Il catechismo ieri, oggi e domani
Come tutti i cattolici sensibili ai problemi teologici e
pastorali del tempo che stiamo vivendo, io ho esultato alla pubblicazione del
Catechismo della Chiesa Cattolica, che ritengo uno dei maggiori meriti
ecclesiali del grande Pontefice san Giovanni Paolo II. Come il Catechismus ex
decreto Concilii Tridentini ad parochos fu voluto dal Papa san Pio V per
realizzare la riforma cattolica voluta dal Concilio di Trento, così questo
moderno catechismo universale realizzato doveva servire a fornire al popolo cristiano
a una ben precisa nozione della fede cattolica, al di là delle interpretazioni
parziali (anche se ortodosse) e soprattutto contro le interpretazioni abusive
(e quindi eterodosse) del Concilio Vaticano II.
Già prima che san Giovanni Paolo II prendesse quella storica decisione io mi occupavo dei problemi della catechesi sorti a seguito di quel “disorientamento pastorale” che si era verificato già nei decenni successivi alla conclusione del Vaticano II e che attualmente assume dimensioni innegabilmente drammatiche (cfr la mia Introduzione teologica al volume di D. Quinto, Disorientamento pastorale, Leonardo da Vinci, Roma 2016). Molti catechismi nazionali (soprattutto quello noto come Catechismo Olandese) stavano provocando un disorientamento ancora maggiore. Collaborai con il filosofo e teologo salesiano Franco Amerio per recuperare le parti sempre attuali del Catechismo Romano, realizzato dopo il Concilio di Trento, e per rieditare, aggiornato e commentato, il suo Nuovo Catechismo antico (pubblicato nel 1971, con lo pseudonimo di Franco della Fiore, dalla Sei) con il nuovo titolo di La dottrina della fede: dogma, morale, spiritualità (Ares, Milano 1982).
Poi, una volta iniziati i lavori per la preparazione de
Catechismo della Chiesa Cattolica, potei seguire la fatica del principale
redattore italiano, l’amico don Sandro Maggiolini, che aveva ospitato i miei
articoli sulla Rivista del Clero Italiano ed era divenuto Vescovo di Como.
Infine, grande è stata la mia gioia quando il presidente del Pontifico consiglio
per la nuova evangelizzazione, l’arcivescovo Rino Fisichella (con il quale ho
avuto una proficua collaborazione accademica quando era il rettore
dell’Università Lateranense e io ero membro del Senato accademico in quanto
decano della facoltà di Filosofia) ha presentato un’edizione speciale del
Catechismo della Chiesa Cattolica a venticinque anni dalla sua pubblicazione.
Gioia che poi è venuta meno quando ho appreso che tra i
commentatori dell’edizione speciale figura quell’Enzo Bianchi al quale non riconosco
alcuna competenza autenticamente teologica, mentre mi è purtroppo ben nota la
sua militanza nelle file del progressismo riformista e antidogmatico. Ma ancora
più preoccupante, ai fini del ri-orientamento del popolo cattolico alle fonti
della fede, è la riduzione che papa Francesco – per come il suo discorso è
stato riferito dai media – ha fatto del Catechismo della Chiesa Cattolica a
documento storico di un mutamento dottrinale perennemente “in progress”. Il
Papa ha citato infatti, delle tante considerazioni fatte da san Giovanni Paolo
II a proposito del valore orientativo del Catechismo della Chiesa Cattolica,
soltanto quelle riguardanti i cambiamenti, come quando scriveva che «esso deve
tener conto delle esplicitazioni della dottrina che nel corso dei tempi lo
Spirito Santo ha suggerito alla Chiesa. E’ necessario inoltre che aiuti a
illuminare con la luce della fede le situazioni nuove e i problemi che nel
passato non erano ancora emersi» (Cost. ap. Fidei depositum, n. 3).
E’ chiaro che, parlando di insegnamenti della Chiesa che
servono a «illuminare con la luce della fede le situazioni nuove e i problemi
che nel passato non erano ancora emersi», papa Wojtyla si riferiva, non al
nucleo fondamentale della dottrina della fede – che riguarda i misteri della
Trinità e dell’Incarnazione, e quindi la funzione santificante dei Sacramenti –
ma alle sue applicazioni alla vita del singolo fedele e della comunità
cristiana. Queste applicazioni – morali, liturgiche e pastorali – sono
logicamente relative ai mutamenti storici, e quindi sono soggette a riforme
della teologia morale e del diritto canonico che mirano a sostituire norme del
passato con altre più valide, o a introdurre una normativo del tutto nuova.
Invece, le verità dogmatiche sono di per sé irreformabili,
ed è proprio per questo che la Chiesa le enuncia attraverso le cosiddette
“definizioni” o “formule dogmatiche”, che non possono essere cambiate e tanto
meno contraddette: e non per “conservatorismo”, ma per pura e semplice logica,
perché non possono esserci valide ragioni per cambiare una verità che la Chiesa
ha accertato una volta per sempre come rivelata da Dio (gradualmente) per mezzo
dei Profeti e poi (definitivamente) per mezzo del Figlio. L’immutabilità del
dogma è il principio logico che regge tutta la funzione magisteriale della
Chiesa e in base ad essa si giustifica la stessa autorità del Papa come supremo
Maestro della fede per tutti i
cristiani.
Il Vaticano II lo ha confermato nella costituzione dogmatica
Dei Verbum, e papa Paolo VI ha precisato (nell’enciclica Mysterium fidei, a
proposito del termine “transustanziazione”) che perfino il linguaggio delle
definizioni dogmatiche deve essere sempre mantenuto, perché ad esso è legato il
significato e il senso della verità rivelata. Invece papa Bergoglio dice che il
Catechismo della Chiesa Cattolica «costituisce uno strumento importante non
solo perché presenta ai credenti l’insegnamento di sempre in modo da crescere
nella comprensione della fede, ma anche e soprattutto perché intende avvicinare
i nostri contemporanei, con le loro nuove e diverse problematiche, alla Chiesa,
impegnata a presentare la fede come la risposta significativa per l’esistenza
umana in questo particolare momento storico. Non è sufficiente, quindi, trovare
un linguaggio nuovo per dire la fede di sempre; è necessario e urgente che,
dinanzi alle nuove sfide e prospettive che si aprono per l’umanità, la Chiesa
possa esprimere le novità del Vangelo di Cristo che, pur racchiuse nella Parola
di Dio, non sono ancora venute alla luce». E fa questo discorso per annunciare
la sua decisone di correggere ciò che il Catechismo della Chiesa Cattolica
insegna sul tema della pena di morte.
Già Tommaso Scandroglio e altri sulla Nuova BQ ne hanno
parlato, ma io voglio tornare sull’argomento, non per insistere ancora sul
principio etico-politico della possibile liceità della pena di morte ma per
raccomandare ai nostri lettori di non interpretare l’intervento del Papa come
se egli avesse voluto ridimensionare la portata pastorale del Catechismo della
Chiesa Cattolica, trasformando – in netta discontinuità con le indicazioni
pastorali di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI – quello che doveva
essere un punto di riferimento chiaro e inequivocabile della fede della Chiesa
in un cantiere aperto di continui aggiornamenti e riforme.
Mi hanno chiesto: ma il Papa attuale può cambiare il
Catechismo della Chiesa Cattolica? Rispondo: certamente lo può fare, se ritiene
che sia utile alla Chiesa. Su questo, stando proprio a ciò che insegna la
Chiesa circa i poteri del Papa, non c’è discussione. Se però qualcuno mi chiede
se, in questo momento storico, sarebbe davvero utile alla Chiesa cambiare il
Catechismo della Chiesa Cattolica, io rispondo che non mi sembra utile, anzi mi
sembra proprio dannoso. Prima di continuare, premetto, a scanso di equivoci
(che però ci saranno, perché non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire),
che io non ho ovviamente nulla da obiettare riguardo alle decisioni che il Papa
prenderà per modificare il testo del Catechismo della Chiesa Cattolica.
In materie del genere, i cambiamenti della catechesi
ufficiale rientrano nel novero delle sue sovrane e insindacabili decisioni di
governo; teologicamente parlando, sono «scelte prudenziali» del papa, che solo
Dio può sapere se sono assolutamente giuste e necessarie, ossia se sono fatte
con il dovuto amore per la Chiesa e la dovuta prudenza pastorale. Ma, date le
odierne circostanze pastorali cui accennavo (il gravissimo e crescente
disorientamento dottrinale tra i fedeli di ogni parte del mondo), ci si può
(forse si deve) rivolgere all’opinione pubblica cattolica dicendo chiaramente
che le eventuali modifiche del Catechismo della Chiesa Cattolica annunciate dal
papa non cambiano la dottrina dogmatica e morale della Chiesa. Non la cambiano,
né abolendo una delle verità già definite come divinamente rivelate (ciò
infatti costituirebbe proprio un’impossibile eresia da parte del Papa), né
sviluppandola in modo coerente ed omogeneo.
L’inserimento di una precisazione in merito all’assoluta
esclusione della pena di morte dai codici penali degli stati di tutto il mondo
non può essere considerata come un atto del magistero pontificio che in qualche
modo si inserisca nel processo dottrinale che il domenicano spagnolo Francisco
Marín Sola denominava giustamente «evolución homogénea del dogma católico».
Riguarda piuttosto la prassi pastorale della Chiesa, e si inserisce in una
strategia comunicativa che papa Francesco adotta fin dall’inizio del suo
pontificato. Si tratta di una delle tante indicazioni morali (quella che gli
americani chiamano “public ethics”) che il Papa rivolge alle istituzioni
statuali e alle organizzazioni internazionali (Onu, Fao, Unesco, Ue) mostrando,
da una parte, la piena condivisione delle loro stesse strategie politiche ed
esprimendole con il linguaggio e le categorie ideologiche della “neue
politische Theologie” (Johan Baptist Metz) e della “Weltethik” (Hans Küng).
Ora, se non mi permetto di criticare questa strategia
pastorale del Papa, mi sento però in dovere di mettere i guardia i fedeli dal
linguaggio ambiguo e dalle ragioni solo apparentemente teologiche che papa
Francesco adotta per spiegare o per giustificare certe iniziative. A cominciare
dal fatto di dire che tali direttive socio-politiche sono emanate in nome del
Vangelo, derivano dal Vangelo, sono ispirate direttamente dallo Spirito Santo,
tanto che opporsi ad esse è come rinnegare il fatto di essere cristiani.
Qui due cose vanno chiarite (non al Papa, che è il supremo
maestro della fede e al quale io non devo insegnare nulla, ma ai miei lettori):
1) La prima è che il Vangelo è una cosa ben precisa: è la
divina rivelazione, nelle sue forme storiche di trasmissione (la Tradizione e
la Scrittura), e coincide con il dogma cattolico, come insegna solennemente il
Vaticano II nella Dei Verbum; non si può quindi far ricorso a un Vangelo inventato, come fanno il
cardinale Walter Kasper e tanti altri (ad esempio Enzo Bianchi) per conferire
dignità di rivelazione pubblica alla loro privatissima opinione su Cristo (del
quale si ostinano a negare la divinità, che pure è proclamata nel Credo) e
sulla Madonna (alla quale negano il titolo di Madre di Dio, che pure è stato
decretato dal Concilio di Efeso);
2) La seconda è che lo Spirito Santo è inviato da Gesù e dal
Padre per ricordare ai fedeli ciò che Gesù ha insegnato e non a introdurre nel
«depositum fidei» qualcosa di nuovo o di contrario a quello che Gesù ha detto.
Detto questo, è evidente che ingenera confusione parlare del
Vangelo per escludere tassativamente la pena di morte come misura di giustizia
prevista da un ordinamento giudiziario di uno Stato. Anzi, a ben vedere, i
Vangeli contengono molti discorsi di Gesù nei quali Egli parla del potere
civile e delle sue prerogative, anche giudiziarie, senza condannarne alcune
come contrarie ai comandamenti di Dio. C’è poi un passo della Lettera ai Romani
dove si legge. «I governanti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando
si fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode,
poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora
temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per
la giusta condanna di chi opera il male» (13, 3-4).
Mi si obietterà: ma il Papa esige che il potere politico non
si limiti alla giustizia e pratichi anche la misericordia. Ora, questo – come
atto di magistero pontificio – può essere logico se si tratta in particolare
dell’esercizio del potere temporale da parte della Santa Sede (lo Stato
Pontificio prima, lo stato della Città del Vaticano oggi), la cui autorità, che
è appunto il Papa, deve necessariamente attenersi alla morale evangelica oltre
che alla morale naturale nello stabilire e nell’applicare le norme di diritto
penale. In questo senso non desta meraviglia che papa Francesco dica:
«Purtroppo, anche nello Stato Pontificio si è fatto ricorso a questo estremo e
disumano rimedio, trascurando il primato della misericordia sulla giustizia»,
anche se non sembra rispettoso e caritatevole nei confronti dei Papi che
l'hanno preceduto condannarli tutti senza appello per aver avuto «una mentalità
più legalistica che cristiana», aggiungendo poi che «la preoccupazione di
conservare integri i poteri e le ricchezze materiali aveva portato a
sovrastimare il valore della legge, impedendo di andare in profondità nella
comprensione del Vangelo».
Non è invece logico esigere che il potere politico non si
limiti alla giustizia e pratichi anche la misericordia quando si tratta
dell’esercizio del potere temporale da parte di uno Stato sovrano, la cui
“laicità” la Chiesa, soprattutto dopo il Vaticano II, ha voluto riconoscere e
rispettare. Uno Stato laico (cioè non confessionale e non governato dal
Vaticano, nemmeno indirettamente) non ha il dovere costituzionale di esercitare
la misericordia evangelica, perché questa misericordia è un dovere della
coscienza dei singoli cristiani, come soggetti morali: e lo Stato non è un
soggetto morale, ma è solo l’ordinamento giuridico con il quale la società
civile organizza l’esercizio del potere legislativo, giudiziario ed esecutivo
in vista del bene comune. E tale organizzazione ha come sola regola
l’adeguazione alla legge morale naturale, in base alla quale hanno
validità le leggi positive, finalizzate
sempre al mantenimento delle condizioni
essenziali per il bene comune (difesa dal nemico esterno, difesa dai nemici
interni, concordia ed equità sociale).
Se talvolta lo Stato ritiene che tali obiettivi siano
garantiti anche da misure di grazia (indulto, amnistia, annullamento o
commutazione delle pene più pesanti), ciò non è la conseguenza dell’intervento
di un’autorità religiosa, ad esempio la Santa Sede, ma si giustifica
esclusivamente in base a ragioni di ordine filosofico-giuridico (vedi Vittorio
Mathieu, Perché punire. Il collasso della giustizia penale, Liberlibri,
Macerata 2008).
Anche in Italia il dicastero statale che deve occuparsi
dell’amministrazione della giustizia è denominato “Ministero di Grazia e
Giustizia”. Ora, nell’amministrare la giustizia, uno Stato laico può cambiare
le proprie leggi, tramite riforme votate dal Parlamento o con l’intervento
della Corte costituzionale, sulla spinta dell’opinione pubblica, ossia di una
diversa mentalità comune che ritiene – è il caso della pena di morte – che la
difesa della comunità nei confronti degli aggressori interni (assassini,
stupratori, rivoltosi, mafiosi, terroristi eccetera) possa essere garantita
anche senza l’istituto della pena di morte (vedi in proposito, il volume
Giustizia e verità in democrazia, a cura di Giovanni Covino, Leonardo da Vinci,
Roma 2017).
Ma questo nuovo “senso morale” rilevabile nell’opinione
pubblica mondiale o di certe aree geopolitiche non è (formalmente almeno) il
risultato di una nuova comprensione del Vangelo ma deriva dall’evoluzione della
cultura illuministica che già nel Settecento, con il trattato Dei delitti e
delle pene di Cesare Beccaria, aveva criticato la tortura e l’eccessiva ricorso
alla pena capitale. Insomma, l’abolizione della pena di morte non è richiesta
dall’opinione pubblica in nome del Vangelo sic e simpliciter ma in nome di
molti principi di giustizia distributiva che uniscono allo spirito del diritto
romano anche il giusnaturalismo moderno e la filosofia politica di Rosmini e di
Maritain.
Sorprende quindi che adesso sia proprio il Papa ad
appellarsi, nei confronti dei poteri civili, non ai fondamenti del diritto
naturale ma all’opinione pubblica (la “political correctness”), che può essere
vista con simpatia dal magistero pontificio in questo specifico argomento ma
non può essere invece assecondata in altri argomenti affini, come la
legislazione permissiva sull’aborto, sull’eutanasia sul cosiddetto “suicidio
assistito”.
Antonio Livi
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