Era la sera di mercoledì, 13 marzo 2013 quando Jorge Mario Bergoglio, che era stato appena eletto papa e aveva scelto per sé il nome di Francesco (scelta che, finora, nessun pontefice aveva mai fatto, evidentemente per modestia, data la sublime altezza del modello rappresentato dal Santo di Assisi), si affacciava dalla loggia centrale della Basilica Vaticana per pronunciare il suo primo discorso pubblico, sotto forma di saluto inaugurale e di benedizione apostolica Urbi et Orbi, adottando un tono e uno stile di comunicazione che non avrebbe più smentito e che suscitarono, fin da subito, reazioni fortemente contrastanti.
In quella breve allocuzione, c’era già il programma di massima del nuovo pontificato; c’erano già le linee pastorali, se così possiamo chiamarle, che avrebbero ispirato la sua catechesi; e c’era il suo stile, inconfondibile per la sua impronta vistosissima di laicismo e di populismo piacione, demagogico, per quella sua ricerca esasperata della popolarità a buon mercato, per quell’inseguire strenuamente un consenso da stadio, incentrato sulla sua figura e sul suo modo di porsi, non certo sulla centralità di Cristo o sulla insostituibilità della dimensione soprannaturale. E c’erano i suoi silenzi, le sue idiosincrasie, i suoi pruriti, i suoi fastidi; c’era la sua viscerale avversione per ciò ch’egli chiama, stigmatizzandolo come il peggiore dei vizi, il “clericalismo”, ma che, fino a ieri, era un tratto specifico e qualificante del sacerdozio, per non parlare del papato. C’era tutto il suo disprezzo per il cattolicesimo tradizionale, quello di sempre, fatto di persone, consacrate e no, che sentono di essere partecipi di un comune destino, che hanno una storia, una tradizione, una identità ben precisa, e che, pur senza contrapporsi ad alcuno, hanno una loro visione del mondo da portare avanti, hanno dei valori loro propri, e non temono di scontrarsi, se necessario, con il sentire e con il desiderare del mondo, per esempio sui temi scottanti, ma ineludibili, del divorzio, dell’aborto, dell’eutanasia.