Presentazione del Centro Studi Federici
Il silenzio vigliacco sui 50 preti e frati massacrati dai partigiani comunisti nelle foibe: queste vittime non interessano ai professionisti della memoria, forse perché erano al servizio della Chiesa Cattolica e non della Sinagoga.
Mons. Antonio Santin (1895-1981), vescovo di Fiume e poi di Trieste e Capodistria,
benedice i resti delle vittime massacrate nelle foibe dai comunisti.
I sacerdoti massacrati nelle foibe
Fra le molte e molte migliaia di assassinati nelle foibe vi furono almeno 50 sacerdoti.
Ranieri Ponis ha dedicato alla vicenda una monografia, intitolata “Storie di preti dell’Istria uccisi per cancellare la loro fede”, pubblicata dalla Litografia Zenit.
Gli invasori slavi difatti cercarono di colpire anzitutto coloro che erano a vario modo parte della classe dirigente italiana o comunque punti di riferimento e di aggregazione, quali gli intellettuali, i politici, gli imprenditori, gli insegnanti, gli ecclesiastici.
L’odio nei confronti di questi ultimi derivava anche dalle convinzioni ideologiche dei partigiani jugoslavi, essendo Tito all’epoca stretto alleato di Stalin.
Dopo il totale annullamento di ogni organo civile e militare italiano in Venezia Giulia e Dalmazia, erano rimasti sul posto soltanto vescovi e sacerdoti in grado di rappresentare la popolazione italiana, la quale era solitamente molto religiosa.
È indubbio che, fra le cause che indussero all’Esodo gli Italiani della Venezia Giulia, un ruolo importante lo abbia svolto la persecuzione religiosa, che fu portata avanti anche con il preciso intento di spingere gli Italiani ad andarsene.
L’idea di colpire gli “allogeni” nella loro fede religiosa era stata formulata già nel cosiddetto “manuale Cubrilovic”, originariamente pensato dal suo autore per scacciare gli albanesi mussulmani dal Kosovo, ma che finì applicato da costui, divenuto un’alta personalità del regime di Tito, contro gli italiani.
Ostacolare od impedire la pratica religiosa, ed assieme emarginare, scacciare od uccidere il clero italiano, rimasto a costituire unico “ceto dirigente” degli italiani dinanzi agli invasori, era quindi funzionale a terrorizzare ulteriormente i giulio-veneti di ceppo italiano, colpendoli assieme nelle convinzioni cristiane, di solito radicate, e nei loro ultimi rappresentanti, gli ecclesiastici.
Il “manuale Cubrilovic” suggeriva infatti di scegliere quali bersagli privilegiati i membri più rappresentativi ed autorevoli della popolazione nemica.
Il massacro dei sacerdoti italiani iniziò già nel settembre del 1943, quando le bande degli slavi presero temporaneamente controllo dell’Istria. In quel mese un gruppo di partigiani slavi sequestrò il parroco di Villa di Rovino, don Angelo Tarticchio, imprigionandolo nel castello Montecuccoli a Pisino d’Istria, che era stato adibito a carcere.
Don Tarticchio finì con l’essere ucciso dopo pochi giorni di reclusione in una fucilazione di massa. I corpi dei fucilati vennero scaraventati in una cava di bauxite. Le salme erano state legate fra di loro con filo spinato e sul capo dell’ecclesiastico era stata collocata una corona anch’essa di filo spinato.
Fra gli altri sacerdoti ammazzati dagli invasori già nel ‘43 si ritrova don Placido Sancin, parroco di San Dorligo della Valle, che fu rapito dai partigiani slavi nell’ottobre del 1943 e sparì nel nulla. Potrebbe essere stato gettato nella foiba di San Servolo, posta nei pressi di San Dorligo, poiché nella cavità sono stati ritrovati indumenti ecclesiastici.
Analogo destino toccò a don Giuseppe Gabbana, cappellano militare della Guardia di finanza, che fu ucciso da una banda il 2 marzo del 1944 nella sua abitazione a Trieste.
Dopo aver aperto fiduciosamente la porta, non sospettando di trovarsi dinanzi a sicari giunti ad assassinarlo, fu massacrato a colpi di mitra e di calcio di fucile.
Vi furono poi fra le vittime dei partigiani don Nicola Fantela affogato a Ragusa con la pietra al collo il 25 ottobre 1944, don Giovanni Dorbolò, infoibato il primo maggio 1945.
Don Francesco Bonifacio nato a Pirano il 7 settembre 1912, soprannominato “el santin” in seminario ed ordinato sacerdote a Trieste il 27 dicembre 1936, fu rapito da un gruppo di “guardie popolari” e militari slavi l’11 settembre 1946. Le informazioni sul suo assassinio, conosciute con molta fatica, permettono di sapere che i titini lo picchiarono, lo denudarono, lo lapidarono ed infine lo uccisero a colpi di coltello. Il corpo forse fu bruciato, forse fu scaraventato nella foiba detta Martines. La salma non fu mai ritrovata ed il fratello che cercava sue notizie fu incarcerato.
Il vescovo di Trieste, monsignor Antonio Santin, finì quasi linciato nel 1947 a Capodistria.
Una folla fece irruzione nel seminario, fracassando la porta e gettandosi sul prelato, a cui fu strappata la croce pastorale. Poi iniziò un pestaggio durato un paio d’ore. La polizia ossia la “guardia popolare” slavo comunista fu allertata, ma non si mosse. In verità parte dei suoi membri erano fra gli aggressori del vescovo, con abiti borghesi. Le “guardie popolari”, presenti alla scena, intervennero soltanto quando fu evidente che altrimenti il vescovo sarebbe stato ucciso, il che avrebbe danneggiato l’immagine della dittatura di Tito in ambito internazionale. Monsignor Santin fu, dopo essere stato quasi ucciso e ferito al capo, espulso da Capodistria, impedendogli di tenere le celebrazioni religiose per le quali egli si era recato nella città istriana. L’aggressione al prelato fu dovuta al fatto che egli era nella diocesi triestina uno dei personaggi di riferimento cruciali per gli italiani che si opponevano all’invasione slava ed alle mire di annessione titine.
Alle uccisioni od aggressioni contro gli ecclesiastici italiani si sommarono altre violenze. Si ebbero limitazioni o proibizioni dell’attività religiosa (insegnamento, catechesi, celebrazione messe ecc. ecc.) che erano soggette a forti limitazioni e restrizioni, e talora impedite.
Vi furono inoltre distruzioni di edifici sacri, fra cui un buon numero di chiese di notevole valore artistico, di stile bizantino, romanico e veneziano.
La distruzione di chiese romaniche e veneziane rispondeva certo alla volontà dei titini di cancellare persino le tracce visibili del passato italiano della regione, annientandone vandalicamente le stesse opere d’arte, come già era accaduto in Dalmazia, tuttavia si traduceva al tempo stesso nella privazione dell’intera popolazione locale italiana di edifici di culto.
di Marco Vigna
L'articolo è stato pubblicato sul sito del comune di Pignataro (CE)
ed è stato ripreso dal Centro Studi Federici col titolo
La memoria infoibata
ed è stato ripreso dal Centro Studi Federici col titolo
La memoria infoibata
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