L'INDIFFERENTISMO MODERNISTA
Scrive san Paolo nella Epistola ai Romani, 12, 1-2, ed è un mirabile compendio di ciò che deve essere la vita del cristiano in mezzo alla realtà di questo mondo: Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto. In effetti, qui c’è tutto: tutto quel che si deve fare e quel che si deve evitare. Qui c’è la misura della nostra fedeltà al Vangelo: perché se ci si uniforma al mondo, non si ama Cristo; e se si ama Cristo, non ci si può uniformare al mondo L’una cosa esclude l’altra. La grande eresia modernista è tutta qui: nel desiderio di uniformare la vita cristiana alla vita del mondo: alla sapienza del mondo, alla scienza del mondo, alla sentimentalità del mondo, alla storia, alla natura, a tutto ciò che è immanenza, materialità, illusione, disordine, superbia.
Il modernismo, prima di essere una eresia dai tratti specifici, ancorché vari e sfaccettati, è, sostanzialmente, un modo di porsi del cristiano di fronte alla cosiddetta civiltà moderna (che sarebbe più giusto chiamare anti-civiltà). Tale modo di porsi consiste in una inversione sottile, graduale, ma assolutamente logica e coerente, della relazione che, per il cristiano, deve esistere fra Dio e il mondo: invece di subordinare il mondo a Dio, invece di vedere nel mondo ciò che deve essere ricondotto a Dio, con umiltà e amore, si procede nella direzione opposta: si tenta di uniformare Dio al mondo; cioè, in pratica, non potendo uniformare Dio, si pretende di uniformare il Vangelo. Oh, ma sempre per un nobile scopo: quello di rendere il Vangelo più chiaro, più efficace, più persuasivo per gli uomini moderni. Cosa c’è di sbagliato in questo ragionamento? Forse che non è giusto adeguare qualunque tipo di comunicazione al linguaggio e agli stili di una data epoca? Certo; ma proprio qui si cela il veleno. Con la scusa di adeguare il linguaggio e gli stili, in realtà si tenta di adeguare i contenuti: perché, nel cristianesimo, la forma non è separabile dal contenuto.Questa è la verità e questo è il punto sul quale non potrà mai esservi accordo fra un cattolico e un modernista (perché sia ben chiaro che un modernista non è un cattolico: non esiste un cattolico che sia di tendenza modernista; esiste un eretico modernista che pretende di spacciare il suo modernismo per cattolicesimo e di espellere, se possibile, dalla Chiesa il suo fratello che non accetta l’eresia modernista, ma rimane fedele al cattolicesimo autentico). Qualcuno obietterà: un momento, le cose non stanno così. La liturgia, per esempio, evolve nel corso dl tempo: altra era la liturgia dei primi secoli della Chiesa, altra quella dell’alto o del basso Medioevo, altra quella dell’epoca tridentina, altra ancora quella odierna. Rispondiamo che sì, c’è stata una evoluzione delle forme liturgiche, ma non della liturgia in sé: lo spirito liturgico è rimasto inalterato, almeno fino al Concilio Vaticano II. È lì che si è spezzato, forse irreparabilmente, l’equilibrio tra forma e contenuto. Perciò il male non è, o non è tanto, l’aver abolito il latino dalla santa Messa o l’aver “girato” gli altari verso l’assemblea dei fedeli, anziché verso il Santissimo; il male è lo spirito con cui ciò è stato fatto. Ma come possiamo giudicare lo spirito?, insisterà quel tale. Lo possiamo giudicare dal tipo di atteggiamento da cui scaturisce e dagli effetti che manifesta. In sintesi: la cosiddetta riforma liturgica del Concilio (ma, in realtà, più che del Concilio, di quanti hanno preteso, in una fase successiva, d’interpretarne, appunto, lo “spirito”: perché il Concilio, ad esempio, non aveva abolito la santa Messa in latino) nasce da una volontà di piacere agli uomini piuttosto che a Dio; da una affermazione orgogliosa dell’uomo di fronte a Dio; da una pretesa dell’uomo di mettersi al centro, d’instaurare un antropocentrismo in luogo del teocentrismo, e di pretendere che sia Dio a doversi adattare alle esigenze dell’uomo, non lui a doversi fare niente davanti a Dio. Potremmo sintetizzare tutto questo con una semplice, tremenda espressione: la perdita dello stato di grazia.
La grazia è, sostanzialmente, la partecipazione dell’uomo alla vita divina; e non è un bene che l’uomo possa darsi da solo, ma un dono di Dio, che giunge quando l‘uomo si è posto nella giusta disposizione di spirito: ossia di farsi niente, e di lasciare che Dio, in lui, faccia tutto. È l’abbandono alla volontà di Dio: totale, senza riserve. La riforma liturgica conciliare e post-conciliare sembra essere partita dalla prospettiva opposta: essa mette in fila una serie di cose che vengono presentate quasi alla stregua di rivendicazioni sindacali nei confronti di Dio: l’uomo ha il diritto di ascoltare la santa Messa nella sua lingua materna; l’uomo ha il diritto di assistere alla santa Messa con il sacerdote che si rivolge costantemente a lui e non gli volta mai le spalle; l’uomo ha il diritto di ricevere la santa Comunione stando ben ritto in piedi, e prendendo la Particola con le sue stesse mani, per portarsela da sé alla bocca; e via di seguito. L’uomo ha il diritto di essere assolto dai peccati, anche gravi, perché - si dice – la misericordia di Dio è infinita; e poco importa se c’è o non c’è il vero pentimento, che nasce dalla piena consapevolezza del male fatto. L’uomo ha il diritto di celebrare la santa Messa in un clima festoso, con canti allegri e accompagnati da chitarre e tamburelli, perché il cristianesimo non è una cosa triste, per scribi e farisei ipocriti. L’uomo ha il diritto… L’elenco sarebbe lunghissimo, e ogni giorno si arricchisce di un nuovo punto, di un nuovo capitolo. Anzi, si può dire che, oggi, qualsiasi prete e, a maggior ragione, qualunque vescovo si sentono autorizzati a introdurre nella liturgia tutte le novità che paiono loro utili e opportune per ottenere un maggiore “coinvolgimento” dei fedeli nel rito: dalla Messa con i burattini (Verona) alla Messa con l’aperitivo e il ballo in riva al mare (Palermo), senza tralasciare la presentazione, festosa, s’intende, di coppie omosessuali, sull’altare, in piena celebrazione, per stimolare i fedeli all’amore fraterno verso tutti e per contrastare l’orribile peccato dell’omofobia. C’è poi la Messa con i canti e le danze etniche, per adattare il messaggio di Cristo alle altre culture e sensibilità religiose. Da ultimo, in quel di Ceuta (enclave spagnola sulla costa del Marocco) c’è l’ingresso in chiesa, festoso, naturalmente, della statua del dio indù Ganesha, quello con la testa di elefante, accolto dalla gioia e dalla simpatia dei fedeli cattolici, il tutto per iniziativa di quel bravo prete intenzionato a portare alle logiche conseguenze lo spirito della riforma liturgica conciliare. E poco importa che il suo vescovo lo abbia sconfessato, che abbia chiesto perdono ai fedeli per lo scandalo dato loro (avrebbe dovuto dire: per la profanazione; perché l’offesa più grande è stata quella fatta a Dio) e il trasferimento del troppo zelante riformatore: il fatto è che tutte queste cose sono l’esito necessario dello spirito da cui è partita la volontà di riforma: uno spirito tutto incentrato su quel che l’uomo desidera, su quel che gradisce, su quel che gli piace, e non su ciò che è giusto, vero e buono agli occhi di Dio. Anzi, la reazione, tardiva e inadeguata, di quel vescovo “cattolico” tradisce una profonda ipocrisia: perché scandalizzarsi se un prete ha preso l’iniziativa di invitare una divinità indù, portata in trionfo dai suoi fedeli, in una chiesa cattolica, quando tutti i vescovi e perfino il papa hanno invitato i musulmani a venire nelle chiese cattoliche durante la santa Messa, per pregare Dio (quale?) tutti insieme, appassionatamente, come recitava il titolo di un film famoso degli anni ’60, e questo all’indomani del barbaro assassinio di un prete cattolico, mentre celebrava il Sacrificio Eucaristico, da parte di due giovani musulmani, in nome del loro Dio? Ma anche questo, è il logico esito di tutta l’impostazione – non liturgica, ma dottrinale – decisa dal Vaticano II circa il cosiddetto “dialogo” con le altre religioni, che ha la sua base fondante nella dichiarazione Nostra aetate: non occorre che i Giudei si convertano; massima stima per l’islam; rifiuto della esclusività della Promessa di Dio ai cristiani. L’indifferentismo religioso parte da lì; e l’indifferentismo religioso è uno dei tratti più tipici del modernismo. Non importa quale Dio si adora, se Gesù Cristo o il dio Ganesha, se il Verbo incarnato morto sulla croce, oppure una divinità dalla testa di elefante: tutte le fedi portano alla salvezza, perché tutte contengono una scintilla della verità divina.
Tutto questo nasce da un fatto: la perdita dello stato di grazia. Se l’uomo è in grazia di Dio, non arriva a simili aberrazioni; è la Grazia medesima che lo preserva. Ci piace riportare qui la riflessione di Monignor François Cuttaz, già rettore del seminario di Annecy, nel suo libro La nostra vita di Grazia (titolo originale: Le Juste. Notre vie de Grace; traduzione dal francese di Enrico Martinetto, Milano, Edizioni Paoline, 1960, pp. 451-452):
La grazia vale il sangue di un Dio!
E non solo non ha esitato a pagarla con la vita, ma ne ha fatto lo scopo di tutti gli istanti che la composero, il fine della sua Incarnazione del suo apostolato in mezzo a noi, di tutte le istituzioni che ci ha lasciato.
“Io sono venuto”, Egli ha detto, (Gv. 10, 10) “a dare la vita della grazia a chi non l’aveva, e a darla più abbondantemente” (a chi l’aveva).
Conferire la grazia è l’effetto dei sacramenti che Gesù ha istituito; darla, effetto del Battesimo, restituirla, quello della penitenza; accrescerla, quello in modo particolarissimo dell’Eucarestia; comunicarla, quello dell’Ordine; difenderla, quello di tutti.
È anche lo scopo della Chiesa da Lui fondata e per questo dotata di prerogative soprannaturali; lo scopo della dottrina rivelata e della morale che ci ha insegnato; lo scopo della sua azione incessante nelle anime e nel mondo. La grazia è la posta della lotta gigantesca che per mezzo della Chiesa Egli sostiene lungo i secoli contro le potenze del male, potenze che con accanimento mirano a distruggerla. La storia religiosa, e in definitiva tutta la storia, non è altro che la storia dell’azione divina a favore della grazia.
«Non conformatevi alla mentalità del mondo»
di Francesco Lamendola
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