conseguenza dell’ amore di Dio. San Paolo lo dice in maniera perfetta: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”(Rm 5, 8). Mentre eravamo ancora peccatori. Un amore incondizionato. Eravamo “lontani”, come il figlio prodigo della parabola: “Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione”(Lc 15, 20). Per amore nostro Dio ha compiuto un esodo da Sé stesso, per venirci a trovare in questa landa dove era insensato che lui transitasse. Dio ci ha voluto bene anche quando eravamo sbagliati”.
Secondo Papa Francesco, dunque, l’amore di Dio nei nostri confronti è “anticipante” dal momento che Egli ci ama per primo, prima ancora del nostro amore per Lui. Il suo amore anticipa il nostro. Dio si dona a noi, amandoci. Ci ama prima dei nostri peccati e anche dopo, nonostante i nostri peccati. Altrimenti, come rileva san Paolo, Cristo non sarebbe morto per noi, per noi che eravamo ancora peccatori. Il passo di san Paolo ci illustra la misericordia divina, che ha mandato il suo divin Figliolo a morire per noi sulla croce. Ciò dimostrerebbe che l’amore di Dio è incondizionato. Ugualmente lo dimostrerebbe la parabola del Figliol Prodigo, come rappresentata da Papa Francesco, che vuol sottolineare la permanenza dell’amore di Dio per noi quando eravamo ancora “lontani”. Più che esser noi tornati a Lui, sarebbe stato Lui a venire a noi, “compiendo un esodo da Sé stesso”. A me sembra che qui si rovesci il senso della celebre Parabola: è il Figliol Prodigo cheritorna pentito, non è Dio che “esce da se stesso” per andare a lui, per andare incontro ad un peccatore, che non risulta essersi pentito, nella ricostruzione di Papa Francesco!
I due Testi scritturali citati dal Papa a mio parere non consentono affatto l’interpretazione che egli ne dà, secondo la quale essi rivelerrebbero la naturaincondizionata dell’amore di Dio. Possiamo certamente dire che esso è anticipante. Quest’aggettivo ci riconduce alla nozione, dogmaticamente definita, della grazia preveniente che Dio concede a tutti gli uomini poiché, nella sua bontà, egli vuole che tutti gli uomini siano salvi, come risulta dai noti passi neotestamentari (p.e. 1 Tm 2, 4; 4, 10). Vuole che tutti siano salvi ma non che tutti si salvino comunque, vale a dire indipendentemente dal loro comportamento in relazione ai Dieci Comandamenti, se buono o cattivo. Chi rifiuterà la grazia, non si salverà. Con la nostra volontà dobbiamo ricercare l’aiuto della Grazia (“Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”, Lc 11, 9). Senza la Grazia, con l’azione della quale dobbiamo cooperare strettamente se vogliamo davvero salvarci, nulla possiamo: ma questo aiuto non ci cade sulla testa dall’alto, passivamente. La fede cattolica, ridefinita magistralmente dal dogmatico Tridentino, non è l’eretica fede fiduciale di Lutero, verso la quale sembra indubbiamente pencolare il discorso papale, con questo suo insistere sul carattereincondizionato di un amore divino che non sembra affatto richiedere il pentimento del peccatore e la sua nuova vita, con le indispensabili buone opere; un amore che sembra condurre tutti alla “liberazione”, a prescindere dalla conversione a Cristo.
2.1 Citazioni scritturali fuor di contesto da parte del Papa
Che non sia incondizionato, risulta innanzitutto dal vero significato dei versetti scritturali citati dal Papa fuor di contesto, una volta rimessi nel loro proprio. Cominciamo con il passo della Lettera ai Romani.
“Poiché, quando ancora noi eravamo privi di forza, Cristo, nel tempo stabilito, è morto per gli empi. È raro il caso che uno voglia morire per un giusto; tuttavia qualcuno forse accetterebbe di morire per un uomo dabbene. Ma Dio dà prova del suo amore verso di noi proprio in questo, che mentre noi eravamo ancora dei peccatori, Cristo è morto per noi. Con più forte ragione dunque ora, che siamo giustificati dal suo sangue, saremo salvi dall’ira divina per mezzo di lui” (Rm 5, 6-9. Corsivi miei).
Il sangue di Cristo, procurandoci la salvezza ci salva dall’ira divina, concetto caduto nell’oblío, nella pastorale postconciliare. Si tratta del significato espiatorio del Sacrificio di Cristo, connesso a quello propiziatorio. L’amore di Dio coesiste dunque con l’ira divina, cosa che l’Apostolo trova perfettamente naturale, ovviamente. L’amore di Dio verso il genere umano si è manifestato con l’Incarnazione del Verbo, che ci ha permesso di essere giustificati dal suo sacrificio sulla croce, e quindi di salvarci dall’ira divina, che si abbatterà su coloro che rifiuteranno Cristo, come risulta dal contesto paolino e da tanti altri passaggi neotestamentari. Senza alcun merito da parte nostra, l’amore di Dio ci ha concesso la possibilità della salvezza mediante l’Incarnazione del Verbo, ma tale possibilità è condizionata dalla nostra conversione a Cristo, altrimenti l’ira divina si abbatterà su di noi. L’amore di Dio non è pertanto incondizionato, Egli vuole che noi rispondiamo con la conversione a Cristo, in fede e opere, altrimenti all’amore subentra l’ira ossia il decreto di condanna della divina giustizia.
Ugualmente fuor di contesto è citato dal Papa il passo della parabola del Figliol Prodigo. Papa Francesco lo cita come se la parabola volesse suggerire l’idea che Dio ha compassione di noi, così come siamo, quando siamo ancora lontani da lui, ragion per cui, senza pretendere che noi ci emendiamo, viene a noi con il suo amore, come uscendo da se stesso. L’immagine di Dio che “esce da se stesso” per venire a noi la trovo francamenteoscura: non riesco a comprendere che cosa voglia effettivamente dire. Comunque: viene a noi, come il padre nella parabola. Per far cosa, di noi? Per abbracciarci, perdonarci, si suppone, esattamente come fa il padre del Figliol Prodigo con il figlio che ritorna all’ovile.
Ma noi sappiamo bene, dalla parabola, che il Figliol Prodigo, quando viene scorto da lontano dal Padre, stava tornando a casa perché si era in cuor suo amaramente pentito della sua vita sciagurata e peccatrice. Era il ritorno di un cuore provato, contrito e pentito, che veniva a chiedere misericordia per i suoi peccati, sottomettendosi completamente all’autorità del Padre. Ma questo elemento essenziale della parabola, nell’interpretazione del Papa viene completamente taciuto.
Ridottosi a fare il guardiano di porci, “avrebbe voluto riempirsi il ventre delle carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. Allora, rientrato in se stesso, disse: - Quanti mercenari [lavoranti] di mio padre hanno pane in abbondanza, ed io, qui, muoio di fame! Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te! Non son più degno di esser chiamato tuo figlio: trattami come uno dei tuoi mercenari. E, alzatosi, andò da suo padre. Lo vide il padre, mentre era ancora lontano, e ne ebbe pietà; allora correndogli incontro gli si gettò al collo e teneramente lo baciò…”(Lc 15, 15-20).
Ne ebbe pietà, il Padre, poiché vide com’era ridotto e vide la tristitia secundum Deumsul suo volto, non più quella perversa del Secolo, di quando si era ribellato e se ne era andato, per godersi la vita lontano dal Padre. Il significato tramandato della parabola non è stato sempre quello di mostrarci come Dio sia misericordioso con chi si pente sinceramente e vuol cambiar vita, tanto da considerare il ritorno a Lui di un solo peccatore evento tale da far gran festa in cielo? Quando, pentiti e contriti, vogliamo ritornare alla fede e alla vita cristiana, ecco che Dio ci viene incontro e ci accoglie, corroborando in noi lo spunto già presente della Grazia, per merito della quale, da Figliol Prodighi quali eravamo avevamo tuttavia cominciato a “rientrare in noi stessi”.
Invece, nell’esposizione di Papa Francesco, si ha l’impressione di una salvezza che opera in noi unilateralmente, senza alcuna cooperazione da parte nostra, quale risultato di un amore incondizionato che ci accetta sempre come siamo; Grazia che ci corre incontro senza che noi si debba metterci del nostro, correndo a nostra volta verso di essa con tutte le nostre forze, in modo poi da correre assieme verso la vita eterna (1 Cr, 15, 10; Fil 3, 12 ss). Una prospettiva, quella del Papa, che sembra ricalcare quella di Lutero, della sua eretica dottrina della Giustificazione ottenuta passivamente, con la sola fede nella salvezza guadagnata per noi da Cristo, senza bisogno di buone opere da parte nostra; dottrina, come sappiamo, pubblicamente lodata da Papa Francesco! Una lode scandalosa e abominevole, che non rappresentava, evidentemente, un mero flatus vocis.
Che l’interpretazione di Papa Francesco appaia sostanzialmente luterana, risulta non solo dall’affermazione esplicita del carattere incondizionato dell’amore di Dio per l’uomo ma anche dal suo completo silenzio sulla necessità per l’uomo peccatore di pentirsi e cambiar vita, di cooperare con la Grazia al fine di diventare interiormente quell’uomo nuovo in Cristo, che si è spogliato delle passioni ingannatrici e corruttrici; silenzio assordante su quella totale renovatio di noi stessi espressamente indicata dal Signore quale condizione indispensabile per entrare nel Regno dei Cieli (Gv 3, 3; Ef 4, 20 ss). Anzi, la pastorale di Papa Francesco sembra addirittura procedere nella direzione opposta a quella della Verità rivelata, intesa com’è a inculcare l’idea che l’amore di Dio incondizionato per noi “come siamo”, “ci libera”, tramite la Croce e la Resurrezione, lasciandoci sempre “come siamo”, cioè senza che tale “liberazione” comporti il rinnovamento interiore richiesto dal Verbo al vero credente!
3. Siamo tutti accolti nella “relazione di amore” della S.ma Trinità, e “per grazia”, senza le opere!
Il ragionamento di Papa Francesco prosegue con un parallelo fra l’amore materno e l’amore di Dio. L’amore materno, sottolinea il Papa, non viene mai meno, anche nel caso estremo di un figlio delinquente, rinchiuso giustamente in prigione. Per sua madre, egli resta sempre suo figlio. L’amore della madre per i figli è del tutto gratuito, veramente incondizionato.
Uguale è l’amore di Dio, afferma il Papa: così come la madre continua ad amare un figlio delinquente, allo stesso modo Dio ci ama “anche quando siamo peccatori”. In effetti, annoto, la divina Misericordia, quali che siano i nostri peccati, non ci consente forse di pentirci e quindi di salvarci, sino all’ultimo istante della nostra vita? Lo dimostra l’episodio del Buon Ladrone crocifisso accanto a Cristo: mentre l’altro delinquente inveiva contro Gesù, lui si pentiva e chiedeva perdono per i suoi peccati, ottenendo in tal modo la salvezza per esplicita dichiarazione del Signore e persino direttamente il Paradiso (Lc 23, 39-43).
Dio, però, ha voluto esser rappresentato per noi come padre non come madre. E difatti, nell’immagine tradizionale dell’ufficio paterno trova posto anche quella severa del padre che giudica e castiga i figli, quando lo meritano, sia per il loro bene che per le esigenze della giustizia. Sempre secondo l’immagine tradizionale, tale severità non si ritrova nella madre. Equiparare in toto l’amore del Padre a quello di una madre, significa, a ben vedere, dare un’immagine edulcorata di Dio Padre, espungendone del tutto quei tratti virili rappresentati dall’esercizio di un’autorità che, per quanto paterna, deve tuttavia applicare la giustizia. E, nel caso di Dio, si tratta di quella giustizia che dispone della nostra vita eterna! L’equiparazione di Papa Francesco comporta pertanto una sostanziale diminuzione del vero significato di Dio Padre per noi, con la sua caratteristica correlazione di Bontà e Giustizia, Misericordia e Giudizio: dico vero significato poiché è quello che risulta da ciò che la nostra bimillenaria tradizione cattolica ha sempre inteso nella nozione di Dio Padre.
“Dio fa la stessa cosa con noi [la stessa della madre]: siamo i suoi figli amati! Ma può essere che Dio abbia alcuni figli che non ami? No. Tutti siamo figli amati di Dio. Non c’è alcuna maledizione sulla nostra vita, ma solo una benevola parola di Dio, che ha tratto la nostra esistenza dal nulla. La verità di tutto è quella relazione d’amore che lega il Padre con il Figlio mediante lo Spirito Santo, relazione in cui noi siamo accolti per grazia. In Lui, in Cristo Gesù, noi siamo stati voluti, amati, desiderati. C’è Qualcuno che ha impresso in noi una bellezza primordiale, che nessun peccato, nessuna scelta potrà mai cancellare del tutto. Noi siamo sempre, davanti agli occhi di Dio, piccole fontane fatte per zampillare acqua buona. Lo disse Gesù alla donna samaritana: “L’acqua che io [ti] darò diventerà in [te] una sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna”(Gv 4, 14)”.
Dunque, Dio si comporta con noi come una madre: ci ama tutti e nessuno di noi è maledetto da Lui, la nostra vita si svolge tutta all’insegna della “parola benevola di Dio”, della sua soprannaturale bontà. Che la bontà di Dio provveda sempre e comunque per le necessità nostre individuali e del genere umano, ciò viene testimoniato ampiamente, come sappiamo, nelle fonti scritturali. Ma, siamo sempre lì: il discorso di Papa Francesco vuol vedere in Dio solo questi attributi, come se non fosse stato ampiamente rivelato che Egli nello stesso tempo esercita (e non potrebbe essere altrimenti) la più severa ed infallibile giustizia nei nostri confronti, senza “preferenza di persone”, ossia senza guardare in faccia a nessuno. Tacendo questo fondamentale aspetto, ne risulta un’immagine falsata di Dio.
Ciò è confermato dall’ultimo passo dell’intervento pontificio da me appena citato, che si sforza anch’esso di inquadrare nella retta dottrina le sue peculiari tesi.
Bisogna, infatti, rilevare i seguenti punti:
1. L’affermazione “non c’è alcuna maledizione sulla nostra vita”, si intende da parte di Dio, vale solo per la nostra vita terrena. Non vale per quella eterna, che è la cosa più importante. La Chiesa ha sempre insegnato che non esiste predestinazione alla dannazione, come sostengono erroneamente gli eretici luterani e calvinisti, ragion per cui nessuno è come tale maledetto da Dio, cioè destinato a priori alla perdizione. Ma quelli che saranno il giorno del Giudizio condannati per sempre all’Inferno, verranno esplicitamente maledetti da Dio. Lo ha rivelato Nostro Signore: “Infine dirà anche a quelli che saranno alla sua sinistra: Andate lontano da me, voi maledetti, nel fuoco eterno, preparato pel diavolo e per gli angeli suoi. Perché ebbi fame e non mi deste da mangiare; ebbi sete e non mi deste da bere…”(Mt 25, 41 ss). La maledizione la subiranno tutti i peccatori impenitenti, il giorno del Giudizio, e sarà irredimibile. Bisogna quindi tener bene a mente che possiamo incorrere nella maledizione divina all’inizio dell’altra vita, quella che dura in eterno, l’unica che veramente conti per noi.
2. Appare nebulosa l’affermazione che nell’amore unente le tre persone della Santissima Trinità sarebbe il modello (la “verità”) di quest’amore di Dio che ci accoglie così come siamo. Qui ci troviamo di fronte ad un riferimento teologico che vorrebbe esser decisivo, sul piano dell’argomentazione. Invece, appare anch’esso sbilanciato in senso luterano, dal momento che vi si dice esser noi “accolti per grazia” nella “relazione di amore” trinitaria. Per grazia, e le buone opere? Che fine hanno fatto? Ma il concetto dell’esser accolti nella relazione d’amore della S.ma Trinità si presenta in realtà piuttosto oscuro. C h i viene poi accolto: solo i cattolici morti in stato di grazia, i veri credenti in Cristo o tutta l’umanità, in quanto tale? Il discorso del Papa sembra rivolto a quest’ultima, senza distinguere. E non sembra affatto concernere le anime dei Giusti bensì tutti noi in terra, qui ed ora.
Dal Vaticano II in poi il richiamo alla S.ma Trinità quale modello che si realizza nella Chiesa e nel modo di essere dei fedeli, è diventato una moda, possiamo dire. La Lumen Gentium, agli articoli 2-5, articola l’insolita tesi di una Chiesa dallo sviluppo trinitario, nelle tre epoche del Padre, del Figlio, dello Spirito: schema dal sapore gioachimita, che poco ha a che vedere con la dottrina ortodossa sulla Chiesa; schema visionario, che vuol far intendere essersi iniziata, con il Concilio, l’epoca dello Spirito, una nuova alba per la Chiesa, una nuova Pentecoste. Mai auspicio si è dimostrato più errato, vera e propria falsa profezia, come dimostra la crisi spaventosa che si è abbattuta sulla Chiesa, proprio a partire dal Concilio. Del resto, anche il modello gioachimita era il frutto di un’esaltata fantasia, com’è vero che la Nuova Era, l’era dello Spirito avrebbe dovuto iniziarsi, secondo i complicati calcoli dell’abate calabrese, nell’anno 1260!
Ma lo schema trinitario lo si trova applicato oggi anche al rapporto tra i singoli fedeli e la divinità, come se le categorie con le quali cerchiamo di spiegare (per quanto possiamo) i profondi misteri trinitari, potessero applicarsi anche a noi fedeli nel nostro rapporto con Dio. Il che francamente non si vede come sia possibile[1].
Che vuol dire, infatti, “esser accolti per grazia nella relazione di amore che lega il Padre e il Figlio con lo Spirito Santo”? Vuol forse dire che l’amore gratuito e del tutto incondizionato che Dio avrebbe sempre per noi, essendo il medesimo che intercorre fra le tre persone della S.ma Trinità, ci accoglie unilateralmente, per grazia, nella inabitazione trinitaria già qui, durante la nostra vita terrena? Si tratterebbe, allora, di un modo di rendere la tradizionale verità di fede della inabitazione dello Spirito Santo in noi, dell’unità nostra ineffabile, spirituale con il Cristo? Se di questo si tratta, bisogna dire che tale verità è riproposta in modo alquanto insolito.
Nostro Signore ha detto: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui, e dimoreremo in lui. Chi non mi ama non osserva le mie parole”(Gv 14, 23-24). Non siamo noi ad esser unilateralmente “accolti per grazia” nell’unione mistica con il Figlio e il Padre, mediante lo Spirito Santo. Al contrario, sono il Figlio e il Padre che, mediante lo Spirito Santo, verranno ad “abitare in noi”. Ma in noi, chi? S o l o in coloro che avranno dimostrato di amare Nostro Signore, vale a dire di seguire i suoi insegnamenti, di voler fare in tutto la volontà di Dio.
In questa “mistica unione”, che ha luogo solo nei battezzati o in coloro che godono del battesimo di desiderio, l’uomo non si divinizza, non viene accolto nella inabitazione delle Persone divine. La natura non si confonde con il Sovrannaturale. Resta l’uomo sempre uomo, ma, per l’appunto, comincia ad operare in lui l’azione sovrannaturale della grazia, che egli vuole ed accetta: azione che lo eleva e lo arricchisce continuamente nella volontà, nell’intelligenza, nel carattere, nei sentimenti.
Nella fondamentale Encliclica Mystici Corporis, del 29 giugno 1943, Pio XII ammoniva a non cadere nell’errore di concepire “l’altissimo mistero” dell’inabitazione dello Spirito Santo in noi, con l’attribuire all’uomo attributi divini. Il retto insegnamento della Chiesa – scriveva – ha sempre fatto in modo di “respingere, in questa mistica unione, ogni modo col quale i fedeli, per qualsiasi ragione, sorpassino talmente l’ordine delle creature ed invadano erroneamente il campo divino, che anche un solo attributo di Dio eterno possa predicarsi di loro come proprio”[2]. Ma nel sermone di Papa Francesco, nella complicata frase coinvolgente la S.ma Trinità, non vediamo di fatto un inserimento “per grazia” dell’uomo, di ciascun uomo in quanto tale e sempre peccatore, e peccatore non redento, nella reciproca inabitazione delle Tre persone divine, perché caratterizzata da un amore che sarebbe il medesimo – incondizionato - che Dio manifesterebbe nei confronti dell’uomo? Ma in tal modo l’uomo, ogni uomo, non viene a trovarsi “inserito” nella S.ma Trinità e quindi in sostanza divinizzato? Inserito, non il Giusto, colui che risorto e trasfigurato parteciperà della Visione Beatifica, ma l’uomo in quanto tale, l’uomo ancora peccatore, qui, in questo mondo!
4. Anche nell’evocare l’episodio della Samaritana, Papa Francesco tace sulla necessità della conversione per entrare nella vita eterna.
A sostegno della sua tesi, il Papa cita da ultimo l’episodio della Samaritana al pozzo, cui Gesù chiese da bere. Egli estrae il passo dal quale si può dedurre che agli occhi di Dio siamo sempre “piccole fontane fatte per zampillare acqua buona”: l’acqua che il Signore darà alla Samaritana diventerà per essa una sorgente che zampilla per la vita eterna.
Vediamo il testo più ampiamente.
“Chi beve di quest’acqua [del pozzo] tornerà ad avere sete; chi invece berrà l’acqua che gli darò io non avrà più sete in eterno; ma l’acqua che gli darò, diventerà in lui sorgente di acqua zampillante sino alla vita eterna”. Disse a lui la donna: “Signore, dammi di quest’acqua, affinché non abbia più sete, e non debba venir qui ad attingere” (Gv 4, 13-15). L’acqua della sorgente che è Gesù è la sua parola, fonte di vita eterna per chi le obbedisce. La Samaritana chiede subito di poter abbeverarsi a questa fonte, anche se non sembra aver compreso tutte le implicazioni di quanto detto da Gesù. Ma Gesù come risponde? Svelando alla donna la sua vita dissoluta: “Hai detto bene, non ho marito, perché ne hai avuti cinque e quello che hai ora non è tuo marito”(ivi, 17-18). Per umiliarla, le disse questo? No. Per farle capire che Egli era il Messia atteso e che, se voleva abbeverarsi alla fonte dell’acqua che dà la vita eterna, ella doveva purificare la sua vita, pentirsi e convertirsi. L’amore di Dio nei nostri confronti resta pertanto sempre condizionato dalla nostra volontà di seguire fedelmente i divini insegnamenti. Il dialogo fra Nostro Signore e la Samaritana ne è anch’esso una dimostrazione.
5. Dall’amore incondizionato di Dio Padre, “che ci ama come noi siamo”, soffia un “vento di liberazione”, che non distingue tra Eletti e Reprobi.
Nella chiusa del suo intervento, Papa Francesco ribadisce che Dio Padre ci ama come siamo, sempre e tutti, e questo suo amore incondizionato ci libera attraverso Cristo.
“Gesù non è morto e risorto per se stesso, ma per noi, perché i nostri peccati siano perdonati. È dunque tempo di risurrezione per tutti: tempo di risollevare i poveri dallo scoraggiamento, soprattutto coloro che giacciono nel sepolcro da un tempo ben più lungo di tre giorni. Soffia qui, sui nostri visi, un vento di liberazione. Germoglia qui il dono della speranza. E la speranza è quella di Dio Padre che ci ama come noi siamo: ci ama sempre e tutti. Grazie!”.
Giustamente il Papa ricorda il significato propiziatorio della morte in croce di Nostro Signore: ottenerci misericordia (propitiatio) per i nostri peccati. Però poi il Papa aggiunge subito dopo che “è tempo di resurrezione per tutti”. Quale resurrezione? Si tratta certamente di una resurrezione in senso spirituale, visto che essa include “il risollevare i poveri dallo scoraggiamento” e in particolare “quelli che giacciono nel sepolcro da un tempo ben più lungo di tre giorni”. Sono, evidentemente, i “tre giorni” intercorsi tra la morte in croce del Signore e la sua resurrezione, qui menzionati simbolicamente per incoraggiare coloro che si trovano da ben più di tre giorni nel “sepolcro” rappresentato evidentemente dalla malattia, da una grave malattia o dalla povertà.
Così interpreto il passo, che appare comunque improntato ad un simbolismo singolare. La resurrezione del Signore ci infonde la speranza, dunque. Speranza in che cosa? Nella vita eterna? Il Papa non lo dice apertamente, non usa questo termine. Preferisce il termine “liberazione”. Siamo sempre ad un linguaggio indiretto, il quale più che dire apertamente e in modo chiaro mira a far capire, far intendere. È lo stile obliquo penetrato nella pastorale della Chiesa a partire dal Concilio Vaticano II.
La Resurrezione del Signore produce per noi “un vento di liberazione” che “soffia su di noi”. Possiamo quindi sperare. E questa nostra speranza “è quella di Dio Padre che ci ama come siamo, sempre e tutti”. Il testo appare anche qui piuttosto aggrovigliato. La speranza può essere solo nostra, solo dell’uomo, non si può attribuirla a Dio. Dio non ha bisogno di “sperare” in qualcosa! Credo che il senso del contorto periodo sia: la Resurrezione di Cristo ci libera, possiamo quindi tutti sperare, poiché essa Resurrezione conferma che Dio ci ama sempre tutti “come noi siamo”, incondizionatamente. Con “resurrezione” non si intende, pertanto, la nascita dell’uomo nuovo in noi, grazie alla profonda renovatio interiore indotta dalla conversione a Cristo.
Ho messo nel periodo un ordine logico che in esso non appare ma che sembra potersi desumere dal contesto. Circa l’oggetto dello sperare, esso dovrebbe essere la vita eterna, secondo l’insegnamento tradizionale della Chiesa. Ma perché il Papa non lo dice apertamente? Egli si limita, invece, a far capire, obbligandoci all’ennesimo sforzo interpretativo. È dal tempo di Giovanni XXIII che i documenti della Prima Sedes non hanno più la chiarezza concettuale ed espositiva, per esempio, di quelli di un Papa come Pio XII, obbligando quasi sempre il fedele a complicati sforzi ermeneutici: dicono e non dicono, accennano, lasciano intendere, come se volessero dire qualcosa che ufficialmente non possono dire; come se il non-detto e l’implicito costituissero il vero significato, al di là della forma apparente, spesso contorta.
Il nuovo modo di esprimere la verità di fede della salvezza eterna che ci ottiene la Croce di Cristo è dunque quello che sostituisce alla salvezza un termine ambiguo comeliberazione: ambiguo perché ha un significato escatologico per il messianesimo profano delle ideologie rivoluzionarie; liberazione, questa invocata dal Papa, cui tutti possiamo legittimamente sperare perché Dio ci ama sempre tutti “come noi siamo”.
L’immagine della “liberazione” contiene qui l’idea di un atto che viene dal Cristo senza bisogno del nostro concorso personale: siamo tutti liberati, risorgeremo tutti, Egli ci ha liberato. Tale “liberazione” è per tutti, dal momento che Dio ci ama sempre tutti “come noi siamo”. Questa precisazione finale ribadisce quanto detto in precedenza dal Papa, ovvero il carattere incondizionato di un amore divino che sempre ci accetterebbe “come siamo”. È evidente, pertanto, che il “tutti” ricomprende l’intera l’umanità e non i soli cattolici: tutti saremo liberati, ci dice il Papa, dal fatto in sé della Resurrezione, frutto dell’amore incondizionato di Dio per l’umanità.
Non si profila qui l’errore della salvezza garantita a priori a tutti gli uomini dal Sacrificio di Cristo, senza bisogno di conversione a Lui? In effetti, manca di nuovo, nel discorso del Papa, un qualsiasi accenno alla necessità della conversione a Cristo per poter ottenere la salvezza, e quindi l’indicazione espressa della necessità del nostro libero concorso individuale all’opera della Grazia in noi; necessità definita dogmaticamente dal Concilio di Trento, contro gli errori dei Protestanti (DS 797/1525). Il carattere luterano e quindi protestante di tutto il discorso del Papa non ne risulta confermato? Esso tace ma anche stravolge verità della nostra fede, immutate da duemila anni.
Non è vero che Dio ci ama “come siamo”, accettandoci come siamo, “liberandoci” come siamo. Nostro Signore non ha detto apertamente, e non una sola volta, che solo chi “nasce di nuovo” nell’obbedienza ai suoi insegnamenti può sperare di entrare nel Regno di Dio, dopo il Giudizio cui la sua anima dapprima e alla fine dei tempi l’anima riunita al corpo saranno sottoposti da Lui stesso? E san Paolo, divinamente ispirato, non ha ribadito il suo insegnamento, quando ci ha ammonito che alla Resurrezione finale ognuno raccoglierà quello che avrà seminato in vita, poiché Dio non si lascerà ingannare e saprà ben distinguere i buoni dai cattivi, chi lo ha servito in fede e opere e chi no?
“Non vi fate illusioni: Dio non si lascia irridere; ognuno, infatti, mieterà quello che avrà seminato: e quindi chi semina nella sua carne, dalla carne mieterà la corruzione; chi invece semina nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna. Non ci stanchiamo mai di fare il bene, perché, se non ci stanchiamo, a suo tempo mieteremo”(Gal 6, 7-10).
Paolo Pasqualucci, mercoledì 17 agosto 2017
[1] Sulla supposta “natura trinitaria” della Chiesa-Popolo di Dio, vedi le fumose elucubrazioni di Bruno Forte, La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, San Paolo, Milano, 1995.
[2] Pio XII, Enciclica Mystici Corporis sul corpo mistico di Cristo, tr. it. de L’Osservatore Romano, Vita e Pensiero, Milano-Roma, 1959, p. 63 (DS 2290/3814). La Sacra Bibbia in italiano viene da me citata qui nella edizione della CEI delle Edizioni Paoline anteriore al Concilio; il testo originale secondo l’edizione graece et latine curata da Nestle e Aland.
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