Bose, dove fanno buone marmellate (anche di cattolicesimo)
Il riconoscimento cristianamente più azzeccato gli cascò tra le braccia un paio di anni fa. Nel 2016 l’Università degli studi in Scienze Gastronomiche di Pollenzo, quella fondata dal fondatore di Slow Food, ha affibbiato la laurea honoris causa a Enzo Bianchi, l’enogastronomo della cristianità. In effetti, il Monastero di Bose fondato da Bianchi, più che altro, è un agriturismo con i canti di Efrem Siro in sottofondo, un ecumenico parco giochi dove ‘padre’ Bianchi, che sacerdote non è, è un laico che ha fondato una comunità propria, si veste da monaco, perché non è vero che l’abito non fa il monaco, l’abito è tutto, soprattutto in monastero, pardon, soprattutto in tivù.
Ora. Enzo Bianchi, che è diventato, da laico, il megafono della Chiesa di oggi, scrive su tutti i giornali che passa il convento ed è autore di una bibliografia che neanche quel poligrafo di Sant’Agostino – ma un monaco, lo dice la genesi etimologica, è solitario, non dovrebbe starsene acquattato nella propria solitudine innamorata? – quest’anno compie 75 anni e i giornalisti fanno la coda a Bose onorandolo con interviste imbarazzanti, una specie di red carpet in previsione di una repentina santità. L’ultima, sul Sole 24 Ore, stordisce per le ovvietà. “Tante volte mi appoggio a quelle pietre esposte al sole. Mi rimandano il loro calore. In certo senso anche le pietre mi comunicano vita. E io lo sento”, dice il ‘padre’, pronunciando frasi taumaturgiche che potrebbero essere dette da Osho o da Paulo Coelho.
Il punto è questo. Enzo Bianchi, che non guarda la tivù (parole sue) ma cinguetta tutti i santi giorni confetti teologici su Twitter – ma roba tipo “una vita senza passione non è vita e una vita senza ragione è follia” si può scrivere a Bose come a Los Angeles, la può scrivere un buon cristiano come un edonista qualsiasi – è il pioniere di un cristianesimo per vegani, i suoi commenti al Vangelo – li leggete tutti nel sito del Monastero di Bose, una immane autocelebrazione del fondatore – sono senza sale né pepe, pappette per poppanti di Cristo; le ricette per vivere felici propalate sui massimi quotidiani di questo Belpaese dei boy scout (esempio: “La cura per le persone e la ricerca di alleviare la sofferenza ha il primato su ogni teoria o considerazione”) sono ricami sentimentali, roba da devota sartina del qualunquismo.
Enzo Bianchi, buon cristiano ma soprattutto abile prezzemolino (alla faccia del monaco, egli è onnipresente, membro di svariati comitati scientifici, collaboratore in miriadi di periodici, “membro a vita del consiglio d’amministrazione” della ricca Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII, plurifinanziata dalla Regione Emilia-Romagna – recente è il “contributo straordinario” di 1 milione e mezzo di euro spalmato dal 2017 al 2019), eccelle nell’arte della vanità. L’apice accadde per i 70 anni, quando Einaudi pubblicò La sapienza del cuore, “una miscellanea di testi” in omaggio al fondatore di Bose, autoinzuccamento con agiografia agghiacciante, tra libro Cuore e salmeggio da stadio ‘santo subito’ (“è abbastanza raro che il 3 marzo non cada in Quaresima, ma in quel 1943 che vide nascere Enzo Bianchi si era nell’ultima settimana di carnevale. Eppure c’era poco da festeggiare a Castelboglione come in casa Bianchi…”), repertorio di biglietti d’auguri – dal Cardinal Bertone, oggi non proprio in buona luce, al Patriarca Bartolomeo – manco fosse un capo di stato, e inchini tripli da parte di vari, tutti vip, comunque – il ‘padre’ ci tiene al pedigree, evidentemente – da Rosy Bindi a Ivano Dionigi, da Elsa Fornero a Ernesto Ferrero e Ezio Mauro. Fioriera di odi che, giustamente, fece andar fuori di cervello Alfonso Berardinelli, “di fronte a Enzo Bianchi questi stessi intellettuali perdono misteriosamente ogni ritegno e senso delle proporzioni trasmettendo l’idea, la certezza che il priore di Bose è un incomparabile genio della spiritualità, un faro del cristianesimo” (sul Foglio).
Il cristianesimo Legoland di Enzo Bianchi piace un po’ a troppi – soprattutto agli atei – perché è meno complicato di quello evangelico, è liofilizzato, a basso tasso d’interesse intellettuale (“I magi raffigurano l’essere umano disposto a mettersi in cammino, e a farlo insieme ad altri, per trovare senso alla propria vita”, scrive il ‘padre’ a proposito dell’Epifania, su La Stampa, impanando le buone nozioni che sanno anche i tonti), è un condominio dove possono stare tutti senza troppo penare né pensare, un condono del dolore (perché, mi domando, da uomo destinato agli inferi, più che farsi una cosa da sé non si ha il coraggio di obbedire a ciò che già c’è?).
In sintesi. Tanti inchini alle edizioni Qiqajon nate per impulso di Enzo Bianchi – ma dove, vanità delle vanità, il ‘padre’ ha la cattiva abitudine di autopubblicarsi. Detto questo, il Monastero di Bose è un albergo. Lo dice anche la regola dell’‘ordine’, “L’ospitalità non è un servizio accidentale: è un ministero che eserciti in nome di Cristo al mondo”. Solo che a Cristo, l’obolo, lo devi pagare, come a Caronte. A Bose puoi andare, dormire, passeggiare. Basta che scuci. Con quello che hai, perdio, “per le spese dell’ospitalità chiediamo a ciascuno di partecipare liberamente nella misura delle sue possibilità”. E se non vuoi pregare, meglio ancora. Puoi comprare le marmellate (intorno ai 6 euro al barattolo), l’olio (dai 5 ai 12,50 euro), la mostarda di uva (9 euro) e tante altre assortite bontà. Se non volete andare fino a Bose, comprate on line, questo è il cristianesimo nell’era dell’iPhone. Più che un monastero, Bose è una specie di Eataly con inservienti vestiti da monaci, a tema, per galvanizzare gli ospiti all’acquisto.
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I maestri spirituali, quelli veri, non dicono di praticare il silenzio. Stanno zitti. Non dicono di abitare la solitudine. Stanno da soli. Non vanno in tivù, non scrivono sui grandi quotidiani, non hanno vertiginose bibliografie né onorificenze multiple. Stanno verticali sull’eremo dell’umiltà. Si fanno fuori dal tempo. Ho avuto la fortuna di incontrare un vero maestro spirituale, un autentico ‘padre’. Antonio Maria Lazzarin, frate e sacerdote dei Servi di Maria – con delle Regole di commovente bellezza: perché farne di nuove quando ce ne sono di così meravigliose? – ha fatto l’eremita per 15 anni nelle colline pesaresi, poi, per obbedienza, s’è dato a fare il professore di religione in una scuola. Facevamo così. Ogni settimana io gli lasciavo un biglietto con una domanda. La settimana dopo me lo restituiva pieno della sua scrittura incerta, sciancata. Mi ha scritto cose incuneate, aliene alle falangi della Provvidenza. Alla mia domanda, felice e banale, perché il male?, fra’ Antonio mi risponde, “Il male che in linguaggio religioso si chiama peccato o ingiustizia, è prova che la libertà esiste. L’uomo biblico che porta il nome di Adam (terra rossa) è l’uomo riportato all’inizio del mondo e del tempo, l’uomo di sempre, fotografato come creatura destinata a farsi nella libertà. Consapevole di questa dote, ne avverte il fascino e la enorme potenzialità, ma giovane, inesperto e trasgressivo, travolto dal sogno di onnipotenza, finisce, caricatura del suo vero destino, per diventare prepotente con i deboli, ossequioso con i forti, inventore di morte per i fratelli. Perché sia avvenuto così nessuno potrà mai saperlo con certezza”.
Di risposte di fra’ Antonio ne ho decine, sono il mio abbecedario. Quando ci siamo lasciati – lui troppo estremo agli occhi dei confratelli, io impenitente senzadio – mi ha regalato due libri. Il primo sono le Opere spirituali di Charles de Foucauld, che partì per convertire i Tuareg e fu ucciso da costoro, dopo aver scritto, “il nostro annientamento è il mezzo più potente che abbiamo per unirci a Gesù e fare il bene alle anime”. Il secondo libro è Detti e fatti dei Padri del deserto, edito da Rusconi, per la cura dell’inestimabile poetessa Cristina Campo. “I detti e fatti dei Padri furono raccolti in ogni tempo con estrema pietà perché erano quasi sempre noci durissime, inscalfibili, da portare su di sé tutta la vita, da schiacciare tra i denti, come nelle fiabe, nell’attimo dell’estremo pericolo… intorno a questi grandi leoni giacenti dello spirito, il mondo delle forme, come quello della parola, è pressoché abolito e dunque più terribilmente violento”, scrive la Campo. I testi ‘del deserto’ sono un refrain a Bose, li editano anche loro, per Qiqajon. Ma è bene leggere la versione dell’imperdonabile Campo. A Enzo Bianchi dedichiamo questa folgorante epigrafe, “Coloro che vogliono compiacere agli uomini, uccidono gli uomini”. Il cristianesimo è una via ardua, aspra, vive di insussistenze, di sussulti tra gli inferi del dubbio, tra esilio e deserto. Si fa tra i tremori, non nell’enogastronomia di Bose. Non possiamo non dirci cristiani.
Detti e fatti dei Padri del deserto, a cura di Cristina Campo e Piero Draghi, Rusconi, 1975
di Davide Brullo
Fonte: Linkiesta
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