LA PIÙ GRANDE PRIGIONE DELLA TERRA
di Ilan Pappé
di Ilan Pappé
La Guerra dei Sei Giorni del 1967 tra Israele e gli eserciti arabi, ha dato origine all’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.
Israele si è rivenduto la notizia della guerra come se fosse stata casuale, ma nuovi documenti storici e verbali trovati negli archivi dimostrano che Israele era ben preparata a questa.
Nel 1963, dei personaggi delle amministrazioni israeliane militari, legali e civili si sono iscritti a un corso all’Università Ebraica di Gerusalemme, per programmare un piano completo per occuparsi dei territori che Israele avrebbe occupato 4 anni dopo e per gestire un milione e mezzo di palestinesi che ci vivevano.
Israele si è rivenduto la notizia della guerra come se fosse stata casuale, ma nuovi documenti storici e verbali trovati negli archivi dimostrano che Israele era ben preparata a questa.
Nel 1963, dei personaggi delle amministrazioni israeliane militari, legali e civili si sono iscritti a un corso all’Università Ebraica di Gerusalemme, per programmare un piano completo per occuparsi dei territori che Israele avrebbe occupato 4 anni dopo e per gestire un milione e mezzo di palestinesi che ci vivevano.
La motivazione era stata il fallimento del modo in cui Israele si occupava dei palestinesi a Gaza nella sua occupazione di breve durata nel periodo della crisi di Suez del 1956.
Nel maggio 1967, mesi prima della guerra, i governatori militari israeliani hanno ricevuto delle scatole contenenti istruzioni legali e militari sul modo di controllare le città e i villaggi palestinesi. Israele avrebbe continuato a trasformare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in mega prigioni sotto il controllo e la sorveglianza dei militari.
Nel maggio 1967, mesi prima della guerra, i governatori militari israeliani hanno ricevuto delle scatole contenenti istruzioni legali e militari sul modo di controllare le città e i villaggi palestinesi. Israele avrebbe continuato a trasformare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in mega prigioni sotto il controllo e la sorveglianza dei militari.
Gli insediamenti, i posti di controllo e le punizioni collettive facevano parte di questo piano, come dimostra lo storico israeliano Ilan Pappé nel libro: The Biggest Prison on Earth: A History of the Occupied Territories (La più grande prigione della terra: la storia dei territori occupati) che è un resoconto approfondito dell’occupazione israeliana.
Pubblicato nel 50° anniversario della guerra del 1967, il libro è stato selezionato per il premio letterario denominato Palestine Book Award 2017, organizzato da Middle East Monitor, che sarà proclamato a Londra il 24 novembre. Pappe ha parlato con Middle East Eye del libro di che cosa rivela.
Pubblicato nel 50° anniversario della guerra del 1967, il libro è stato selezionato per il premio letterario denominato Palestine Book Award 2017, organizzato da Middle East Monitor, che sarà proclamato a Londra il 24 novembre. Pappe ha parlato con Middle East Eye del libro di che cosa rivela.
Middle East Eye: In che modo questo libro sviluppa il suo precedente: La pulizia etnica della Palestina per la guerra del 1948?
Ilan Pappé:
IP: E’ certamente un seguito del mio precedente libro The Ethnic Cleansing (La pulizia etnica) che descrive gli avvenimenti del 1948. Considero l’intero progetto del Sionismo come una struttura, non soltanto come un solo evento. Una struttura di colonialismo dei colonizzatori con la quale un movimento di coloni colonizza una patria. Fino a quando la colonizzazione non è completa e la popolazione indigena si oppone per mezzo di un movimento nazionale di liberazione, ognuno di tali periodi che considero, è soltanto una fase all’interno della stessa struttura.
Anche se The Biggest Prison è un libro di storia, siamo ancora nell’ambito dello stesso capitolo storico. Non è ancora finito. E quindi, con questa idea in mente, ci sarebbe probabilmente un terzo libro, in seguito, che considera gli avvenimenti del 21° secolo e come la stessa ideologia di pulizia etnica e di espropriazione si sta attuando nella nuova era e come i Palestinesi vi oppongono resistenza.
Ilan Pappé:
IP: E’ certamente un seguito del mio precedente libro The Ethnic Cleansing (La pulizia etnica) che descrive gli avvenimenti del 1948. Considero l’intero progetto del Sionismo come una struttura, non soltanto come un solo evento. Una struttura di colonialismo dei colonizzatori con la quale un movimento di coloni colonizza una patria. Fino a quando la colonizzazione non è completa e la popolazione indigena si oppone per mezzo di un movimento nazionale di liberazione, ognuno di tali periodi che considero, è soltanto una fase all’interno della stessa struttura.
Anche se The Biggest Prison è un libro di storia, siamo ancora nell’ambito dello stesso capitolo storico. Non è ancora finito. E quindi, con questa idea in mente, ci sarebbe probabilmente un terzo libro, in seguito, che considera gli avvenimenti del 21° secolo e come la stessa ideologia di pulizia etnica e di espropriazione si sta attuando nella nuova era e come i Palestinesi vi oppongono resistenza.
MEE: Lei parla della pulizia etnica che è avvenuta nel giugno del 1967. Che cosa è accaduto allora ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza? In che modo è diversa dalla pulizia etnica della guerra del 1948?
IP: Nel 1948 c’era un chiaro piano per tentare di espellere il maggior numero di palestinesi possibile. Il progetto colonialista dei coloni credeva di avere il potere di creare uno spazio ebraico in Palestina che sarebbe stato totalmente senza palestinesi. Non ha funzionato molto bene, ma ha avuto un buon successo, come tutti sapete. L’80% dei palestinesi che vivevano all’interno di quello che divenne lo stato di Israele, diventarono rifugiati.
Come dimostro nel libro, ci sono alcuni decisori politici israeliani che hanno pensato che forse possiamo fare nel 1967 quello che abbiamo fatto nel 1948. La vasta maggioranza di questi, però, capiva che la guerra del 1967 era stata molto breve, durata 6 giorni, e allora c’era già la televisione e un buon numero delle persone che volevano espellere erano giù rifugiati dal 1948.
Come dimostro nel libro, ci sono alcuni decisori politici israeliani che hanno pensato che forse possiamo fare nel 1967 quello che abbiamo fatto nel 1948. La vasta maggioranza di questi, però, capiva che la guerra del 1967 era stata molto breve, durata 6 giorni, e allora c’era già la televisione e un buon numero delle persone che volevano espellere erano giù rifugiati dal 1948.
Penso, quindi, che la strategia non era la pulizia etnica nello stesso modo in cui era stata attuata nel 1948. Era quello che chiamerei pulizia etnica che si va incrementando lentamente. In alcuni casi hanno espulso torme di persone da certe zone come Gerico, la Città Vecchia di Gerusalemme, e attorno a Qalqilya. Nella maggior parte dei casi, però, hanno deciso che il governo militare e un assedio per racchiudere i Palestinesi nelle loro proprie aree, sarebbe stato vantaggioso quanto espellerli.
Dal 1967 fino a oggi, c’è una pulizia etnica molto lenta che probabilmente si estende per un periodo di 50 anni, ed è così lenta che talvolta può colpire una persona in un giorno. Se, però, si guarda al quadro completo dal 1967 fino a oggi, parliamo di centinaia di migliaia di palestinesi ai quali non è permesso di tornare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
Dal 1967 fino a oggi, c’è una pulizia etnica molto lenta che probabilmente si estende per un periodo di 50 anni, ed è così lenta che talvolta può colpire una persona in un giorno. Se, però, si guarda al quadro completo dal 1967 fino a oggi, parliamo di centinaia di migliaia di palestinesi ai quali non è permesso di tornare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
MME: Lei distingue tra due modelli militari che usa Israele: il modello di prigione aperta in Cisgiordania e il modello di prigione di massima sicurezza nella Striscia di Gaza. Come definisce questi termini militari?
IP: Gli israeliani controllano i territori occupati direttamente o indirettamente e cercano di non penetrare nelle città e nei villaggi palestinesi densamente popolati. Hanno suddiviso la Striscia di Gaza nel 2005 e stanno ancora suddividendo la Cisgiordania che non è più una zona territoriale coerente.
A Gaza gli israeliani sono i custodi che escludono i palestinesi dal mondo esterno, ma non interferiscono con quello che fanno all’interno.
La Cisgiordania è come una prigione all’aria aperta dove si mandano piccoli criminali cui si concede più tempo andare fuori e lavorare fuori. All’interno non c’è u regime severo, ma è comunque una prigione. Anche il presidente palestinese Mahmoud Abbas, se si sposta dalla zona B alla zona C, ha bisogno che gli israeliani gli aprano la porta. Per me questo è molto simbolico, cioè il fatto che il presidente non si può muovere senza che il carceriere israeliano gli apra la gabbia.
A Gaza gli israeliani sono i custodi che escludono i palestinesi dal mondo esterno, ma non interferiscono con quello che fanno all’interno.
La Cisgiordania è come una prigione all’aria aperta dove si mandano piccoli criminali cui si concede più tempo andare fuori e lavorare fuori. All’interno non c’è u regime severo, ma è comunque una prigione. Anche il presidente palestinese Mahmoud Abbas, se si sposta dalla zona B alla zona C, ha bisogno che gli israeliani gli aprano la porta. Per me questo è molto simbolico, cioè il fatto che il presidente non si può muovere senza che il carceriere israeliano gli apra la gabbia.
Naturalmente c’è una costante reazione palestinese a questo. I palestinesi non sono passivi e non accettano questa situazione. Abbiamo visto la Prima Intifada e la Seconda Intifada e forse vedremo la Terza Intifada. Gli Israeliani dicono ai palestinesi, con una mentalità da gestione di carcere: se vi opponete, vi porteremo via tutti i vostri privilegi, come facciamo in prigione. Non potrete lavorare fuori. Non sarete in gradi di muovervi liberamente, e avrete punizioni collettive. Questo è il genere di parte punitiva: punizione collettiva come ritorsione.
MME: La comunità internazionale condanna timidamente la costruzione o l’espansione degli insediamenti israeliani nei territori occupati. Non le considerano parte importante della struttura coloniale di Israele, come lei descrive nel libro. Come sono cominciati gli insediamenti israeliani e la loro base era razionale o religiosa?
IP: Dopo il 1967, ci sono state due mappe di insediamenti o colonizzazione. C’era una mappa strategica ideata dalla Sinistra a Israele. E il padre di questa mappa è stato il defunto Yigal Allon, il massimo stratega che lavorò con Moshe Dyan nel 1967 per formulare un piano di controllo della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Il loro principio era strategico e non molto ideologico, anche se credevano che la Cisgiordania appartenesse a Israele.
Gli interessava di più interessati assicurarsi che gli Ebrei non si insediassero in zone arabe densamente popolate. Dicevano che, dovunque i Palestinesi non vivono concentrati, noi possiamo stabilirci. Hanno quindi iniziato con la Valle del Giordano perché lì ci sono piccoli villaggi ma non densamente popolati come in altre zone.
Gli interessava di più interessati assicurarsi che gli Ebrei non si insediassero in zone arabe densamente popolate. Dicevano che, dovunque i Palestinesi non vivono concentrati, noi possiamo stabilirci. Hanno quindi iniziato con la Valle del Giordano perché lì ci sono piccoli villaggi ma non densamente popolati come in altre zone.
Il problema per loro è stato che nello stesso momento in cui tracciavano la loro mappa strategica, emergeva un nuovo movimento religioso messianico, Gush Emunim, un movimento religioso nazionale di Ebrei, che non volevano insediarsi in base alla mappa strategica. Volevano insediarsi seguendo la mappa biblica. Avevano l’idea che la Bibbia è un libro che dice esattamente dove sono le antiche città ebraiche. E si dà il caso che la mappa indicava che gli Ebrei dovevano insediarsi tra Nablus, Hebron e Betlemme, in mezzo alle zone palestinesi.
Dapprima il governo israeliano tentò di controllare questo movimento biblico in modo che si sarebbero insediati più strategicamente, ma vari giornalisti hanno dimostrato che Shimon Peres, ministro della Difesa all’inizio degli anni ’70, decise di permettere gli insediamenti biblici. I Palestinesi in Cisgiordania avevano davanti due mappe della colonizzazione, quella strategica e quella biblica.
Dapprima il governo israeliano tentò di controllare questo movimento biblico in modo che si sarebbero insediati più strategicamente, ma vari giornalisti hanno dimostrato che Shimon Peres, ministro della Difesa all’inizio degli anni ’70, decise di permettere gli insediamenti biblici. I Palestinesi in Cisgiordania avevano davanti due mappe della colonizzazione, quella strategica e quella biblica.
La comunità internazionale capisce che, secondo la legge internazionale, non importa se è un insediamento è strategico o biblico: sono illegali.
Quello, però, che è una sfortuna, è che la comunità internazionale dal 1967 ha accettato la formula israeliana che dice che “gli insediamenti sono illegali, ma è una cosa temporanea; quando ci sarà la pace ci assicureremo che tutto sia legale. Però, fino a quando non c’è la pace, abbiamo bisogno degli insediamenti perché siamo ancora in guerra con i Palestinesi.”
Quello, però, che è una sfortuna, è che la comunità internazionale dal 1967 ha accettato la formula israeliana che dice che “gli insediamenti sono illegali, ma è una cosa temporanea; quando ci sarà la pace ci assicureremo che tutto sia legale. Però, fino a quando non c’è la pace, abbiamo bisogno degli insediamenti perché siamo ancora in guerra con i Palestinesi.”
MME: Lei dice che “occupazione” non è la parola precisa per descrivere la realtà in Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. E in On Palestine, un dialogo con Noam Chomsky, lei critica l’espressione: “processo di pace”. E’ discutibile. Perché questi termini non sono precisi?
IP: Penso che il linguaggio sia molto importante. Il modo in cui si inquadra una situazione può influenzare le possibilità di cambiarla.
Abbiamo espresso la situazione Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e in Israele con il vocabolario e le parole sbagliate. Occupazione indica sempre una situazione temporanea.
La soluzione dell’occupazione è sempre la fine dell’occupazione, quando le forze armate di invasione tornano nel loro paese; questa, però, non è la situazione né in Cisgiordania o in Israele, né nella Striscia di Gaza. Questa è una colonizzazione, suggerisco, anche se sembra un termine anacronistico nel 21° secolo, e penso che dovremmo capire che Israele sta colonizzando la Palestina. Ha cominciato a farlo alla fine del 19° secolo e la sta colonizzando ancora oggi.
C’è un regime coloniale di coloni che controlla l’intera Palestina in modi diversi. La controlla dall’esterno nella Striscia di Gaza. Nella Cisgiordania la controlla in maniera diversa nella zona A, B e nella zona C. Ha politiche differenti verso i Palestinesi nel campo profughi, dove non permette ai rifugiati di ritornare. Questo è un altro modo di mantenere la colonizzazione, non permettendo alle persone che erano state espulse, di ritornare. Fa tutto parte della stessa ideologia.
Abbiamo espresso la situazione Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e in Israele con il vocabolario e le parole sbagliate. Occupazione indica sempre una situazione temporanea.
La soluzione dell’occupazione è sempre la fine dell’occupazione, quando le forze armate di invasione tornano nel loro paese; questa, però, non è la situazione né in Cisgiordania o in Israele, né nella Striscia di Gaza. Questa è una colonizzazione, suggerisco, anche se sembra un termine anacronistico nel 21° secolo, e penso che dovremmo capire che Israele sta colonizzando la Palestina. Ha cominciato a farlo alla fine del 19° secolo e la sta colonizzando ancora oggi.
C’è un regime coloniale di coloni che controlla l’intera Palestina in modi diversi. La controlla dall’esterno nella Striscia di Gaza. Nella Cisgiordania la controlla in maniera diversa nella zona A, B e nella zona C. Ha politiche differenti verso i Palestinesi nel campo profughi, dove non permette ai rifugiati di ritornare. Questo è un altro modo di mantenere la colonizzazione, non permettendo alle persone che erano state espulse, di ritornare. Fa tutto parte della stessa ideologia.
Penso, quindi, che le parole: processo di pace e occupazione, quando sono messe insieme, creano la falsa impressione che tutto quello che è necessario, è che i militari israeliani se ne vadano dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, e che ci sia una pace tra Israele e la Palestina futura.
Ora, le forze armate israeliane non sono nella Striscia di Gaza e non sono nella zona A. Sono appena nella zona B dove non è necessario che siano. Ma non c’è pace. C’è una situazione che è di gran lunga peggiore di quella che c’era prima degli Accordi di Oslo del 1993.
Il cosiddetto processo di pace ha messo in grado Israele di fare ulteriore colonizzazione, ma questa volta con l’appoggio internazionale. Suggerisco quindi, di parlare di decolonizzazione, non di pace. Suggerisco che si parli di cambiare il regime legale che governa la vita degli Israeliani e dei Palestinesi.
Penso che dovremmo parlare di uno stato dove c’è l’apartheid. Dovremmo parlare di pulizia etnica. Dovremmo cercare che cosa sostituisce l’apartheid. Abbiamo un buon esempio in Sudafrica. L’unico modo di sostituire l’apartheid è con un sistema democratico. Una persona, un voto o almeno uno stato bi-nazionale. Penso che questo sia il genere di parole che dovremmo cominciare a usare, perché se continuiamo a usare le parole vecchie, continuiamo a perdere tempo e non cambieremo la realtà sul terreno.
Ora, le forze armate israeliane non sono nella Striscia di Gaza e non sono nella zona A. Sono appena nella zona B dove non è necessario che siano. Ma non c’è pace. C’è una situazione che è di gran lunga peggiore di quella che c’era prima degli Accordi di Oslo del 1993.
Il cosiddetto processo di pace ha messo in grado Israele di fare ulteriore colonizzazione, ma questa volta con l’appoggio internazionale. Suggerisco quindi, di parlare di decolonizzazione, non di pace. Suggerisco che si parli di cambiare il regime legale che governa la vita degli Israeliani e dei Palestinesi.
Penso che dovremmo parlare di uno stato dove c’è l’apartheid. Dovremmo parlare di pulizia etnica. Dovremmo cercare che cosa sostituisce l’apartheid. Abbiamo un buon esempio in Sudafrica. L’unico modo di sostituire l’apartheid è con un sistema democratico. Una persona, un voto o almeno uno stato bi-nazionale. Penso che questo sia il genere di parole che dovremmo cominciare a usare, perché se continuiamo a usare le parole vecchie, continuiamo a perdere tempo e non cambieremo la realtà sul terreno.
MEE: Che cosa ha in serbo il futuro per il dominio militare israeliano sui Palestinesi? In luglio rivedremo un movimento di disobbedienza civile come quello di Gerusalemme?
IP: Penso che ci sarà disobbedienza civile non soltanto a Gerusalemme, ma in tutta la Palestina, compresi i palestinesi che vivono in Israele. La società stessa non accetterebbe per sempre questo genere di realtà. Non so quali mezzi userà. Possiamo vedere che cosa accade quando non si ha una chiara strategia dall’alto che i singoli decidono di fare la loro personale guerra di liberazione.
C’era qualcosa di davvero notevole nel caso di Gerusalemme, quando nessuno credeva che una resistenza popolare potesse costringere gli israeliani a ritirare le misure di sicurezza che avevano imposto ad Haram al-Sharif (Il monte del Tempio*). Penso che questo possa essere il modello. Una resistenza popolare per il futuro che non sia in tutto il luogo ma in posti diversi.
La resistenza popolare continua sempre in Palestina. I media non ne parlano, ma ogni giorno la gente protesta contro il muro della separazione, la gente dimostra contro l’espropriazione della terra, le persone fanno lo sciopero della fame perché sono prigionieri politici. La resistenza palestinese dal basso continua. La resistenza palestinese dall’alto è sospesa.
C’era qualcosa di davvero notevole nel caso di Gerusalemme, quando nessuno credeva che una resistenza popolare potesse costringere gli israeliani a ritirare le misure di sicurezza che avevano imposto ad Haram al-Sharif (Il monte del Tempio*). Penso che questo possa essere il modello. Una resistenza popolare per il futuro che non sia in tutto il luogo ma in posti diversi.
La resistenza popolare continua sempre in Palestina. I media non ne parlano, ma ogni giorno la gente protesta contro il muro della separazione, la gente dimostra contro l’espropriazione della terra, le persone fanno lo sciopero della fame perché sono prigionieri politici. La resistenza palestinese dal basso continua. La resistenza palestinese dall’alto è sospesa.
Fonte: ZNet.org
Traduzione: Maria Chiara Starace
Italia costruirà gasdotto a Israele (per rubare il greggio palestinese)
“Non esiste ancora una pipeline così lunga e così profonda”, esulta il ministro dell’energia sionista Juval Steinitz. L’Italia e la Grecia (ma soprattutto l’Italia) gli costruiranno il gasdotto che costerà 6 miliardi e sarà completato nel 2025, che pomperà gas e greggio del grande giacimento davanti a Gaza, che ovviamente i sionisti si sono accaparrati, rubandolo ai palestinesi, in condominio con Cipro (che ha perfettamente diritto, perché il giacimento è nelle sue acque territoriali). Il memorandum in questo senso è stato firmato martedì a Nicosia, fra l’ambasciatore italiano a Cipro, e i ministri dell’energie di Israele, Cipro, Grecia. Benediceva l’operazione il commissario europeo all’energia Miguel Arias Cañete. E’ probabile che sarà la UE a pagare il progetto, perché l’eurocrazia persegue instancabilmente la strategia di svincolare l’Europa dalla “dipendenza energetica da Mosca” (oltre a quella di fare regali allo Stato razziale mediterraneo). Il tubo, chiamato EastMed che approderà in Italia nel 2025, trasporterà fino a 16 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno, pari a circa il 5% del consumo annuale in Europa, secondo quanto riferito da EUObserver. Si è costituita allo scopo una joint venture fra Edison e la consorella greca Depa.
Lasciamo perdere la presunta “polemica” e “presa di distanza” dell’Europa dalla decisione trumpiana di dichiarare Gerusalemme capitale indivisa di Sion, lo “scontro” di Netanyahu con Macron, i “disaccordi” di costui coi ministri degli esteri della UE che sa per incontrare a Bruxelles. Quello è teatro per la scena. La realtà è che gli europei restano legati a filo doppio, anzi sempre più soggetti, agli interessi israeliani.
Polonia ha premier ebraico. Per eccessivo patriottismo?
Quella grande commemorazione di popolo per la ritrovata indipendenza polacca l’11 novembre a Varsavia, decisamente è stata deplorevole: “Slogan che rinnegano di fatto i valori democratici, liberal, europeisti e di tolleranza e non violenza”, ha scritto Repubblica. Uno “slogan era “Europa bianca di nazioni fraterne”, un chiaro no sia ai migranti – la Polonia rifiuta le quote di ripartizione decise dall´Unione europea, e non ospita praticamente nessun migrante nordafricano o arabo”.
Decisamente da correre ai ripari. Forse è questo il motivo per cui il partito di potere e di governo “Diritto e Giustizia” (PiS) ha cambiato primo ministro? Fuori Beata Maria Szydło, al suo posto è stato messo Mateusz Morawiecki. Un rimpasto. Beata Szydło, 53 anni, è cattolica, ha un figlio prete, va alla messa antica in latino; Morawiecki, 49 anni, è ebreo, banchiere-squalo (persino suo padre ha detto di lui: è un bankster), sionista militante. Non è nemmeno del partito PiS, anzi è stato braccio destro di Donald Tusk, il gran nemico della “destra” nazionale polacca oggi al potere. Morawiecki, capo di una banca del gruppo Santander, che ha introdotto JP Morgan negli affari della Polonia, si è iscritto al partito di potere due anni fa quando, essendo Tusk battuto sonoramente alle elezioni, la nuova maggioranza gli ha chiesto di diventare suo ministro per lo sviluppo economico, cui ha aggiunto la poltrona di ministro delle finanze un anno fa.
Uno dei più contenti di questa nomina è Jonny Daniels: un personaggio nato a Londra, ex parà nella Israeli Defense Force (reparto 890), già consigliere del ministro della Difesa israeliano Danny Danon “e di altri politici in Israele, Unione Europea ed Usa”; è frequentemente intervistato da CNN, Fox News e BBC come “esperto di olocausto”. In Polonia è di casa appunto in tale veste: indaga e scava le memorie delle vittime ebraiche in Polonia. A questo scopo ha fondato un’organizzazione chiamata “From the Depth” (Dal profondo)
Daniels ha chiesto con forza (preteso? Ordinato?) che la festa patriottica che ogni anno si organizza in Polonia l’11 Novembre sia dichiarata illegale.
Questo personaggio, lui sì di estrema destra (ma ebraica, quindi kosher ) ha altissime entrature nel governo: organizza a casa propria a Varsavia “pranzi del shabbat” con ministri polacchi e ministri israeliani
- Qui al tavolo con un ministro sionista, Ayub Kra(telecomunicazioni) e tre ministri polacchi: lo stesso Morawiecki oggi fatto premier, Piotr Gliński (Ministro polacco della Cultura e del Retaggio), Adam Bielan ( vicepresidente del Senato e deputato europeo), Jan Dziedziczak (segreteria di Stato), tutti in yarmulka.
- E’ invitato in pompa magna dal presidente della Repubblica, Andrzej Duda (d’accordo, sposato con una Agata Kornhauser, of Jewish descent..).
- Ma soprattutto viene ricevuto dal vero padre e padrone del PiS, che ha co-fondato e che governa dietro le quinte Jarosław Kaczyński
Jarosław Kaczyński di solito non riceve…
Gemello monozigote di Lech, il presidente della repubblica morto in una tragedia aerea il 10 aprile 2010 mentre stava per atterrare a Smolensk in Russia (andava ad una cerimonia di commemorazione delle vittime polacche di Katyn, sterminate dai sovietici), si è convinto che sono stati i servizi di Putin ad uccidergli il fratello: il che non ha fatto nulla per attenuare il suo anti-russismo.
Estremamente prudente e riservato, “la sua porta è perennemente sbarrata”, e “si sa che non si deve bussare senza permesso previo”. Non al telefono, perché “il suo ufficio non risponde”: Egli parla solo a quattr’occhi . “Usa il telefono fisso con la parsimonia di un avaro. Non possiede nemmeno un cellulare, ovviamente. Al massimo, un conto corrente su cui far depositare lo stipendio, che fa prelevare a contanti. Ha una cultura molte tacche sopra la norma”.
E’ lui che governa la Polonia da uno sgangherato edificio nel centro di Varsavia, dove ha l’ufficio al primo piano. Non direttamente ma attraverso il PiS e le sue creature nel partito. Riunisce pochi intimi e fidati, “li ascolta tutti e infine decide: s’intende che queste decisioni sono definitive”, scrisse un anno fa la rivista americana Politico, dopo aver tentato (invano) di intervistarlo.
Naturalmente è lui che ha dato al governo la linea anti-EU ed anti-immigrati, non di rado portandolo allo scontro con Bruxelles: che lo ha accusato di avere ridotto “l’indipendenza della magistratura” (i giudici della corte costituzionale saranno nominati dal presidente della repubblica) e “limitato libertà di stampa”:
«Jarosław Kaczyński è totalmente imbevuto del retaggio religioso, storico, culturale e sociale della Polonia e dell’occidente Cristiano. È religioso, e si comporta da persona religiosa. È cattolico, e si comporta da persona cattolica. È polacco, e si comporta da polacco.»
Sicuramente è stato lui a scegliere come prima ministra Beata Szlydo; ed ora, pochi dubbi che sia stato lui a scegliere di sostituirla col bankster ebreo poliglotta, ben accetto all’Europa e ben noto negli ambienti internazionali e globali che contano – il che significa che ha scelto Morawiecki anche per guidare il partito alle prossime elezioni generali, l’anno prossimo.
Quando gli ebrei, in “Polin”, comandavano
Che dire? Di questi tempi la Polonia sembra controllata molto da vicino. Ma non è in fondo nemmeno una novità. La “narrativa” ebraica di un “antisemitismo polacco” virulento, ignora la realtà storica: che nella Polonia monarchico-nobiliare, gli ebrei avevano una completa autonomia. Non obbedivano alle leggi del Paese, ma al proprio “governo”; che si chiamava Comitato delle Quattro Terre, e in cui i rabbini potevano comminar la pena capitale contro gli ebrei disubbidienti, spesso perché “informatori” presso i goym , ossia denunciatori delle loro angherie (per esempio applicavano una tassa sulla carne macellata kosher, che loro stessi intascavano). Lo storico israeliano Rami Rosen ha smentito la “narrativa” dei poveri ebrei di Polonia, perseguitati e pacifici:
“Una scorsa ai fatti della storiografia (ebraica) degli ultimi 1500 anni mostra una storia diversa da quella che ci viene mostrata. Compresi massacri di cristiani in derisorie ripetizioni della crocifissione durante Purim; liquidazione di informatori, spesso comminate da tribunali segreti rabbinici […] che incaricavano esecutori segreti; assassini di adultere nelle sinagoghe o taglio del loro naso su ordine dei rabbini”.
“Nella Polonia del sedicesimo secolo il rabbino Shlomo Luria discute [in uno dei suoi testi “dottrinali”,ndr.] che “è meglio ucciderli [gli informatori] piuttosto che mutilarli, per esempio tagliando loro la lingua”, perché “è quasi certo che un ebreo [mutilato] si converta e, per vendicarsi, vada dicendo cose scorrette sugli ebrei. Io stesso ho visto che a limitarsi a mutilarli, gli [altri] ebrei hanno grandemente sofferto”.
Come ha scritto il compianto amico Israel Shahak, che era polacco ed aveva partecipato alla sollevazione anti-nazista del Ghetto di Varsavia,”Nel sedicesimo secolo, con il declino della monarchia polacca, gli ebrei polacchi assunsero un notevole potere sociale e politico. In quel periodo ottennero i più grandi privilegi […] I nobili [fannulloni e assenteisti] mettevano i loro clientes ebrei a gestire le loro proprietà urbane; normalmente gli ebrei l’avevano vinta sulle autorità comunali, che non potevano né cacciarli né sottometterli, grazie alla protezione che ricevevano dai nobili, di cui facevano gli interessi. Gli ebrei come tali erano esenti dai dazi e dai balzelli che gravavano pesantemente sulla piccola borghesia nazionale”. Secondo Shahak, è per questo che in Polonia non nacque una forte borghesia mercantile e politica, come avvenne nella vicina Germania.
Quanto al potere che i feudatari polacchi lasciarono agli ebrei sui loro latifondi di campagna, ecco: “Molti ebrei venivano usati come sorveglianti oppressori dei contadini[..] come esattori di specifici monopoli feudali quali i mulini, la distillazione della vodka, il controllo delle osterie; con diritto di perquisizione armata nelle case dei contadini per scoprire la distillazione illegale oppure i forni”. Agli ebrei, i nobili affidarono persino le chiavi delle chiese dei villaggi: per un battesimo, matrimonio o funerale, i contadini dovevano pagare all’ebreo loro sorvegliante.
Chi parla di “antisemitismo” persistente nella campagne polacche dovrebbe ricordare che nella classe miserabile dei contadini resta il ricordo di questi individui che irrompevano nelle misere isbe e spaccavano la storta per distillare la vodka clandestina, o i forni per maltizzare il grano, armati e parlanti una lingua incomprensibile. Perché, spiega ancora Shahak,”gli ebrei polacchi, unici nella storia ebraica, costituivano una enorme comunità che non si curò di imparare la lingua della nazione fra cui viveva”. Urlavano in yiddish ai contadini puntando loro alla gola le armi. E nonostante ciò, la Polonia è il solo paese est-europeo che, nella storia, non ha mai compiuto un’espulsione di massa di ebrei. Ed anzi, i contadini ne hanno protetto e nascosto migliaia dai nazisti nelle campagne.
Uno dei salvati fu lo scrittore noto in Usa, e specie ad Hollywood, come Jerzy Kosinzski (1933-1991: vero nome Lewinkopf); i genitori, prima di fuggire in URSS, lo affidarono bambino a una famiglia del villaggio di Dibrowa Gornicza, la famiglia Warchol. Lo hanno nascosto, protetto e nutrito. I Warchol erano cattolici e impegnati nella resistenza anti-comunista al Terzo Reich. Il padre di Kosinski invece (Mieczslaw) era comunista: quando tornò in Polonia sui cingolati dell’Armata Rossa, si affrettò a denunciare i salvatori del figlioletto come anticomunisti al governo marxista (ebraico) insediato a Varsavia. Adulto ed americano di successo (era amico di Roman Polanski, sceneggiatore, accompagnatore del cardinal Wojtyla quando questo questi viaggiava in Usa) Kosinski figlio scrisse un libro di successo, l’Uccello Dipinto, dove rievoca i mesi passati coi Warchol in campagna, dipingendosi come un bambino ebreo tormentato e terrorizzato dai questi contadini brutali, che facevano sesso con il bestiame, gettavano altri bambini nei cessi o li davano in pasto ai cani.
(James Parker Sloan, Jerzy Kosinski, a Biography, Dutton 1996. Si veda anche Maurizio Blondet, Cronache dell’Anticristo, Effedieffe 2011).
Ora, molti ebrei di origine polacca tornano volentieri a questa terra che li ha tanto perseguitati. Il governo PiS concede facilmente loro, si dice, migliaia di passaporti. Molti chiedono ed ottengono “riparazioni” per le persecuzioni e i sequestri di beni che hanno sofferto quando la Polonia era sotto i nazisti.
Con molta discrezione il governo protegge l’identità di un numero imprecisato di “agenti girati”, ossia persone dei servizi comunisti passsati agli americani o ad altri servizi. Molti hanno posizioni importanti in Polonia, si sospetta. Sia Kaczynski sia Duda, che avevano promesso di farne i nomi prima delle elezioni, adesso si rifiutano.
Il PiS del resto sta facendo molto come ausiliare del golpe filo-americanoa Kiev: grossi prestiti a fondo perduto all’Ucraina, combattenti ucraini curati negli ospedali, università gratis e stipendi per gli studenti ucraini – senza contare i 2 milioni di ucraini che sono ospitati e trovano lavoro in Polonia. Hanno già i loro “immigrati”. E vale la pena di non dimenicare che il regime di Kiev si ispira esplicitamente al movimento banderista, quei collaboratori dei nazisti che intrapresero una orrenda pulizia etnica in Volinia: non solo massacrando un numero enorme di cattolici polacchi (si dice mezzo milione), ma torturandoli in modi inenarrabili, donne e bambini compresi. Ancor oggi la ferita è viva.
I rapporti con Israele erano strettissimi già anche quando era premier la signora Szlydo: che ha compiuto almeno tre visite riservate in Sion ( i polacchi l’hanno saputo solo perché la delegazione ha avuto un incidente d’auto durante la trasferta)
Come mai tanta devozione e sottomissione non è bastata? Ora c’è un controllo più diretto: in funzione anti-Mosca? Perché la manifestazione patriottica di fine novembre ha allarmato? Domande.
https://www.maurizioblondet.it/polonia-premier-ebraico-eccessivo-patriottismo/
Palestina 1917-2017: cent’anni di menzogne e soprusi
di Enrico Galoppini - 10/12/2017
Fonte: Il Discrimine
Il 2 novembre di quest’anno si compiono cent’anni esatti dalla “Dichiarazione Balfour”, che, come tutti dovrebbero sapere, consisté nella promessa formale – indirizzata dal Ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour ad un importante referente della “comunità ebraica” inglese e del nascente Movimento sionista, “Lord” Lionel Walter Rothschild – concernente l’impegno inglese nella costituzione di un “Focolare Nazionale Ebraico” (Jewish National Home) in Palestina.
Per comprendere la portata di un simile impegno da parte della principale superpotenza dell’epoca a favore di un influente settore dell’Ebraismo le cui aspirazioni comprendevano l’edificazione di uno “Stato Ebraico” sulla cosiddetta “Terra Promessa” (da Yahwè agli Ebrei) bisogna collocare questo documento nel contesto che indubbiamente ne favorì la genesi.
Sul finire del 1917 l’Impero Ottomano, schierato nel campo della Triplice Alleanza col Reich tedesco e l’Impero d’Austria-Ungheria, non aveva ancora perso i territori palestinesi, per cui è opportuno sottolineare che l’Inghilterra “promise” ciò che ancora non possedeva, in quanto le sue truppe entreranno a Gerusalemme solo il 9 dicembre dello stesso anno. Ma tanto per mettere le mani avanti, nella solenne dichiarazione a garanzia delle aspirazioni sioniste si puntualizzava che le “comunità non ebraiche” colà residenti non avrebbero avuto leso alcun loro diritto.
Nella Dichiarazione Balfour troviamo dunque già due elementi caratteristici dell’ipocrisia moderna: vendere quello che non si possiede (come nel mercato finanziario dei “futures”) ed ammantare intenzioni non proprio benevole di altisonanti idealità candidate all’immediato sacrificio in nome della politica del “fatto compiuto”.
A parte la strana coincidenza del 2 novembre (Commemorazione dei defunti per il calendario cristiano cattolico), vi è da dire che in quei giorni di novembre di cent’anni fa si susseguirono e s’intrecciarono eventi di portata epocale, tra i quali la Rivoluzione cosiddetta “d’Ottobre” in Russia (la conquista di Pietrogrado e Mosca da parte dei bolscevichi avverrà tra il 7 e l’8 novembre). Una rivoluzione, quella dei bolscevichi, aiutata in ogni modo dalle grandi banche d’affari di proprietà ebraica stabilite in America e che vide tra i suoi agenti in loco il fior fiore del revanscismo anti-zarista caratterizzato da una preponderante presenza ebraica nel primo Soviet supremo. Dunque, nel giro di pochissimi giorni, l’Ebraismo aveva piazzato due carichi sul tavolo della partita per il dominio mondiale: da un lato l’impegno della principale superpotenza di assegnargli l’agognata “Terra Promessa”, dall’altro lo stabilimento in Russia di un centro di propalazione della “rivoluzione mondiale”. Il tutto con la benedizione ed i quattrini dei correligionari dell’alta finanza che con la Prima guerra mondiale erano riusciti a ridurre l’Inghilterra in una condizione d’indebitamento fino al collo, per cui ne andava ad ogni costo impedita la débacle…
Ora, se tutto questo, col clima insopportabile di caccia alle streghe dei nostri giorni, può sembrare una disamina “complottista”, vi è da dire che se si osservano quei fatti e la loro concatenazione scevri da ricatti moralistici ed autocensure si evince come la Prima guerra mondiale, tra i suoi esiti, rappresentò una vittoria su tutta la linea per l’Ebraismo, o meglio per un suo settore che a poco a poco finì per identificarsi col Sionismo e soppiantare, quanto meno nei rapporti di forza interni all’Ebraismo stesso, tutte quelle correnti e personalità indifferenti o addirittura ostili al Sionismo per vari motivi, che vanno dalla “profanazione del nome di Israele” al rifiuto di ridurre una religione ad una forma di nazionalismo esasperato.
La questione non è affatto di dettaglio, poiché è bene sapere che all’inizio (quanto meno simbolico) di tutta questa storia gli ebrei disseminati ovunque per il mondo (che naturalmente non potevano discendere dagli “ebrei della Diaspora” in quanto sono attestate ovunque conversioni di popoli interi all’Ebraismo) non erano affatto conquistati in maggioranza alla causa del “Focolare Ebraico” in Palestina (termine, quest’ultimo, che con gli anni avrebbero cercato di cancellare persino dalla memoria collettiva).
In tutti questi cent’anni, l’impegno dei fautori del progetto sionista, a cominciare proprio dai Rothschild, è stato quello di “convincere”, con le buone o le cattive, gli ebrei di tutto il mondo a stare dalla parte del loro progetto, sostenendolo idealmente e materialmente, per esempio rimpolpando i ranghi dell’emigrazione ebraica in Palestina col pretesto del “ritorno”. Con le buone o le cattive: si dà il caso, infatti, che le autorità del Terzo Reich attribuirono ad ebrei o mezzi ebrei la gestione della “questione ebraica”, a riprova che la carta sionista è stata giocata da tutti quanti, allo scopo di costituire – al di là delle attese “messianiche” dei più convinti sionisti – una base sicura per la propria influenza in un’area di vitale importanza dal punto di vista strategico, commerciale ed energetico.
Pertanto, se la Germania – prima e durante il Terzo Reich – non ha mai disdegnato l’appoggio del Sionismo per fondare una testa di ponte nell’area del Levante arabo, la Francia fece ancora di più, proponendo già alcuni mesi prima della Dichiarazione Balfour una sua analoga “dichiarazione” a favore delle aspirazioni sioniste, tant’è che quella britannica sembra ricalcata sul modello francese (com’è documentato nel libro di Philippe Prévost La France et l’origine de la tragédie Palestinienne. 1914-1922, Centre d’Études Contemporaines, Paris 2003).
Come sono andate le cose è storia risaputa: l’Inghilterra, senza tanti complimenti (ed alla faccia della “Cordiale Intesa” del 1904), ridimensionò le pretese francesi nella regione ed istituì un “Mandato speciale” per la Palestina dove, un poco per volta, il Sionismo impiantò la sua base operativa che perdura ancora oggi. Ciò a prescindere dagli atteggiamenti tattici dell’Inghilterra stessa, contro le cui rappresentanze civili e militari, al momento di realizzare lo “Stato d’Israele” – riconosciuto per primi, nel 1948, da Stati Uniti e Urss… -, si sarebbe scagliata la furia del terrorismo sionista, dentro e fuori la Palestina.
Ma nel 1917, con l’America che era entrata in guerra per un solo ed unico motivo – tutelare l’enorme massa di crediti che vantava nei confronti dell’Inghilterra – i giochi non sembravano ancora fatti. Ed ecco che per favorirli intervenne per l’appunto la Dichiarazione Balfour, che in fin dei conti non fu altro che il riconoscimento britannico per l’impagabile favore fatto dalla rete dei banchieri legati ai Rothschild ed influentissimi a New York con l’ingresso in guerra degli Stati Uniti (ufficialmente, il 2 aprile 2017), per lungo tempo riluttanti a gettarsi nel teatro bellico europeo (il pretesto per entrare in guerra, ovvero l’affondamento del piroscafo Lusitania da parte di un sommergibile tedesco, era del 7 maggio 1915!). Un intervento, quello americano, praticamente senza senso se tentiamo di spiegarcelo solo con categorie come “l’imperialismo” e “l’espansionismo” a danno di altri Stati a Nazioni, oppure con la diffusione del Capitalismo e del Fordismo.
Nel frattempo, la stampa “autorevole” europea, e soprattutto i bollettini interni alle “comunità ebraiche”, denunciavano, riprendendo motivi già comparsi in altri precedenti contesti (anche vecchi di decenni), il “massacro di sei milioni di ebrei” in corso sul suolo europeo a causa delle violenze perpetrate dai tedeschi. Un particolare, questo, facilmente verificabile ma mai spiegato da coloro che, non appena qualcuno chiede conto di simili “coincidenze”, lanciano come un dardo mortale all’indirizzo del “blasfemo” studioso l’accusa di “complottismo” e, ovviamente, di “antisemitismo”.
Il contesto nel quale si colloca la Dichiarazione Balfour è dunque quanto mai interessante e ci induce a pensare che se per un verso i Rothschild ed i loro affiliati perseguono finalità (ricostruzione del Terzo Tempio, Gerusalemme capitale mondiale eccetera) che vanno oltre ciò che ingenuamente denunciano gli “antimperialisti” ed i vari “amici della Palestina”, per un altro è valida l’analisi, suffragata da dati storici, per la quale il “Focolare Ebraico” svolge la funzione di destabilizzare l’area vicino-orientale ma anche quella mediterranea onde evitare l’emersione di potenze contrarie al “dominio del dollaro” (trionfo della moneta-merce prestata ad interesse) che potrebbe sfociare in quell’integrazione eurasiatica a guida russa (di una Russia libera dal cappio al collo postole dagli usurocrati) in grado di serbare sgradite sorprese ai fautori di un “Nuovo Ordine Mondiale”. Sorprese tra le quali si annovera un’alleanza tra la Chiesa Ortodossa e l’Islam tradizionale non infettato dalle ideologie provenienti da un altro baluardo dell’influenza sionista nel mondo, l’Arabia Saudita.
In quest’epoca di riassestamento dei poteri mondiali, anche la Russia ha aumentato la sua influenza nello Stato Ebraico, a conferma che “Israele”, nazione ideocratica artificiale, sotto un certo aspetto funziona come una “società a quote” che ricorda la funzione degli Stati crociati di mille anni fa, con la non secondaria differenza che i ‘crociati’ di oggi sono armati fino ai denti – anche di testate nucleari – e capaci di coinvolgere a loro difesa la principale superpotenza militare, gli Stati Uniti d’America.
In tutto questo, resta da dire qualcosa su quelli che hanno subito le peggiori conseguenze dirette dalla Dichiarazione Balfour, ovvero gli abitanti della Palestina. Cominciamo col dire che forse, anche perché sono rimasti direttamente e pesantemente coinvolti, non sono riusciti a comprendere appieno la dimensione del problema che gli ha rovinato l’esistenza. Essi ovviamente hanno venduta cara la pelle (noi italiani ci saremmo estinti da un pezzo), opponendosi, coi limitati mezzi a disposizione, i tradimenti “arabi” ed un’incredibile faziosità interna, all’esproprio dei loro averi e persino della loro identità. I palestinesi (musulmani, cristiani, drusi eccetera, e persino ebrei!) hanno fatto la fine dei cosiddetti “pellerossa”. Umiliati, raggirati e diffamati anche quando avevano ragione al 100% di fronte a “coloni” che, per continuare la calzante analogia col Far West, somigliano per molti versi ai cowboy, sia come modalità d’intervento in terre non loro sia per l’ideologia “puritana” e “suprematista” che li anima.
I palestinesi hanno perso tutto (a parte le loro dirigenze ben pasciute dall’occupante), eppure, in questo mondo orwelliano di parole usate per esprimere il loro esatto contrario, dovrebbero perennemente “scusarsi” per non aver “accolto” i “poveri ebrei”, tant’è vero che la tesi dominante nella scuola e nell’intrattenimento mediatico è quella del “rifiuto arabo” che fa pendant con lo slogan della “terra senza popolo per un popolo senza terra”.
Trascorsi cent’anni dalla Dichiarazione Balfour, al di là di tutto, possiamo senza dubbio affermare una cosa: che il popolo senza terra è quello palestinese!
https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=59878
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