GESU' E DIGNITA' DELLA MORTE
I fautori dell’eutanasia e i loro “colleghi moderati” del testamento biologico giocano tutti i loro argomenti sul concetto-chiave della "dignità del morire", ma che forse la morte in croce di Gesù Cristo è stata poco dignitosa?
di Francesco Lamendola
I fautori dell’eutanasia e i loro “colleghi” solo apparentemente più moderati, quelli del testamento biologico, giocano tutti i loro argomenti intorno a un concetto-chiave: quello della dignità del morire. Ciascuno, essi dicono, in presenza di gravi malattie invalidanti e incurabili, ha il diritto di scegliere per sé una morte “dignitosa”. Non dignitoso, dunque, per essi, è lasciare che la natura faccia il suo corso e che Dio chiami a sé una persona, quando ritiene che sia giunto il tempo; e, imbrogliando le carte, fanno passare per “accanimento terapeutico” anche la normale somministrazione delle cure di mantenimento, nonché l’alimentazione, l’idratazione e la ventilazione di un organismo non più capace di svolgere da sé tali funzioni, ma, per tutto il resto, ancora pienamente efficiente e funzionante (la povera Eluana Englaro, ad esempio, quando venne lasciata spegnersi per disidratazione, cosa che le provocò un arresto cardiaco) aveva ancora le mestruazioni). Per svelare il sofisma dietro cui si nascondono, come sempre fanno e sempre hanno fatto, i radicali e tutti gli altri sostenitori di un siffatto “diritto della persona” e di una tale “battaglia di civiltà”, ben decisi, in effetti, a far passare il principio che l’uomo deve essere riconosciuto come il padrone della morte (non potendo esserlo, o non altrettanto bene, pure della vita), è necessario allora fermarsi a riflettere su che cosa sia la “dignità”; solo allora si potrà valutare serenamente e obiettivamente se una certa morte si possa considerare “dignitosa” oppure no.
Va da sé che, per un cristiano, le categorie del giudizio non possono che essere profondamente diverse da quelle di una persona irreligiosa: basti pensare alla morte di Gesù Cristo sulla croce, che, al suo tempo, rappresentava, umanamente parlando, il massimo del disonore e della vergogna sociale; ma su questo punto torneremo in seguito: per ora, desideriamo ragionare nella maniera più possibile spassionata e “neutra”, non pretendendo, come è giusto che sia, che tutti quanti condividano il punto di vista autenticamente cristiano (senza contare il piccolo dettaglio che anche molti sedicenti cristiani, di fatto, ai nostri giorni non lo condividono più).
L’aggettivo “dignitoso” contraddistingue chi ha il senso della dignità e che, quindi, non si abbassa a comportamenti volgari o arroganti (Sabatini-Coletti); e la “dignità” è la considerazione in cui l’uomo tiene se stesso e che si traduce in un comportamento responsabile, misurato, equilibrato (idem). Prendiamo buona nota di queste definizioni e, in particolare, del fatto che la dignità è la considerazione in cui l’uomo tiene se stesso, dunque è innanzitutto un giudizio dell’uomo su se stesso, e uno stile di vita adeguato a quel giudizio, prima di essere un giudizio che gli altri uomini esprimono a proposito di una certa persona: pertanto, la dignità non può essere data o tolta a qualcuno dall’esterno, come gli si dà o gli si toglie un diploma, una patente, un certificato, perché nessuno dispone di un effettivo potere sulla dignità altrui. Per esempio, una persona non perde la sua dignità se gli altri la sottopongono ad atti offensivi, se la insultano o le sputano addosso, e nemmeno se la picchiano, la torturano o perfino se la uccidono, a meno che lei stessa non si abbassi a comportamenti poco dignitosi, per esempio supplicando di essere risparmiata e mostrando viltà o, comunque, facendo vedere che antepone la propria tranquillità o la propria salvezza a qualsiasi altra cosa, compresa appunto la sua dignità. Una persona, dunque, se è dignitosa, lo è perché possiede il senso della propria dignità, ossia del rispetto che lei per prima deve a se stessa: se non si abbandona a comportamenti volgari, o arroganti, eccetera, non perde la propria dignità, indipendentemente dalle circostanze esterne.
È pur vero che, in una certa misura, peraltro secondaria, nella dignità di una persona entra, e sia pure di riflesso, il giudizio altrui: vale a dire che la dignità di una persona tende a imporsi comunque, ma, se gli altri sono delle persone particolarmente ignoranti, volgari, inconsapevoli, cosa che si verifica facilmente quando si tratta di una folla, perché nella folla emergono gli istinti peggiori degli esseri umani, potrebbero anche non riconoscerla; potrebbero anche vederla là dove non c’è, e non vederla dove, invece, c’è. Tuttavia, ripetiamo, la dignità, quando è realmente presente in una persona, quasi sempre s’impone agli altri, anche loro malgrado. Il suicidio collettivo di un gruppo di trecento gladiatori barbari privò gli spettatori romani dell’atteso divertimento e li deluse fortemente, ma nel loro intimo, crediamo, perfino quei bruti dovettero ammirare la forza d’animo di quegli uomini che, sapendo di dover morire, preferirono farlo da uomini liberi piuttosto che da schiavi, beffando la sadica aspettativa della folla. Resta il fatto principale: che la dignità è una caratteristica della persona di cui lei stessa è giudice ed esecutrice; e che ciò che gli altri, o le circostanze esteriori, possono fare su di lei, non è sufficiente, di per sé, a privarla di essa. Fra le circostanze esteriori vi sono, evidentemente, la malattia e la vecchiaia, ma, in generale, vi è la sofferenza fisica, o, comunque, quella sofferenza – fisica o morale, o sia fisica che morale – che espone la persona agli sguardi altrui, e che la espone in maniera tale che gli altri possono vedere di lei anche le parti e gli atteggiamenti più intimi, sena che lei possa nasconderli. Una persona condannata alla morte di croce, per esempio, veniva spogliata quasi interamente, escluso un panno intorno ai fianchi, a mo’ di perizoma; e così, nuda sotto gli sguardi di tutti, veniva innalzata sul patibolo, in modo che non solo il suo volto, ma tutto il suo corpo, fossero ben visibili in ogni particolare e per ogni istante della lunga e dolorosissima agonia: la morte, infatti, sopraggiungeva per soffocamento, allorché il condannato non aveva più la forza di sostenere il tronco mediante le braccia, e il petto, compresso, impediva ai polmoni d’inspirare l’ossigeno. Ma ciò avveniva dopo un’agonia che durava moltissime ore, a volte dei giorni interi. La morte di Gesù, peraltro, giunse relativamente in fretta – tanto che Pilato ne rimase stupito, quando gliela riferirono -, perché, contrariamente alla consuetudine, Egli era stato flagellato prima di subire la crocifissione: anomalia che si spiega con il tentativo, da parte del procuratore romano, d’impietosire la folla, mostrandole il corpo di Gesù sfigurato dalle frustate e con la fronte coronata di spine, nella speranza che la folla si accontentasse di tale severa punizione e non insistesse con la richiesta di esecuzione capitale. Si consideri, infatti, che la flagellazione era già, di per sé, un supplizio crudelissimo, e che, non di rado, il suppliziato non sopravviveva alla razione stabilita di vergate; i carnefici, infatti, non si servivano di normali fruste ma di flagelli, ossia di fruste formate da strisce di cuoio armate con dei pallini di piombo, per cui ogni singola scudisciata penetrava in profondità nella carne e, prima che il flagello venisse ritirato, interi brandelli di tessuto venivano strappati via, e la perdita di sangue era notevolissima: non di rado il cuore cedeva all’intensità di una sofferenza così intensa e prolungata, e il disgraziato moriva d’infarto.
E adesso parliamo del cancro alla prostata del regista Mario Monicelli, che il 29 novembre 2010 scelse di gettarsi dalla finestra della sua stanza d’ospedale, situata al quinto piano, non avendo potuto, in un Paese così incivile come l’Italia, ottenere la sospensione delle cure mediche e la dolce morte invocata, ed ora, infine, ottenuta, dai fautori dell’autodeterminazione della propria morte (ma anche di quella dei figli minorenni o dei parenti stretti incapaci di esprimere la propria volontà). Il suo suicidio, infatti, all’età di novantacinque anni, non fu il risultato di un gesto improvviso e imprevedibile, ma di una lucida scelta maturata in piena consapevolezza: fu quindi, a tutti gli effetti, un suicidio volontario; e come tale venne salutato, fin da subito, dai suoi ammiratori e da tutti i paladini dell’eutanasia, che ne fecero quasi un simbolo di libertà e, soprattutto, di “dignità”. Togliendosi la vita, e sia pure in quel modo drammatico e spettacolare, egli, secondo loro, aveva saputo salvaguardare la propria “dignità”, che l’accettazione del decorso naturale della malattia, con le relative sofferenze, avrebbe irrimediabilmente compromesso. Oppure parliamo di Piergiorgio Welby, che, affetto da distrofia muscolare progressiva, e costretto a vivere per mezzo di un respiratore, chiese per anni che l’apparecchio gli venisse staccato e infine, il 20 dicembre 2006, fu “accontentato” da un medico e si spense, dopo aver ascoltato musica di Bob Dylan, circondato dalla moglie, dalla sorella e dai compagni radicali dell’Associazione Luca Coscioni: Pannella, Cappato, Bernardini; il medico venne poi prosciolto, nonostante si sia trattato palesemente di un caso di eutanasia, pratica allora proibita dalla legge, e dopo che il Consiglio Superiore della Sanità, appositamente interpellato dal ministro della Salute, aveva negato che l’uso del respiratore fosse assimilabile a una forma di accanimento terapeutico. In entrambi i casi si è trattato di persone affette da gravi patologie e prive di speranza di guarigione; e in entrambi i casi, e in molti altri dello stesso genere, è stato invocato il diritto della persona a poter “morire con dignità”: per cui sorge la domanda se sarebbe stata una morte poco dignitosa, per Monicelli o per Welby, quella prodotta dal naturale decorso delle loro rispettive patologie. Eppure, abbiamo visto che la dignità di una persona non dipende dalla situazione in cui viene a trovarsi, né dal giudizio degli altri; se così non fosse, dovremmo necessariamente concludere che la morte di Gesù Cristo, oltre che dolorosa e umiliante, fu anche priva di qualsiasi dignità.
La morte in croce di Gesù è stata poco dignitosa?
di Francesco Lamendola
continua su:
http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/cultura-e-filosofia/teologia-per-un-nuovo-umanesimo/3609-gesu-e-dignita-della-morte
"Medici, per la vita si deve andare controcorrente"
«A questo punto l’elemento più grave di questa legge è la mancanza di qualunque riferimento all’obiezione di coscienza». Risponde così monsignor Francesco Cavina, vescovo di Carpi, sollecitato da La Nuova BQ sulla recente approvazione della legge sulle Dat.
Monsignore, cosa pensa di questa norma approvata dal Parlamento?
«Condivido quanto dichiarato dal cardinale Angelo Bagnasco, non mi sembra proprio che possa ritenersi un segno di civiltà».
«Condivido quanto dichiarato dal cardinale Angelo Bagnasco, non mi sembra proprio che possa ritenersi un segno di civiltà».
Per quale motivo?
«Per diverse ragioni, ne cito una. Questa legge finisce per ridurre idratazione e alimentazione come delle terapie e, quindi, come tali si può arrivare a sospenderle. E qui si apre l’ulteriore gravissimo vulnus di questa legge: la mancanza di ogni riferimento all’obiezione di coscienza».
«Per diverse ragioni, ne cito una. Questa legge finisce per ridurre idratazione e alimentazione come delle terapie e, quindi, come tali si può arrivare a sospenderle. E qui si apre l’ulteriore gravissimo vulnus di questa legge: la mancanza di ogni riferimento all’obiezione di coscienza».
Cosa può fare un medico cattolico, ma anche un non cattolico, che si trovi in una situazione che lo mette di fronte ad un problema di coscienza di questo tipo?
«Come ha detto l’arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, occorre saper testimoniare andando controcorrente. Qui si tratta di dover commettere atti contro la vita che non sono mai negoziabili. Perciò non c’è altra via all’obiezione di coscienza, come ha sottolineato don Carmine Arice, superiore generale del Cottolengo».
«Come ha detto l’arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, occorre saper testimoniare andando controcorrente. Qui si tratta di dover commettere atti contro la vita che non sono mai negoziabili. Perciò non c’è altra via all’obiezione di coscienza, come ha sottolineato don Carmine Arice, superiore generale del Cottolengo».
Mancando il riferimento all’obiezione di coscienza questa legge sembra aver dimenticato uno dei capisaldi dei tanto decantati diritti umani.
«Certamente c’è una strana contraddizione. Da una parte si dice di voler difendere i diritti delle persone sofferenti, mentre dall’altra si omette un caposaldo della dichiarazione universale dei diritti umani quale è, appunto, il riferimento all’obiezione di coscienza. E’ una schizofrenia che purtroppo vediamo sempre più spesso, soprattutto su certi cosiddetti “nuovi diritti” per cui si fanno grandi battaglie civili, ma poi si riduce lo spazio della libertà di coscienza. Un cortocircuito che dovrebbe far riflettere tutti».
«Certamente c’è una strana contraddizione. Da una parte si dice di voler difendere i diritti delle persone sofferenti, mentre dall’altra si omette un caposaldo della dichiarazione universale dei diritti umani quale è, appunto, il riferimento all’obiezione di coscienza. E’ una schizofrenia che purtroppo vediamo sempre più spesso, soprattutto su certi cosiddetti “nuovi diritti” per cui si fanno grandi battaglie civili, ma poi si riduce lo spazio della libertà di coscienza. Un cortocircuito che dovrebbe far riflettere tutti».
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