Liturgia e traduzioni, il rovesciamento delle gerarchie
Il Motu Proprio Magnum Principium, riguardo alle traduzioni
dei testi liturgici nelle lingue nazionali, ha provocato un acceso dibattito
dopo che l'interpretazione autorevole data dal cardinal Robert Sarah, prefetto
della Congregazione per il Culto Divino, è stata smentita dallo stesso papa
Francesco. Al centro della controversia sta il corretto rapporto tra Sede
apostolica e conferenze episcopali riguardo la liturgia. Abbiamo chiesto
all'esperto monsignor Nicola Bux un approfondimento. Data la complessità del
tema e i numerosi aspetti da prendere in considerazione, l'intervento di
monsignor Bux viene presentato in due puntate.
I padri della Chiesa non ammettevano qualsiasi fede, ma,
secondo l'insegnamento di san Paolo, richiedevano sempre la fede ortodossa,
ossia retta, sana e pura, a partire dalla professione battesimale. Inoltre,
vedevano le preghiere liturgiche e i riti come espressione di questa fede, su
cui aveva autorità la «beatissima Sede Apostolica..., in quanto tramandati
dagli Apostoli in tutto il mondo e celebrati uniformemente in tutta la Chiesa
cattolica, affinché la regola della preghiera stabilisca la regola della fede
(ut legem credendi lex statuat supplicandi)» (Prospero, Capitula, 8: DS 246);
si ricorda, in genere, solo quest'ultima parte del principio enunciato da Prospero d'Aquitania,
discepolo di sant'Agostino, non la prima parte, che chiama in causa la Sede
Apostolica. Il principio, in vigore molto prima del V secolo, conferma il nesso
intimo tra fede e liturgia.
Col Motu proprio Magnum principium, la Sede Apostolica
rinuncia alla sua fondamentale competenza sulle traduzioni dei libri liturgici,
in favore delle conferenze episcopali: la regolamentazione (moderatio) della
sacra liturgia si capovolge,disponendo che sia esercitata dal basso verso
l'alto. Invece, la Costituzione liturgica Sacrosantum Concilium (1963)
attribuisce, in senso discendente, al Papa, al vescovo diocesano e alle
conferenze episcopali, la funzione di moderare la liturgia secondo gradi
differenti e subordinati (art.22). Per questo, la Sede Romana è l’autorità
moderante primaziale della liturgia romana in tutta la Chiesa cattolica,
mediante lo strumento esecutivo di tale «moderatio» che è la Congregazione per
il Culto Divino.
La Sede Romana con le dovute differenze modera oltre ai riti
occidentali cattolici, anche i riti delle Chiese cattoliche orientali mediante
la Congregazione apposita. Giovanni Paolo II lo ha confermato nella
Costituzione Pastor Bonus (1988) con cui ha riformato la Curia Romana: moderare
e promuovere la sacra liturgia, in specie i sacramenti (art. 62-70). Il compito
di mantenere l’ordine liturgico, di rimuovere gli abusi, di preparare i testi
liturgici, di esaminare i calendari particolari ecc. sono le stesse competenze
della Congregazione dei Riti istituita dopo Trento, a cui si è aggiunta di
recente la revisione degli adattamenti compiuti dalle conferenze episcopali.
Sempre in base alla Sacrosanctum concilium n. 44,
all’autorità della Santa Sede si affianca in subordine quella del vescovo
diocesano e in certi limiti dei superiori religiosi maggiori, ossia in una
parola l’Ordinario; poi quella delle conferenze episcopali; il primo e le
seconde hanno come strumenti le commissioni liturgiche locali e nazionali o
territoriali, con compiti di dirigere la pastorale liturgica, quindi esecutivi.
Infine, la Sacrosanctum concilium n. 45-46, suggerisce l’istituzione di
commissioni liturgiche diocesane e interdiocesane, e anche di musica sacra e di
arte sacra, tra loro distinte o congiunte. Vi sono anche le commissioni
congiunte o miste internazionali nei maggiori gruppi linguistici, che
dovrebbero essere sottomesse alle conferenze episcopali rispettive. Purtroppo
il lavoro di tali commissioni di esperti, per certi versi meritorio, non di
rado è stato accusato, e non a torto, di aver preso il posto dell’autorità dei
vescovi e «fabbricato» la liturgia, specialmente per quanto attiene alle
traduzioni dei libri liturgici.
Lasciando da parte la querelle sul potere «in bianco» delle
commissioni o stra-potere, rispetto a quello dei vescovi, affrontiamo piuttosto
la questione di fondo, riguardante l’autorità primaziale della Sede Apostolica
sulla liturgia: se e in che misura ce l’abbia. Klaus Gamber si domandava se il
Papa abbia il diritto di modificare un rito risalente alla tradizione
apostolica e tramandato attraverso i secoli. Secondo lo studioso tedesco,
l’autorità ecclesiastica non ha mai esercitato influenza sull’evoluzione delle
forme liturgiche ma ha solo sanzionato il rito tramandato e solo tardivamente,
dopo l’apparizione dei libri liturgici a stampa, segnatamente in Occidente solo
dopo Trento. E’ a questo che fa allusione, riferendosi al can. 1257 del Codex
Iuris Canonici del 1917, la Costituzione liturgica nel già menzionato n. 22,
quando recita: «Sacrae liturgiae moderatio compete unicamente all’autorità
della Chiesa, che risiede nella Sede Apostolica e, a norma di diritto, nel
Vescovo.[…] Di conseguenza nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote,
osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia
liturgica». Un avvertimento attuale per chi si proponesse di cambiare la Messa
e addirittura le parole consacratorie, per motivi pseudo-ecumenici.
Ora, in primo luogo, la “dottrina del caso per caso”,
applicata alle traduzioni dei libri liturgici, porta a interpretare liberamente
anche i testi, a seconda delle situazioni. Viene intaccato, così, il principio
dogmatico lex credendi lex orandi. Una simile scelta è dannosa, per la Chiesa e
per la fede dei semplici. Perciò, la messa in questione dell'Istruzione
Liturgiam authenticam, va oltre l’aspetto liturgico, ed è sintomo di una
concezione di Chiesa cattolica, come federazione di chiese nazionali o
autonome: concezione che ha già portato il mondo ortodosso alla paralisi e
quello protestante alla frantumazione. Ratzinger, da prefetto della
Congregazione per la dottrina della fede, esortava a: «Salvaguardare la natura
stessa della Chiesa cattolica, che è basata su una struttura episcopale, non su
una sorta di federazione di chiese nazionali. Il livello nazionale non è una
dimensione ecclesiale. Bisogna che sia di nuovo chiaro che in ogni diocesi non
c’è che un pastore e maestro della fede, in comunione con gli altri pastori e
maestri e con il Vicario di Cristo».
Ora, il nuovo Motu proprio del Papa, che demanda alle
conferenze episcopali, oltre alla traduzione, anche la revisione (recognitio)
dei libri liturgici, attribuita finora alla Sede Apostolica, priva codesta -
come pure quella dei singoli vescovi - di quell'autorità di diritto divino,
riconosciuta dalla Costituzione liturgica (22,1), a favore di una entità di
diritto umano, per quanto ecclesiastico, qual'è la conferenza episcopale (cfr
“Rapporto sulla fede”, intervista del cardinale Ratzinger con Vittorio Messori,
1985).
L'interpretazione data dal Cardinal Robert Sarah, prefetto
della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti –
contestata dalla Lettera del Papa – si muove nel quadro dell' “ermeneutica
della continuità e della riforma dell'unico soggetto Chiesa”, con cui Benedetto
XVI guardava al Vaticano II, di cui la Costituzione liturgica è il primo
frutto. Il Cardinale ha osservato che la conferma (confirmatio) da parte della
Sede Apostolica, non avverrà in senso notarile, ma “solo dopo aver debitamente
verificato che la traduzione sia «fedele» («fideliter»), ossia conforme al testo
dell’editio typica in lingua latina in base ai criteri enunciati
dall’Istruzione Liturgiam authenticam sulle traduzioni liturgiche”. Per tale
ragione, Paolo VI aveva chiesto che le Conferenze Episcopali, collocassero nei
messali il testo dell’ordinario e del
proprio, in sinossi bilingue: latina e nazionale.
In secondo luogo, la tendenza invalsa dopo il Concilio
Ecumenico Vaticano II, a interpretare più che a tradurre fedelmente i testi in
modo corrispondente all'edizione tipica latina dei libri liturgici, ha
incrinatto l'unità del rito romano che la Costituzione liturgica presuppone,
invece, doversi salvaguardare (n. 38). Infatti, il rito romano, come tutte le
grandi famiglie liturgiche storiche della Chiesa cattolica, ha uno stile e una
struttura propria che vanno rispettati in quanto possibile, anche per le
traduzioni; queste attengono alla “sostanziale” unità del rito, in quanto
traducono la parola divina e i testi eucologici da essa ispirati che, appunto,
lo “sostanziano”; perciò, Liturgiam authenticam ricorda che la lingua dei testi
tradotti, non va intesa come espressione della disposizione interna del fedele,
ma piuttosto della parola di Dio rivelata. La lingua liturgica può, quindi,
ragionevolmente divergere dal parlato ordinario, ma rifletterne al tempo stesso
gli elementi migliori. L’obbiettivo, da perseguire, sarà lo sviluppo di un
volgare dignitoso, atto ad essere destinato al culto, in un determinato
contesto culturale.
L'Istruzione Liturgiam authenticam dedica un certo spazio a
sottolineare l’importanza del rimando degli affari liturgici alla Santa Sede,
parzialmente basandosi sul Motu Proprio di Giovanni Paolo II Apostolos suos del
1998, in cui si chiariva la natura e la funzione delle conferenze episcopali.
La procedura di rimando, oltre che segno della comunione dei Vescovi col Papa,
ha anche un valore di consolidamento di questa relazione. Essa è garanzia della
qualità dei testi e ha per fine che le celebrazioni liturgiche delle Chiese
particolari siano in piena armonia con la tradizione della Chiesa Cattolica
lungo i secoli e in tutti i luoghi del mondo.
Per comprendere Liturgiam authenticam, quindi, bisogna
essere convinti che, a partire dalla Pentecoste, quando nacque con destinazione
universale, la Chiesa cattolica preceda ontologicamente le Chiese particolari,
come affermato dalla Lettera Communionis notio, della Congregazione per la
Dottrina della Fede ai Vescovi (1992). Invece, l'idea di “Chiesa sinodale”,
intesa come insieme di enti autonomi, che si persegue in nome
dell'inculturazione e del decentramento, finisce per assimilarla ad una entità
politica. La Chiesa cattolica non è un concilio o un sinodo permanente – che
pure costituiscono momenti straordinari della sua vita – ma la communio
governata ordinariamente dal Primato romano, in due modi: da solo, e con i
Vescovi ad esso uniti.
Al fine di garantire l’identità del rito romano sul piano
mondiale, l'Istruzione Liturgiam authenticam tenta di riportare la questione
alla Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium, quanto al rapporto tra
lingua universale e lingue particolari(cfr n. 63): questa si preoccupava
appunto di conservare il latino nei riti latini, in specie nella preghiera
eucaristica e collette. Già prima del concilio,infatti, i sacramenti venivano
celebrati in latino e con inserzioni in lingua volgare. Per questo, la
Costituzione da un lato prescrive: "l'uso della lingua latina ... sia
conservato nei riti latini" (n. 36, 1; cfr anche art. 54), dall'altro
regola l'uso della lingua volgare (n. 36, 2-3): nella Messa e nei sacramenti
“si possa concedere alla lingua volgare una parte più ampia”: sono menzionate
letture, monizioni, alcune preghiere e canti, ma non le parti strettamente
sacramentali come le formule e le preghiere epicletiche o consacratorie, che -
analogamente al canone della messa e alle orazioni presidenziali - si riteneva
ovvio che dovessero conservare il latino. La Costituzione pure raccomanda che i
fedeli sappiano recitare e cantare in latino le parti loro spettanti(ivi, n.
54) come già fanno nella lingua parlata; che i chierici sappiano recitare in
latino l’ufficio secondo la tradizione (ivi, n. 101); per altre parti come le
letture e l’orazione dei fedeli prevede il volgare.
Perchè, parlando di traduzioni, è importante il latino,
lingua delle edizioni tipiche dei libri liturgici della Sede Apostolica?
Secondo Giovanni XXIII, se le verità cattoliche fossero affidate alle lingue
moderne, soggette a mutamento, il loro senso non sarebbe manifesto con
sufficiente chiarezza e precisione, senza il latino mancherebbe una lingua
comune e stabile con cui confrontare il significato delle altre (cfr
Costituzione apostolica Veterum sapientia, 22 febbraio 1962). Quindi, il latino
tutela la dottrina in ragione del fatto che non è più soggetto a mutazioni;
inoltre, papa Giovanni, non mancò di sottolineare il carattere “unitivo” della
lingua latina anche «nel presente momento storico, in cui, insieme con una più
sentita esigenza di unità e di intesa fra tutti i popoli, non mancano tuttavia
espressioni di individualismo». Per questo, tale idioma «può ancora oggi
rendere nobile servizio all’opera di pacificazione e di unificazione», giacché,
non essendo legato «agli interessi di alcuna nazione, è fonte di chiarezza e di
sicurezza dottrinale, è accessibile a quanti abbiano compiuto studi medi e
superiori; e soprattutto è veicolo di reciproca comprensione.
Nicola Bux
(1. continua)
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