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ALDO MARIA VALLI: COME LA CHIESA FINI'
Qualche osservazione sull’ultimo ‘pamphlet’ fantasioso (ma forse non troppo) e assai sbarazzino del vaticanista del TG Uno. Un ‘librino’ pubblicato, come il precedente “266. Jorge Mario Bergoglio Franciscus P.P., da ‘liberilibri’ di Macerata.
Il destino (forse) si chiamerà Solovki, arcipelago del Mar Bianco, a 160 chilometri dal Circolo polare artico, 250 dal confine con la Finlandia, 700 da San Pietroburgo, 1200 da Mosca. Da oltre quarant’anni le isole sono riserva naturale, da oltre venti inserite tra i Patrimoni dell’umanità “quali esempio di insediamento monastico nell’inospitale ambiente dell’Europa settentrionale che illustra ammirevolmente la fede, la tenacità e l’iniziativa delle comunità religiose del tardo Medioevo”.
E però tali isole negli Anni Venti sono state la sede del primo gulag sovietico, tanto da essere ispiratrici del famoso “Arcipelago Gulag” di Alexander Solgenitsin (NdR: negli Anni Settanta ne avevamo distribuito la fotocopia di alcuni capitoli agli studenti della Magistrale di Locarno, nonché ai giovani liberali del Bellinzonese).
Il destino (forse) si chiamerà Solovki, sempre che quelle isole ridivengano simbolo della repressione del dissenso dal regime vigente. Ma destino per chi? Almeno secondo l’ultimo pamphlet – versione fantasy, ma non troppo – di Aldo Maria Valli per quei cristiani coraggiosi come il ‘Cantore Cieco’ che tenteranno di opporsi all’imposizione al mondo (finalmente unificato) del regime del Pensiero Unico instaurato da Coloro che Amano. Un regime cui colpevolmente si è consegnata la Chiesa già cattolica e ora trasformata in Nuova Chiesa Antidogmatica, connotata dal ‘Superdogma del Dialogo’. Alle Solovki potrebbe finire metaforicamente anche lo stesso autore, vaticanista del TG 1 e amico, perché l’ironia pungente non è propriamente amata da chi non tollera facilmente – se non talvolta a parole – un dissenso che riesca a essere anche incisivo.
Certo, dopo il pensoso e brillante ‘266. Jorge Mario Bergoglio Franciscus P.P.’ (pubblicato sempre da “liberilibri” di Macerata e da noi recensito un anno fa), Valli si è lanciato in un’altra avventura – ancora più spericolata - immaginando lucidamente – attraverso la narrazione di un misterioso ‘Cantore cieco’ (un Omero clandestinamente cristiano) - le conseguenze disastrose derivate da quei primi germi di dissoluzione dottrinale e di tabula rasa identitaria prodotti per l’autore dal pontificato di papa Francesco. Un gesuita argentino che, annota il ‘Cantore Cieco’ a molti anni di distanza, “fu così amato dal mondo, così osannato, così stimato, che la Chiesa dell’epoca, sotto il pontificato del successore, papa Francesco II, stabilì che da allora in avanti tutti i pontefici sarebbero stati scelti tra cardinali sudamericani e tutti si sarebbero chiamati Francesco”. Una decisione solennizzata con una bolla papale, la Pontificis nomine, che (osserva con ironia feroce il ‘Cantore Cieco’) “onde tener conto della necessaria sinodalità e della parresia, fu sottoscritta senza previa discussione, per acclamazione, dall’intero collegio cardinalizio”. Lo Spirito Santo insomma fu commissariato.
Per chi segue un po’ da vicino e con occhio non turiferario le vicende della Chiesa sotto il pontificato di Francesco, il cupio dissolvi – un passo dopo l’altro -di Nostra Santa Romana Chiesa come immaginato dalla fantasia di Valli appare un’eventualità da tenere purtroppo in qualche considerazione. C’è chi rileva che l’autore è troppo pessimista, altri lo considerano una sorta di intellettuale barocco un po’ snob per il quale “è del poeta il fin la meraviglia”, altri ancora lo vedono immerso in una grave crisi di identità… per noi invece le inquietudini di Valli – frutto di una grande sofferenza cattolica esistenziale perché l’autore ama appassionatamente la Chiesa – sono sincere e il collega non riesce più a trattenerle nell’intimo, dando loro perciò concretezza scritta con uno stile misto di levità apparente e incisività sostanziale.
Un capitolo di “Come la Chiesa finì” (ma è più un ‘sembrare’ che una realtà, considerato come bastino poche fiammelle accese perché la Chiesa continui a vivere) elenca anche le voci più importanti del “Vocabolario della Chiesa Accogliente”, edito da “La Civiltà cordiale” ai tempi di Francesco VII. Quale ‘stuzzichino’ per chi deciderà di leggere il libro ne citiamo cinque, sicuramente non ‘innocenti’ se pensiamo alla nostra contemporaneità.
La prima è accoglienza: “Tutti e sempre. Verbo altamente consigliato. Strategico per farsi accettare nel mondo laicista e ottenere facoltà di parola. Se una persona accoglie, è un cattolico aggiornato. Usare sempre in senso generico, mai specificare che cosa voglia dire precisamente. Utile al pari di accompagnare”.
La seconda è apertura: “Parola cruciale per il cattolico aggiornato. Consigliabile introdurla dappertutto. Aprire le porte fa sempre bene. Idem per le finestre. Specie per stroncare con misericordia la chiusura dei farisei. L’apertura è necessaria nel processo di discernimento (…).
La terza è popolo: “Ha sempre ragione, è praticamente santo. Parola da utilizzare a profusione. Il popolo non può sbagliare. Può solo essere oppresso e sfruttato. I movimenti che lo rappresentano vanno accolti a braccia aperti ed elogiati. I capipopolo sono simpatici. Se sostengono idee assurde e dicono banalità, non si deve farci caso. Ancora meno se si comportano da tiranni. Sottolineare invece la bellezza dei loro abiti colorati”.
La quarta è registratore: “Come affermò autorevolmente il generale dei gesuiti nel 2017 (NdR: vedi in www.rossoporpora.org la nostra “Intervista a padre Sosa. Parole di Gesù? Da contestualizzare”, 17 febbraio 2017) ai tempi di Gesù non c’era. Quindi non possiamo essere sicuri di ciò che ha veramente detto Nostro Signore. Quindi la guida non è il Vangelo, ma il discernimento”.
La quinta è segni (dei tempi): “Interpretarli, nel cammino di discernimento. Ma l’espressione migliore è ‘assumerli responsabilmente’. Obiettivo: scardinare la dottrina e aprire le porte alla morale della situazione”.
Nel ‘pamphlet’ fantasioso ma non troppo di Valli il lettore troverà molto altro. C’è chi si sentirà in qualche modo confortato nelle proprie inquietudini, chi riuscirà perfino a sorridere (amaro), chi non si troverà d’accordo nel prefigurare un inarrestabile declino della Chiesa. Anche chi si arrabbierà sinceramente o istituzionalmente (per difendere la Casa e con la Casa se stesso). In ogni caso “Come la Chiesa finì” costringerà tutti i lettori a porsi almeno qualche domanda: anche i più granitici, curvaioli, turiferari non potranno evitarlo (sempre che lo vogliano leggere, pur clandestinamente). E sarebbe già un bel successo per l’autore, che così potrebbe essere trasferito alle Solovki, ma con un morale alto.
P.S. A chi ci legge auguri per un 2018 ricco di soddisfazioni, prosperità, salute e piena consapevolezza di combattere la ‘buona battaglia’.
ALDO MARIA VALLI: COME LA CHIESA FINI’ - di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org– 30 dicembre 2017
Come la Chiesa finì
Qui vi propongo due capitoli: Come fu che la Chiesa riabilitò Marcione e Come fu che la Chiesa giudicò opportuno non giudicare.
Come fu che la Chiesa riabilitò Marcione
Caro lettore, mi accingo a raccontarti come fu che la Chiesa decise di riabilitare Marcione, un protagonista del pensiero cristiano del II secolo dopo Cristo. Credo che per te si tratti di vicende davvero remotissime, per cui mi permetto una breve illustrazione riepilogativa.
Originario di Sinope, sul Mar Nero, e vissuto a Roma, dove morì attorno all’anno 160, Marcione fu vescovo e teologo, fondatore di una sua Chiesa nata da un’eresia. Egli infatti sosteneva che, vista la radicale diversità tra Antico Testamento e Nuovo Testamento, fra i due testi ci fosse un’insanabile contraddizione: il Dio dell’Antico Testamento non poteva essere lo stesso del Nuovo, il padre di Gesù. Colpito dalla straordinaria novità di Cristo, Marcione vide nell’Antico Testamento non la premessa dell’avvento di Gesù, ma un passato totalmente da superare. Non a caso scrisse un’opera intitolata Antitesi, che pare si aprisse con esclamazioni di gioia e di stupore per il Nuovo Testamento, che a suo giudizio non si poteva paragonare a nulla.
Chi ha studiato Marcione afferma che nella sua opera la parola più ricorrente fosse “nuovo”. La novità del Vangelo di Gesù gli apparve come qualcosa di sconvolgente e di talmente grande da giustificare una netta cesura con il passato: Cristo come il Dio nuovo, l’uomo nuovo, il portatore di un regno nuovo, di nuova dottrina, di nuove virtù. Da parte sua dunque ci fu un rifiuto dell’idea di continuità e di compimento. Non è vero, sostenne, che il piano salvifico è unico e che Gesù lo ha realizzato a partire da tutto ciò che la Bibbia narra fin dall’inizio dei tempi. Per Marcione dietro la rivelazione delle Scritture non c’è un unico Dio, ma ci sono due visioni opposte del divino: l’una appartenente all’Antico Testamento, l’altra al Nuovo. Il primo Dio, per così dire, fu il creatore, ma poi ce ne fu un secondo, superiore al primo perché misericordioso e salvatore.
Ecco che cosa rende il secondo Dio così nuovo: la sua misericordia, la sua bontà, il suo amore. Mentre il Dio dell’Antico Testamento è duro, perfino crudele e vendicativo, il Dio del Nuovo Testamento è un padre amorevole, disposto al perdono. Mentre il primo Dio guarda alla legge, il secondo guarda all’uomo. Abbiamo così un dualismo insanabile: da un lato la creazione, dall’altro la salvezza; da un lato la giustizia, dall’altro la misericordia.
Marcione ne era così convinto che arrivò a mutilare il Nuovo Testamento: siccome riteneva inaccettabili quelle parti che sostenevano un legame con l’Antico Testamento e che esaltavano l’umanità di Gesù (non degne di un Dio), semplicemente le eliminò, giudicandole non ispirate.
Ora è facile capire perché la Chiesa cattolica lo ritenne eretico. Tuttavia, molti secoli dopo, un papa decise di riabilitarlo, e il papa in questione fu Francesco XVII, il colombiano Gustavo Gonzalo Sergio Paulo Ángel Guzmán. Il quale, dopo aver chiesto il solito parere alla solita commissione di cardinali (questa volta furono quarantaquattro, il cosiddetto C 44), promulgò la Sic et simpliciter, nella quale, proprio sulla base della riabilitazione del pensiero marcioniano, stabilì quanto segue:
Dio non castiga nessuno, altrimenti sarebbe un violento e un crudele. Il Dio che castiga è un Dio pagano o al massimo è il Dio dell’Antico Testamento, ma non il Dio cristiano.
Dio dà a ogni creatura il permesso di peccare liberamente e la certezza dell’impunità. I peccati devono essere depenalizzati.
Il peccato originale non è un fatto storico, ma un mito. Pertanto Dio, a seguito di questo peccato, non ha castigato l’umanità e tale peccato non ha generato in essa una tendenza a peccare.
Al contrario, l’umanità è buona. Tutti tendono verso Dio e sono in grazia di Dio, anche gli atei. Nessuno va all’inferno, perché Dio perdona tutti.
I peccatori non devono essere puniti, ma al più commiserati (misericordismo).
Non esiste una legge morale oggettiva, immutabile e universale, ma ognuno è libero di seguire la propria coscienza.
I dogmi mutano a seconda delle umane esigenze.
Anche la legge morale è necessariamente mutevole.
Non ci dobbiamo mai difendere dal nemico o dall’oppressore con l’uso della forza: meglio lasciare che ci renda suoi schiavi.
Non esiste un uso giusto della forza. Dio non può volere l’uso della forza, sarebbe un Dio violento. Difendersi dall’aggressore è peccato, violenza e ingiustizia.
Tutte le vertenze si devono risolvere con il dialogo, anche se ci si trova in condizione di oggettiva sudditanza.
Cristo non è l’unico Salvatore dell’umanità, ma ci si può salvare anche appartenendo ad altre religioni.
Il cattolico non deve tentare di convertire al cattolicesimo i non-cattolici; questo è proselitismo, sempre riprovevole, e mancanza di rispetto per il diverso.
È da respingere fermamente l’idea che Cristo abbia compiuto un sacrificio espiatorio o riparatore, tale da aver dato al Padre un compenso per i nostri peccati. Dio perdona gratuitamente, senza bisogno di alcun sacrificio.
Quindi la celebrazione della messa è in larga misura idolatria e superstizione. Da tollerare solo a conforto dei fedeli meno responsabili e avvertiti.
Per eliminare le ingiustizie non sono necessarie la grazia divina o una fede religiosa: occorrono piuttosto la buona volontà e una buona politica mondiale.
Per essere virtuosi e salvarsi non è necessario appartenere alla Chiesa, ma basta essere onesti e appartenere al genere umano. Non esistono virtù soprannaturali, ma solo quelle naturali.
Puoi ben capire, caro lettore, che la Sic et simpliciter ebbe un impatto dirompente sulla fede, sulla dottrina e sulla vita stessa della Chiesa. Da quel momento l’avvicinamento allo spirito del mondo subì un’accelerazione senza precedenti.
Come fu che la Chiesa giudicò opportuno non giudicare
Caro lettore, ti voglio ora narrare di come la Chiesa arrivò a imporre ai fedeli di non giudicare, non esprimere valutazioni sulla realtà e sulle persone.
L’iniziativa fu di papa Francesco XVIII, un brasiliano, Neimar Marcelo David Thiago Firmino, che chiamò a raccolta i cardinali in un concistoro straordinario, per comunicare loro la grande decisione: «Basta con i giudizi sul mondo, basta con le parole critiche. Noi vogliamo essere in sintonia con il mondo, amichevoli verso tutti. Solo così potremo avere un dialogo con la cultura nella quale viviamo. Altrimenti saremo visti sempre come corpi estranei. Questa separazione deve finire!»
Papa Francesco XVIII aveva in animo di chiedere ai cardinali di redigere un apposito documento sul tema, così da poter disporre di una base sulla quale lavorare in vista di un’enciclica. I signori cardinali, di comune accordo, fecero però sapere al pontefice che si sarebbero presi un anno sabbatico, e così quella volta non ci fu alcuna commissione.
Papa Firmino tuttavia non si perse d’animo. Chiuso nel suo ufficio, trascorse l’estate impegnato nella scrittura, e a settembre ecco l’enciclica: la De gustibus, in cui la Chiesa prometteva che non avrebbe mai più espresso un solo giudizio sul mondo, perché fede vuol dire preghiera e non giudizio, fede vuol dire accoglienza e non frattura, fede vuol dire condivisione e non separazione.
Poiché un noto vaticanista uzbeko, nel suo blog, fece notare che parlare di accoglienza e condivisione era già, in ogni caso, un giudizio, e che dunque il papa si contraddiceva, il Vaticano emise una nota, tramite la sala stampa, nella quale sosteneva che ogni valutazione era la benvenuta: il papa esprimeva tutta la sua misericordia verso il vaticanista e pregava per lui. Dopo di che, di quel giornalista si perse ogni traccia.
La De gustibus venne accolta con grande entusiasmo dall’opinione pubblica. «Finalmente!» recitavano i titoli dei giornali progressisti. «Ecco la Chiesa che ci piace!», «Ecco la Chiesa dal volto umano!», «Grazie papa Firmino!».
I principali commentatori osservarono che con il documento papale si metteva fine per sempre all’epoca dell’Inquisizione e che d’ora innanzi il dialogo tra la cultura moderna e la Chiesa sarebbe stato molto più agevole, aprendo prospettive di grande crescita per tutti, all’insegna della disponibilità reciproca e della collaborazione.
I problemi da risolvere, secondo questi commentatori, erano numerosi, a partire dal raffreddamento globale (dopo la fase del riscaldamento, si era entrati in una di segno opposto) e dall’estinzione di alcune specie animali, per cui il contributo della Chiesa – come sottolinearono le associazioni ecologiche – sarebbe stato molto utile.
Quei pochi fedeli che, stupefatti e disorientati, ricordavano di aver letto da qualche parte che Gesù, pur essendo misericordioso, mai aveva rinunciato a esprimere un giudizio sulla realtà del suo tempo e sulle persone che incontrava, e sempre aveva esortato alla conversione del cuore per aderire a Dio, si sentirono ancora più soli e abbandonati di quanto già non fossero. Alcuni cercarono anche di reagire, riunendosi in gruppi e associazioni di resistenza. Il papa, prontamente, fece sapere che li salutava con tanto affetto e misericordia. Dopo di che, di quei gruppi si perse ogni traccia.
«Se manca un giudizio» si leggeva nell’enciclica «noi non abbiamo nulla da proporre al mondo, e questo è proprio ciò che vogliamo. Noi non dobbiamo proporre messaggi. La fede non è un giudizio, ma una via di consolazione. Noi non dobbiamo selezionare, decidendo che cosa è bene e che cosa è male. Il cristiano non seleziona, il cristiano accoglie. Occorre uscire da un’antica visione di sapore inequivocabilmente manicheo. La Chiesa è a disposizione di tutti e, non giudicando, tutti accoglie, così che ognuno possa trovare in essa una parola di accompagnamento, di adesione, di simpatia. L’uomo di fede non giudica. L’uomo di fede vive! Vive con gli altri, in mezzo agli altri! L’uomo di fede accompagna e sostiene».
Firmino suggerì ai teologi aggiornati di non soffermarsi sull’idea di salvezza. Era solito dire: «Si salva chi ama, non chi giudica. Il nostro parlare sia tutto indirizzato all’amore.» Idea che si collegava alla visione dialogante che egli aveva del rapporto con le altre fedi. «Il cattolico» spiegava «non può sostenere che la sua fede è la sola autentica. Questa è un’assurdità che impedirebbe ogni dialogo. Noi invece vogliamo dialogare, non respingere. Vogliamo costruire ponti, non muri».
In un famoso discorso rivolto all’Università del Mondo Unito, a Parigi, papa Firmino sostenne che la domanda circa la verità della religione doveva considerarsi superata. «Solo l’intollerante e l’ipocrita» spiegò «si pongono tale questione. Noi, che non giudichiamo, ci impegniamo a far sì che la nostra fede, nel desiderio di andare incontro a tutti, eviti di trasformarsi in cultura. Se lo facesse, inevitabilmente diventerebbe fede giudicante. La nostra sia invece fede accogliente!»
Quel giorno gli applausi scrosciarono a lungo e papa Firmino sentì di aver dato un contributo determinante alla svolta dialogante della Chiesa.
Ma non si fermò lì. Desideroso di rendere la Chiesa ancora più vicina al mondo, più misericordiosa e accogliente, il papa convocò ad Assisi tutte le religioni del mondo e propose ai fratelli e alle sorelle delle altre fedi di pregare per la pace. «Un nostro antico predecessore» disse «si rese già protagonista di un gesto simile a quello che noi oggi siamo chiamati a rinnovare. Ma in quel tempo lontano non fu possibile un’autentica preghiera comune. Ogni fede pregò per conto suo, così da evitare, si disse all’epoca, sovrapposizioni e confusioni. Invece noi oggi vogliamo che la nostra unità sia indiscutibile. Per questo preghiamo tutti insieme, tenendoci per mano, e preghiamo il nostro Dio unico. Nessuno abbia la pretesa di giustificare una presunta superiorità sull’altro. Le fedi o sono tutte uguali o non sono fedi! La vera preghiera è quella che avviene nell’unità visibile». Dopo di che si svolse il rito della richiesta di pace al Dio unico, secondo uno schema piuttosto elaborato messo a punto dall’ufficio liturgico vaticano in collaborazione con i responsabili di tutte le altre religioni.
La giornata fu memorabile e ancora oggi se ne parla come di un momento di autentico cambiamento. Quella volta, riferirono i commentatori, il cammino ecumenico e interreligioso fece un passo avanti davvero storico.
Aggiungo che ancora oggi ad Assisi si può ammirare un ologramma a ricordo di quella preghiera. Attivato su richiesta, rappresenta Dio così come ogni fedele lo vuole vedere, in modo tale, è spiegato in una targa lì accanto, da non offendere nessuno e rispettare tutti.
Narrano le cronache che un giorno, proprio ad Assisi, un fraticello, coperto soltanto dal saio francescano, si pose davanti all’ologramma e gridò: «Vattene Satana! Via di qui Signore del male!» Alcune guardie intervennero e lo accompagnarono nel locale Centro di Ripensamento, dove provvidero a riprogrammarlo. Pare che oggi sia uno dei più fervidi sostenitori del politeismo accogliente e che addirittura tenga conferenze sul tema «È quella cattolica la vera fede? Fine di una pretesa insensata».
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