Francesco fase B. Ma lo stile è quello del Vaticano II
Riguardo alla situazione di degrado teologico vigente credo di voler sottoscrivere l’opinione espressa da padre Scalese, relativamente alla FASE B appena iniziata. Suggerisce Scalese: “Perché parlo di una seconda fase del pontificato? Perché ho l’impressione che ci troviamo di fronte a una svolta. La fase A del pontificato di Papa Bergoglio è stata caratterizzata da quella che lui ha chiamato, in Evangelii gaudium, “conversione pastorale” (n. 25). C’è stato chi ha parlato, a questo proposito, di “cambio di paradigma” (qui); noi, forse con una certa audacia, abbiamo parlato di “rivoluzione pastorale” (qui). La caratteristica di questa prima fase è stata la sottovalutazione della dottrina in favore della pastorale: la dottrina — è stato insistentemente ripetuto — non cambia; ciò che cambia è l’atteggiamento della Chiesa verso le persone. L’evento piú significativo di questa prima fase è stato, senza alcun dubbio, la pubblicazione dell’esortazione apostolica Amoris laetitia.Si ha l’impressione che il discorso dell’11 ottobre segni il passaggio a una nuova fase, nella quale, pur ribadendo che la dottrina non cambia, si pone l’accento sull’esigenza che essa progredisca”. Se Scalese ha ragione, allora io e il mio attuale articolo siamo in ritardo. Non me ne cruccio: in ogni caso non avremmo contribuito a virate di sorta.
In pratica, facendo un passo indietro, vorrei offrire un giudizio circa la genesi della FASE A. La domanda suona così: quali sarebbero gli elementi che hanno permesso a Francesco di condurre il suo programma nella Fase A? Ha Francesco forzato inusitatamente le pedine sullo scacchiere teologico ed ecclesiastico oppure no? Il mio parere è che no, Francesco non ha forzato nulla, ha solo tratto le fila - primo tra tanti e dopo tanti mistificatori - del lascito che il Vaticano Secondo ci ha consegnato.
Per spiegarmi devo citare un testo illuminante del compianto mons. Gherardini: “Più volte il Vaticano II fa riferimento alla Tradizione, manifestando la volontà di concordare con essa, sia agganciando i propri asserti alla sua matrice, sia spiegando i rapporti della Tradizione stessa con la Sacra Scrittura. ‘Teste Traditione’, ‘ex Traditione’, ‘Traditioni inhaerens’ sono, con altri, alcuni dei modi generici con cui la tradizione vien chiamata. Evidentemente il richiamo puramente verbale non è sufficiente per stabilire un effettivo legame tra Vaticano II e Tradizione. Talvolta il richiamo parrebbe meno generico solo perché vien fatto il nome del Tridentino o di altri Concili ecumenici; ma generico rimane, perché il dettato di tali Concili o non è citato, o se pur citato non esprime una pertinenza inequivocabile. Talvolta anzi rispetto alla citazione si asserisce qualcosa di diverso o addirittura qualcos’altro. Evidentemente non può esser possibile riconoscere la continuità del Vaticano II con la Tradizione di sempre in base al detto richiamo” (B. Gherardini, Quaecumque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia, ed. Lindau, Torino 2011, pp. 177-178).
Ora, il sottoscritto non è mai stato un critico del Vaticano II o dei Papi recenti, ma alla luce dei fatti contemporanei la critica si impone come unica e ultima forma di verità e dignità, seppur nell’inarrestabile decadimento. Parto dalla considerazione più vicina ai nostri tempi: ditemi quale differenza notate tra il modo di procedere del Vaticano II, laddove, come dice il Gherardini, “il dettato di tali Concili o non è citato, o se pur citato non esprime una pertinenza inequivocabile. Talvolta anzi rispetto alla citazione si asserisce qualcosa di diverso o addirittura qualcos’altro” e il modo con cui Francesco in Amoris Laetitia (e non solo in essa) attinge al Magistero precedente e lo richiama, ma senza una ‘pertinenza inequivocabile’ o anzi asserendo ‘qualcosa di diverso o addirittura qualcos’altro’ rispetto alle fonti.
A questo punto faccio un passo indietro ed oso chiedere: a che pro l’opzione dei papi post-vaticanosecondo che, avranno pure tenuto una condotta teologica quanto più tradizionale, ma non hanno avuto il coraggio di dichiarare la radice ammalata dello stile teologico contemporaneo, addirittura nelle sue espressioni conciliari?
Detto altrimenti: il marciume che emerge nell’era di Francesco, disseminato a piene mani dai suoi scherani, non è ‘di Francesco’ bensì prima ancora è del Vaticano II. Inutile lamentarsi ora col pontefice argentino, se non abbiamo avuto e non abbiamo il coraggio di denunciare ciò che di ambiguo o distorto è stato innestato nella Catholica a partire dall’Assise del ‘62.
Ciò mostra appieno quale sia la sfida raggelante che si dispiega dinanzi ai nostri occhi e quanto siamo in svantaggio: non è il problema di un Pontefice rivoluzionario, ma di una generazione ecclesiastica intera nutrita di metodi e approcci teologici avariati.
Ripeto: non sono un critico del Vaticano II e non aderisco ad alcuna associazione tradizionalista. Ciò che scrivo è quanto mi risulta essere plausibile e verace alla luce delle citazioni su riportate e dei fatti di cui tutti siamo testimoni.
Concludo e prendo atto del fatto che Benedetto XVI aveva effettivamente provato a riaprire la scomoda questione: nel celebre discorso alla Curia del 2005, con l’epico Motu Proprio del 2007 (data casuale? Prevedeva il decennale nel 2017 con luteranismi e fatimismi annessi e connessi?), nonché infine con i discorsi nel cinquantenario conciliare, culminati con le sospettissime sue dimissioni.
Sappiamo tutti come sia finita. E’ forse in previsione di ciò che gli altri Papi avevano taciuto? In ogni caso, mentre dalla Fase A - pienamente filo e post conciliare - passiamo alla Fase B, una e una sola speranza ‘naturaliter fundata’ ci rimane, ed è proprio il dilagare del Summorum Pontificum. Per quanti altri pontefici dovranno abdicare, per quanti teologi saranno silurati, l’onda del rito antico non può essere arrestata ora che è tornato ad essere patrimonio dei giovani cattolici, laici e sacerdoti. Verrà a breve calpestata, non c’è dubbio, ma non potranno più estinguerla e un domani sarà il germe da cui ricostruire. Così sul rito. Quanto alla teologia, la disamina testé riportata mi fa solo disperare del suo futuro prossimo ed intermedio.
di Satiricus
Riguardo alla situazione di degrado teologico vigente credo di voler sottoscrivere l’opinione espressa da padre Scalese, relativamente alla FASE B appena iniziata. Suggerisce Scalese: “Perché parlo di una seconda fase del pontificato? Perché ho l’impressione che ci troviamo di fronte a una svolta. La fase A del pontificato di Papa Bergoglio è stata caratterizzata da quella che lui ha chiamato, in Evangelii gaudium, “conversione pastorale” (n. 25). C’è stato chi ha parlato, a questo proposito, di “cambio di paradigma” (qui); noi, forse con una certa audacia, abbiamo parlato di “rivoluzione pastorale” (qui). La caratteristica di questa prima fase è stata la sottovalutazione della dottrina in favore della pastorale: la dottrina — è stato insistentemente ripetuto — non cambia; ciò che cambia è l’atteggiamento della Chiesa verso le persone. L’evento piú significativo di questa prima fase è stato, senza alcun dubbio, la pubblicazione dell’esortazione apostolica Amoris laetitia.Si ha l’impressione che il discorso dell’11 ottobre segni il passaggio a una nuova fase, nella quale, pur ribadendo che la dottrina non cambia, si pone l’accento sull’esigenza che essa progredisca”. Se Scalese ha ragione, allora io e il mio attuale articolo siamo in ritardo. Non me ne cruccio: in ogni caso non avremmo contribuito a virate di sorta.
In pratica, facendo un passo indietro, vorrei offrire un giudizio circa la genesi della FASE A. La domanda suona così: quali sarebbero gli elementi che hanno permesso a Francesco di condurre il suo programma nella Fase A? Ha Francesco forzato inusitatamente le pedine sullo scacchiere teologico ed ecclesiastico oppure no? Il mio parere è che no, Francesco non ha forzato nulla, ha solo tratto le fila - primo tra tanti e dopo tanti mistificatori - del lascito che il Vaticano Secondo ci ha consegnato.
Per spiegarmi devo citare un testo illuminante del compianto mons. Gherardini: “Più volte il Vaticano II fa riferimento alla Tradizione, manifestando la volontà di concordare con essa, sia agganciando i propri asserti alla sua matrice, sia spiegando i rapporti della Tradizione stessa con la Sacra Scrittura. ‘Teste Traditione’, ‘ex Traditione’, ‘Traditioni inhaerens’ sono, con altri, alcuni dei modi generici con cui la tradizione vien chiamata. Evidentemente il richiamo puramente verbale non è sufficiente per stabilire un effettivo legame tra Vaticano II e Tradizione. Talvolta il richiamo parrebbe meno generico solo perché vien fatto il nome del Tridentino o di altri Concili ecumenici; ma generico rimane, perché il dettato di tali Concili o non è citato, o se pur citato non esprime una pertinenza inequivocabile. Talvolta anzi rispetto alla citazione si asserisce qualcosa di diverso o addirittura qualcos’altro. Evidentemente non può esser possibile riconoscere la continuità del Vaticano II con la Tradizione di sempre in base al detto richiamo” (B. Gherardini, Quaecumque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia, ed. Lindau, Torino 2011, pp. 177-178).
Ora, il sottoscritto non è mai stato un critico del Vaticano II o dei Papi recenti, ma alla luce dei fatti contemporanei la critica si impone come unica e ultima forma di verità e dignità, seppur nell’inarrestabile decadimento. Parto dalla considerazione più vicina ai nostri tempi: ditemi quale differenza notate tra il modo di procedere del Vaticano II, laddove, come dice il Gherardini, “il dettato di tali Concili o non è citato, o se pur citato non esprime una pertinenza inequivocabile. Talvolta anzi rispetto alla citazione si asserisce qualcosa di diverso o addirittura qualcos’altro” e il modo con cui Francesco in Amoris Laetitia (e non solo in essa) attinge al Magistero precedente e lo richiama, ma senza una ‘pertinenza inequivocabile’ o anzi asserendo ‘qualcosa di diverso o addirittura qualcos’altro’ rispetto alle fonti.
A questo punto faccio un passo indietro ed oso chiedere: a che pro l’opzione dei papi post-vaticanosecondo che, avranno pure tenuto una condotta teologica quanto più tradizionale, ma non hanno avuto il coraggio di dichiarare la radice ammalata dello stile teologico contemporaneo, addirittura nelle sue espressioni conciliari?
Detto altrimenti: il marciume che emerge nell’era di Francesco, disseminato a piene mani dai suoi scherani, non è ‘di Francesco’ bensì prima ancora è del Vaticano II. Inutile lamentarsi ora col pontefice argentino, se non abbiamo avuto e non abbiamo il coraggio di denunciare ciò che di ambiguo o distorto è stato innestato nella Catholica a partire dall’Assise del ‘62.
Ciò mostra appieno quale sia la sfida raggelante che si dispiega dinanzi ai nostri occhi e quanto siamo in svantaggio: non è il problema di un Pontefice rivoluzionario, ma di una generazione ecclesiastica intera nutrita di metodi e approcci teologici avariati.
Ripeto: non sono un critico del Vaticano II e non aderisco ad alcuna associazione tradizionalista. Ciò che scrivo è quanto mi risulta essere plausibile e verace alla luce delle citazioni su riportate e dei fatti di cui tutti siamo testimoni.
Concludo e prendo atto del fatto che Benedetto XVI aveva effettivamente provato a riaprire la scomoda questione: nel celebre discorso alla Curia del 2005, con l’epico Motu Proprio del 2007 (data casuale? Prevedeva il decennale nel 2017 con luteranismi e fatimismi annessi e connessi?), nonché infine con i discorsi nel cinquantenario conciliare, culminati con le sospettissime sue dimissioni.
Sappiamo tutti come sia finita. E’ forse in previsione di ciò che gli altri Papi avevano taciuto? In ogni caso, mentre dalla Fase A - pienamente filo e post conciliare - passiamo alla Fase B, una e una sola speranza ‘naturaliter fundata’ ci rimane, ed è proprio il dilagare del Summorum Pontificum. Per quanti altri pontefici dovranno abdicare, per quanti teologi saranno silurati, l’onda del rito antico non può essere arrestata ora che è tornato ad essere patrimonio dei giovani cattolici, laici e sacerdoti. Verrà a breve calpestata, non c’è dubbio, ma non potranno più estinguerla e un domani sarà il germe da cui ricostruire. Così sul rito. Quanto alla teologia, la disamina testé riportata mi fa solo disperare del suo futuro prossimo ed intermedio.
Dopo l’adulterio e la contraccezione bisogna sdoganare l’eutanasia
di Luca Gili
Giovedì 16 novembre 2017 papa Francesco ha inviato una lettera a mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia della Vita recentemente rifondata. La letteratocca il tema della fine della vita ed è già stata salutata da alcuni organi di stampa come una apertura al “testamento biologico”, ossia alla via italiana all’eutanasia. Marco Cappato, uno dei propagandisti più agguerriti dell’eutanasia, ha salutato con favore le parole del papa. Altri organi di informazione, come Il Foglio o Famiglia cristiana, si sono precipitati a denunciare che il papa era stato frainteso.
Chi ha ragione?
A parere di chi scrive, la lettera a Paglia è interpretabile come un documento cattolico, ossia in linea con i pronunciamenti magisteriali precedenti. Ma essa non è univocamente interpretabile in questo modo: l’interpretazione eterodossa, pro-eutanasia, è del tutto compatibile con il testo firmato dal papa. Se questo vi ricorda l’esortazione apostolica Amoris Laetitia avete senz’altro buona memoria e potete farvi una idea dello stile papale. Sulla base di ciò che è accaduto dopo la pubblicazione di Amoris Laetitia si può prevedere – se la mia interpretazione è corretta - che casi di eutanasia saranno approvati “caso per caso”, dopo attento “discernimento” e che questa approvazione, benché non esplicita in documenti ufficiali, corrisponderà al pensiero di Francesco, come emergerà da qualche lettera privata di elogio a conferenze episcopali più “aperte” nel loro approccio “pastorale”. Il cardinale Burke scriverà qualche dubium, forse aiutato in questo da qualche battagliero cardinale nonagenario, mentre il cardinale Müller ci spiegherà, in una prefazione a un nuovo libro di Rocco Buttiglione, che l’eutanasia è sempre inammissibile, ma che ci sono certi casi in cui lo è e in ogni caso il documento papale è del tutto ortodosso. I vescovi polacchi continueranno, ma con sempre meno convinzione, a condannare l’eutanasia mentre i vescovi tedeschi la praticheranno, dietro lauto pagamento, in cliniche possedute dalle loro diocesi.
Fantascienza? Forse.
Ma cosa dice nella sua lettera il papa?
“È chiaro che non adottare o anche sospendere terapie sproporzionate significa evitare l’accanimento terapeutico; da un punto di vista etico, ciò è completamente diverso dall’eutanasia, che è sempre sbagliata, perché l’obiettivo dell’eutanasia è terminare la vita e causare la morte.
È superfluo aggiungere che nelle situazioni critiche e nella pratica clinica i fattori in gioco sono spesso difficili da valutare. Per stabilire se un intervento medico, appropriato dal punto di vista clinico, sia di fatto proporzionato, non è sufficiente applicare una regola generale. Ci deve essere un discernimento attento dell’oggetto morale, delle circostanze presenti e delle intenzioni di cloro che sono coinvolti.”
La prima frase riflette un insegnamento di Pio XII offerto nel Discorso ad un congresso di Anestesiologia del 24 novembre 1957.
“In esso il Pontefice ribadiva due principi etici generali. Da una parte, la ragione naturale e la morale cristiana insegnano che, in caso di malattia grave, il paziente e coloro che lo curano hanno il diritto e il dovere di mettere in atto le cure necessarie per conservare la salute e la vita. D’altra parte, tale dovere comprende generalmente solo l’utilizzo dei mezzi che, considerate tutte le circostanze, sono ordinari, che non impongono cioè un onere straordinario per il paziente o per gli altri. Un obbligo più severo sarebbe troppo pesante per la maggioranza delle persone e renderebbe troppo difficile il raggiungimento di beni più importanti. La vita, la salute e tutte le attività temporali sono subordinate ai fini spirituali. Naturalmente ciò non vieta di fare più di quanto sia strettamente obbligatorio per conservare la vita e la salute, a condizione di non venir meno al rispetto di doveri più gravi.”
Il rifiuto dell’accanimento terapeutico, nell’insegnamento di Pio XII ribadito dalla Congregazione per la dottrina della fede in almeno due pronunciamenti (Dichiarazione sull’eutanasia, 5 maggio 1980 e Risposte a quesiti della conferenza episcopale statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiale, 1 agosto 2007) è rifiuto di mezzi “sproporzionati” che vengono così descritti nel documento del 2007:
“La Dichiarazione sull’eutanasia, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 5 maggio 1980, espose la distinzione tra mezzi proporzionati e sproporzionati, e quella fra trattamenti terapeutici e cure normali dovute all’ammalato: «Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi» (parte IV). Meno ancora possono essere interrotte le cure ordinarie per i pazienti che non si trovano di fronte ad una morte imminente, come è generalmente il caso di coloro che versano nello “stato vegetativo”, per i quali sarebbe proprio l’interruzione delle cure ordinarie a causare la morte.”
Quello che è evidente è che la stessa Congregazione per la dottrina della fede ha riservato a sé stessa la facoltà di stabilire se un mezzo è proporzionato o meno, come è evidente dalla risposta del 2007 a due dubia presentati dai vescovi americani. In tale risposta, la Congregazione sanciva che idratazione e alimentazione artificiale sono mezzi proporzionati anche per i pazienti in stato vegetativo. Il documento della CDF del 1980 aveva sostenuto che l’obbligo di preservare la nostra vita, anche se ci obbliga a curarci, non ci obbliga a cure sperimentali i cui esiti potrebbero anche essere dannosi. In opportune linee guida, la CDF specificava quanto segue:
“In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell’umanità. È anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi. Ma nel prendere una decisione del genere, si dovrà tener conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi familiari, nonché del parere di medici veramente competenti; costoro potranno senza dubbio giudicare meglio di ogni altro se l’investimento di strumenti e di personale è sproporzionato ai risultati prevedibili e se le tecniche messe in opera impongono al paziente sofferenze e disagi maggiori dei benefici che se ne possono trarre. È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può, quindi, imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere ad un tipo di cura che, per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale al suicidio.”
Ora papa Francesco ci dice che, esattamente come nel caso dell’adulterio, “non è sufficiente applicare una regola generale”. Ogni caso va valutato a sé. E colui che deve stabilire se una cura è proporzionata o no è appunto il paziente. Questo, implicitamente, significa che la CDF o in generale il magistero della chiesa non ha alcun diritto di dire che idratazione e nutrizione artificiali non sono accanimento terapeutico in nessun caso. Se un paziente dovesse decidere che per lui lo sono, sarebbe ovviamente legittimo interrompere tale trattamento. Previo discernimento, ovviamente.
Sarei evidentemente molto felice di sbagliarmi e di prendere lucciole per lanterne. Ma questo discorso è a mio parere prodromo di ulteriori rivolgimenti, come abbiamo visto con Amoris Laetitia. Per smentire il mio presentimento (che è anche il presentimento di Marco Cappato e de titolista di Repubblica) la Santa Sede potrebbe senz’altro diramare una nota chiara e non ambigua in cui l’insegnamento di sempre fosse ribadito. Qualcosa mi dice che non lo faranno.
Preghiamo perché lo facciano.
Giovedì 16 novembre 2017 papa Francesco ha inviato una lettera a mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia della Vita recentemente rifondata. La letteratocca il tema della fine della vita ed è già stata salutata da alcuni organi di stampa come una apertura al “testamento biologico”, ossia alla via italiana all’eutanasia. Marco Cappato, uno dei propagandisti più agguerriti dell’eutanasia, ha salutato con favore le parole del papa. Altri organi di informazione, come Il Foglio o Famiglia cristiana, si sono precipitati a denunciare che il papa era stato frainteso.
Chi ha ragione?
A parere di chi scrive, la lettera a Paglia è interpretabile come un documento cattolico, ossia in linea con i pronunciamenti magisteriali precedenti. Ma essa non è univocamente interpretabile in questo modo: l’interpretazione eterodossa, pro-eutanasia, è del tutto compatibile con il testo firmato dal papa. Se questo vi ricorda l’esortazione apostolica Amoris Laetitia avete senz’altro buona memoria e potete farvi una idea dello stile papale. Sulla base di ciò che è accaduto dopo la pubblicazione di Amoris Laetitia si può prevedere – se la mia interpretazione è corretta - che casi di eutanasia saranno approvati “caso per caso”, dopo attento “discernimento” e che questa approvazione, benché non esplicita in documenti ufficiali, corrisponderà al pensiero di Francesco, come emergerà da qualche lettera privata di elogio a conferenze episcopali più “aperte” nel loro approccio “pastorale”. Il cardinale Burke scriverà qualche dubium, forse aiutato in questo da qualche battagliero cardinale nonagenario, mentre il cardinale Müller ci spiegherà, in una prefazione a un nuovo libro di Rocco Buttiglione, che l’eutanasia è sempre inammissibile, ma che ci sono certi casi in cui lo è e in ogni caso il documento papale è del tutto ortodosso. I vescovi polacchi continueranno, ma con sempre meno convinzione, a condannare l’eutanasia mentre i vescovi tedeschi la praticheranno, dietro lauto pagamento, in cliniche possedute dalle loro diocesi.
Fantascienza? Forse.
Ma cosa dice nella sua lettera il papa?
“È chiaro che non adottare o anche sospendere terapie sproporzionate significa evitare l’accanimento terapeutico; da un punto di vista etico, ciò è completamente diverso dall’eutanasia, che è sempre sbagliata, perché l’obiettivo dell’eutanasia è terminare la vita e causare la morte.
È superfluo aggiungere che nelle situazioni critiche e nella pratica clinica i fattori in gioco sono spesso difficili da valutare. Per stabilire se un intervento medico, appropriato dal punto di vista clinico, sia di fatto proporzionato, non è sufficiente applicare una regola generale. Ci deve essere un discernimento attento dell’oggetto morale, delle circostanze presenti e delle intenzioni di cloro che sono coinvolti.”
La prima frase riflette un insegnamento di Pio XII offerto nel Discorso ad un congresso di Anestesiologia del 24 novembre 1957.
“In esso il Pontefice ribadiva due principi etici generali. Da una parte, la ragione naturale e la morale cristiana insegnano che, in caso di malattia grave, il paziente e coloro che lo curano hanno il diritto e il dovere di mettere in atto le cure necessarie per conservare la salute e la vita. D’altra parte, tale dovere comprende generalmente solo l’utilizzo dei mezzi che, considerate tutte le circostanze, sono ordinari, che non impongono cioè un onere straordinario per il paziente o per gli altri. Un obbligo più severo sarebbe troppo pesante per la maggioranza delle persone e renderebbe troppo difficile il raggiungimento di beni più importanti. La vita, la salute e tutte le attività temporali sono subordinate ai fini spirituali. Naturalmente ciò non vieta di fare più di quanto sia strettamente obbligatorio per conservare la vita e la salute, a condizione di non venir meno al rispetto di doveri più gravi.”
Il rifiuto dell’accanimento terapeutico, nell’insegnamento di Pio XII ribadito dalla Congregazione per la dottrina della fede in almeno due pronunciamenti (Dichiarazione sull’eutanasia, 5 maggio 1980 e Risposte a quesiti della conferenza episcopale statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiale, 1 agosto 2007) è rifiuto di mezzi “sproporzionati” che vengono così descritti nel documento del 2007:
“La Dichiarazione sull’eutanasia, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 5 maggio 1980, espose la distinzione tra mezzi proporzionati e sproporzionati, e quella fra trattamenti terapeutici e cure normali dovute all’ammalato: «Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi» (parte IV). Meno ancora possono essere interrotte le cure ordinarie per i pazienti che non si trovano di fronte ad una morte imminente, come è generalmente il caso di coloro che versano nello “stato vegetativo”, per i quali sarebbe proprio l’interruzione delle cure ordinarie a causare la morte.”
Quello che è evidente è che la stessa Congregazione per la dottrina della fede ha riservato a sé stessa la facoltà di stabilire se un mezzo è proporzionato o meno, come è evidente dalla risposta del 2007 a due dubia presentati dai vescovi americani. In tale risposta, la Congregazione sanciva che idratazione e alimentazione artificiale sono mezzi proporzionati anche per i pazienti in stato vegetativo. Il documento della CDF del 1980 aveva sostenuto che l’obbligo di preservare la nostra vita, anche se ci obbliga a curarci, non ci obbliga a cure sperimentali i cui esiti potrebbero anche essere dannosi. In opportune linee guida, la CDF specificava quanto segue:
“In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell’umanità. È anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi. Ma nel prendere una decisione del genere, si dovrà tener conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi familiari, nonché del parere di medici veramente competenti; costoro potranno senza dubbio giudicare meglio di ogni altro se l’investimento di strumenti e di personale è sproporzionato ai risultati prevedibili e se le tecniche messe in opera impongono al paziente sofferenze e disagi maggiori dei benefici che se ne possono trarre. È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può, quindi, imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere ad un tipo di cura che, per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale al suicidio.”
Ora papa Francesco ci dice che, esattamente come nel caso dell’adulterio, “non è sufficiente applicare una regola generale”. Ogni caso va valutato a sé. E colui che deve stabilire se una cura è proporzionata o no è appunto il paziente. Questo, implicitamente, significa che la CDF o in generale il magistero della chiesa non ha alcun diritto di dire che idratazione e nutrizione artificiali non sono accanimento terapeutico in nessun caso. Se un paziente dovesse decidere che per lui lo sono, sarebbe ovviamente legittimo interrompere tale trattamento. Previo discernimento, ovviamente.
Sarei evidentemente molto felice di sbagliarmi e di prendere lucciole per lanterne. Ma questo discorso è a mio parere prodromo di ulteriori rivolgimenti, come abbiamo visto con Amoris Laetitia. Per smentire il mio presentimento (che è anche il presentimento di Marco Cappato e de titolista di Repubblica) la Santa Sede potrebbe senz’altro diramare una nota chiara e non ambigua in cui l’insegnamento di sempre fosse ribadito. Qualcosa mi dice che non lo faranno.
Preghiamo perché lo facciano.
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