Se un parroco è "linciato" per aver detto una verità
Dire la verità sul matrimonio può costare molto caro. Soprattutto se si è sacerdoti e se si vive come in una bolla, immuni dalle ultime tendenze in fatto di divorzio e indossolubilità. Può capitare ad esempio che si possa essere "linciati" da alcuni parrocchiani e dai giornali per avere detto semplicemente come stanno le cose. A Camposanto, in provincia di Modena il parroco don Walter Tardini non avrebbe mai immaginato che una delle sue ultime omelie avrebbe provocato la reazione scandalizzata di qualche parrocchiano.
Di che cosa si è macchiato il sacerdote? Di aver detto una ovvietà, comprovata da decine e decine di studi anche scientifici. E cioè che i bambini di genitori divorziati soffrono molto di più dei bambini di coppie stabili. Apriti cielo. A dare fuoco alle polveri ci ha pensato la Gazzetta di Modena che, imbeccata da un parrocchiano fuggito scandalizzato da quella messa, ha prima modificato le parole del parroco, attribuendogli la frase – mai pronunciata - che i “figli dei divorziati sono dei reietti della società” e poi, non contenta, gli ha sguinzagliato in paese la cronista a caccia di fedeli indignati col reverendo.
Ne ha trovati? Certo, secondo la miglior prassi del giornalismo d'autore, tutti in forma anonima. Tutti pronti a dire che quel parroco è un pericoloso tradizionalista e integralista. “A me, ad esempio – dice un fantasma – disse in confessione che ero in peccato mortale perché dopo il divorzio convivo con un uomo. Mi ha fatto sentire sporca”. Il peccato sporca l'anima, in effetti, ma qui l'operazione è tutta giocata sul filo della mediaticità. Il sacerdote infatti viene fatto passare per l'ultimo giapponese che ancora non si è accorto che la guerra sulla morale è ormai finita e bisogna gettare la spugna.
Invece lui, che fortunatamente non ha internet, è stato informato soltanto alcuni giorni dopo dell'attacco portato dal giornale. E non si è scosso più di tanto. Come testimonia la telefonata che la Nuova BQ gli ha fatto per chiedergli come sono andate le cose.
“Ovviamente non ho detto che i figli dei separati sono dei reietti – spiega – ma che soffrono più degli altri. E' forse sbagliato? E' forse falso?”. Falso no, ma sbagliato sì, perché questa è una delle espressioni da matita blu che proprio non si devono dire se si vuole continuare a starsene al calduccio a vivere una vita senza grattacapi.
E la faccenda della Comunione rifiutata alla donna convivente? “Cos'altro avrei dovuto fare? Chi è separato e si accompagna non vive in Grazia di Dio. Io incoraggio a continuare a pregare, ad andare a messa, a cambiare vita, ma i Sacramenti no. Forse che queste cose non si possono più dire? E' la verità e lo dice anche la celebre canzone: la verità ti fa male, lo so”. Però salva, aggiunge.
Il parroco non sembra per nulla impensierito dal dibattito nella Chiesa sull'accesso alla Comunione per i divorziati “risposati”. “E' forse cambiato il Catechismo? Non mi risulta: quel che prima era bene anche oggi è bene e quel che prima era male anche oggi è male”.
Lapalissiano. Ma vallo a spiegare alle prefiche della neochiesa secondo le quali adesso che c'è Papa Francesco tutto è cambiato. “Per la verità io questo problema non me lo pongo. I miei parrocchiani neanche ci pensano a queste cose e sanno che si va in chiesa come si va dal medico: più uno è ammalato più ne ha bisogno e più la verità sul suo male, fa male. Ma il medico è Cristo, non io. Anche nel caso dei bambini con genitori separati io li ascolto, me ne prendo cura, sono attento alla loro anima, perché so che sono più vulnerabili degli altri. Chi fa polemica su questo francamente non ha capito niente dell'amore umano e probabilmente non vuole capirci niente. Io non so che farci. Il fatto è che ognuno oggi può sentirsi in diritto di cambiare la dottrina a proprio uso e consumo. Mah, si vede che queste cose devono accadere”.
Invece può accadere che un giornale definisca choccante una omelia nella quale si ribadisce la verità evangelica di sempre. Come se al giornale del Gruppo l'Espresso fosse stata consegnata una laura honoris causa in Teologia.
Resta però un fatto: un parroco non è più libero di dire la verità sul matrimonio. E questo pone un problema di libertà religiosa e prima ancora di libertà di pensiero. Anzi, dopo il linciaggio, don Tardini ha ricevuto la solidarietà pubblica di un solo confratello dell'intera arcidiocesi. Le cose sono due: o certe verità certi parroci hanno smesso di dirle da tempo, oppure a Camposanto ascoltano le prediche dei loro preti. E' questo il dato più choccante.
Andrea Zambrano
http://www.lanuovabq.it/it/se-un-parroco-e-linciato-per-aver-detto-una-verita
Arcobaleno sull'altare e migranti al posto della Via Crucis
Arcobaleno sull'altare della parrocchia Regina Pacis, Monza
Se ci lamentiamo per le liturgie creative stiamo sbagliando in pieno. Sì, perché i preti tutto sono tutto tranne che creativi. No, no, sono monotoni e ripetitivi, noiosi fino allo sfinimento, appiattiti come gregge sull’ultimo grido del clericalmente corretto. Ormai sono anni che approfittano dei presepi per «lanciare un messaggio», e questo messaggio è sempre lo stesso: i migranti. Gommoni al posto delle mangiatoie, barconi al posto delle grotte, il trio Gesù-Maria-Giuseppe in versione afro, e sempre la solita solfa monocorde, il solito faro puntato sulla «tragedia» dei migranti, tanto per tirare la volata alla Caritas che, con le Coop, con l’«accoglienza» ci va a nozze.
Ora, passato il Natale, i migranti in chiesa sono finiti nelle Stazioni della Via Crucis. A Monza, capoluogo della Brianza, due passi da Milano, parrocchia Regina Pacis. Al collettivo dei preti della comunità pastorale, all’unanimità, è parso bene di sostituire i quadretti della tradizionale Via Crucis, quei quattordici che in tutte le chiese punteggiano a intervalli regolari le pareti, con foto di migranti. I quali, data la nostra situazione geografica, ormai sono tutti africani. Poi, tanto per non farsi mancare nulla, sull’altare è stata messa la bandiera arcobaleno. Che – non malignate - non è solo quella dei Lgbt, ma anche il simbolo – da qualche tempo a questa parte - del pacifismo. Forse che la parrocchia non è intitolata alla Regina Pacis (=della pace)? Dunque… Sì, ma qualche parrocchiano si è scocciato di queste melensaggini politicamente corrette. E si è lamentato. In effetti, sarebbe ora di finirla con questi preti che considerano le chiese e la liturgia di loro esclusiva proprietà e hanno ripristinato la definizione giustinianea del corrispondente diritto: «jus utendi et abutendi». Che, tradotto alla larga, sarebbe: la chiesa è mia e ci faccio quel che mi pare. I fedeli in disaccordo hanno mugugnato; quelli di osservanza leghista, che da quelle parti non sono pochi, hanno alzato la voce. E hanno definito «giusta e comprensibile» la decisione di quei fedeli che hanno espresso la loro opinione coi piedi, alzando i tacchi e uscendo di chiesa.
Ora, poiché la bella trovata della new-viacrucis e del drappo multicolor i preti della comunità pastorale implicata l’anno escogitata all’unanimità, il segretario della Lega sta pensando di adire l’arcivescovo. Anche perché alla cerimonia inaugurale del colpo di genio era stato invitato anche il locale imam, il quale ha recitato una sura del Corano. Il parroco, sentito dal «Giornale di Monza», ha risposto: «Ci dispiace che non sia stata capita la forza di questo messaggio». Che la «forza» sia con lui, perché a noi il «messaggio» pare proprio banale e ritrito. Non solo. Questa cosa che nessuno ha capito, tranne i preti ideatori del «messaggio», sa tanto di disprezzo clerical-chic per il popolo-bue che non si commuove come lor signori per la ria sorte del migrante. Il quale è ormai diventato una sorta di Vitello d’Oro, a cui ripetere incessantemente santo-santo-santo. Mah. Certo, prima, di noioso e ripetitivo c’era solo l’omelia, nella quale il celebrante meno aveva da dire e più lo diceva, così da estenuare per venti-venticinque minuti l’uditore obbligato a stare seduto e zitto per tutto il tempo. Ora ci si mette anche l’arredo, così che il tedio sia totale. Aridàteci gli anni Settanta, quando tra i preti furoreggiava il comunismo e al posto del migrante c’era l’operaio. Ricordate? Allora san Giuseppe era un lavoratore. Oggi è diventato profugo.
Rino Cammilleri
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