https://mr.comingsoon.it/imgdb/PrimoPiano/38483_hp.jpg |
Come Google e Facebook combattono la piaga dell’antisemitismo sul web
Chi c'era e cosa si è detto al panel "Sfide delle piattaforme digitali" all'interno della Conferenza sull'antisemitismo che si è tenuta alla Farnesina
Esistono paesi, anche dell’Occidente sviluppato e democratico, in cui l’antisemitismo sta nuovamente emergendo, e dove gli individui di fede ebraica vivono nella paura. Di riflesso, ciò porta a credere che l’odio che si diffonde in rete, spesso di carattere antisemita, sia al contrario una realtà soltanto marginale, riservata a soggetti particolari. E dei quali, di conseguenza, possiamo anche non interessarci. “Non è così”, ha invece reagito nel corso della Conferenza degli Stati sull’antisemitismo – che si è svolta ieri 29 gennaio alla Farnesina – Robert Singer, amministratore delegato e vicepresidente del World Jewish Congress, ovvero il “braccio diplomatico del popolo ebraico”, come loro stessi si definiscono, fondato nel ’36 come federazione delle comunità e delle organizzazioni ebraiche, la cui sede centrale è oggi a New York, ma con uffici in tutto il mondo, anche all’Onu.
Il World Jewish Congress ha infatti individuato, in una ricerca, qual è, in numeri, la pericolosità del fenomeno. Sappiamo per esempio che soltanto nel 2016 sono stati registrati 380 mila post antisemiti. E che ogni 83 secondi viene pubblicato un post con queste caratteristiche, dato che peraltro non fa riferimento a gruppi legati ad attività private. Sono utenti singoli che esternano il loro odio in autonomia e libertà, se tale si può definire, e probabilmente influenzati a loro volta da un contenuto già pubblicato contro la categoria degli ebrei. Di fatto, però, ciò che resta è che ogni minuto, in media, qualcuno prepara un tweet antisemita, un’azione di odio. “È certo che i vostri figli ne hanno già visualizzati sui vostri feed, o magari li vedono regolarmente. Mentre oggi nessuno dovrebbe mai cercare questo tipo di odio”, ha annotato Singer. Il problema è quindi la propagazione incontrollata dei contenuti in rete, in cui rientrano espressioni rancorose, istanze di negazionismo, incitazione all’odio e alla violenza contro gli ebrei. Una media giornaliera di circa 108 post negazionisti sulle principali piattaforme. Senza contare l’umorismo nero, o la simbologia anti-ebraica. Che portano, in un secondo momento, a violenza tangibile.
“Si riconosce il fatto che il problema esiste, nei contenuti pubblicati c’è questa caratteristica”, ha notato con amarezza Singer. Il World Jewish Congress, tuttavia, ha ammesso che quando si parla di questi episodi le aziende rispondono in maniera rapida. Però “le media companies devono prendere le loro responsabilità e chiamare l’antisemitismo con il loro nome. Perché dobbiamo far sopravvivere la memoria dell’olocausto, e non dobbiamo più essere vittime”, ha segnalato il Ceo. Ma come contrastare e punire per legge i responsabili? O meglio, è possibile individuare un nemico? E i social media, quale responsabilità hanno su questa tematica? Sharon Nazarion, vicepresidente iraniana dell’Anti-Defamation League, Ong internazionale ebraica con sede negli Stati Uniti, la cui mission è combattere pregiudizi e antisemitismo facendo informazione e promuovendo educazione e attività legali, specialmente contro la diffamazione, ha chiarito che c’è spesso un incrocio di messaggi tra gruppi estremisti di varia natura. “Mesi fa abbiamo poi presentato un rapporto che spiega come i suprematisti bianchi ottengano finanziamenti: principalmente utilizzando il crowdfunding sui social media”, ha illustrato.
Ovvero il metodo più aperto e inclusivo che esista. “L’anno scorso si sono registrati 12 milioni di post antisemiti su Youtube. Così abbiamo creato linee guida apposite per le società, e nel 2013 abbiamo avuto una svolta, siamo diventati membri del consiglio di Twitter. Abbiamo da lì lanciato un’alleanza tecnologica con le aziende della Silicon Valley, ci siamo impegnati con politici e con le varie companies per contrastare il cyberhate, ma vediamo comunque che il livello di attacchi aumenta, costantemente”. Come prima cosa si è cercato di individuare, almeno in via teorica, quali sono gli approcci condivisi dalle maggiori società di social media. “Lo abbiamo fatto unendo la nostra esperienza alla tecnologia, e alla possibilità di usare molti dati”. Anche se “antisemitismo e hatespeech non vengono accettati su Facebook”, ha ribattuto Aibhinn Kelleher, policy manager di Facebook per l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa, ovvero del team che redige le norme per poter iscriversi e comunicare sul celebre social network. “Noi vogliamo cercare di fare il miglior lavoro. Quando troviamo esempi di linguaggio di odio ci confrontiamo con i nostri legali, ma è vero che ci sono alcuni gruppi particolarmente colpiti”.
L’approccio da seguire deve tuttavia basarsi su una comprensione completa del contesto locale e culturale, ha spiegato. “Noi usiamo strumenti di intelligenza artificiale per una quota limitata di contenuti, come quelli sessuali. In altri casi condividiamo hashtag con altre aziende, per esempio quando ci sono video da rimuovere”. Il rapporto del social di Mark Zuckerberg con l’IA è “già buono”, ha aggiunto Kelleher. “Ma ci auguriamo un maggiore sviluppo in futuro”, nonostante l’hatespeech sia “un fenomeno complesso, e non c’è una macchina che possa debellarlo. Ma siamo pronti e aperti a collaborare su questi temi. Il nostro Ceo ha detto che è importante che se ne continui a parlare a voce alta, perché i nostri figli non siano più coinvolti da pregiudizi”. Di fatto però, il dato che emerge, come ha fatto notare il moderatore del dibattito, il giornalista e conduttore Rai Gerardo Greco, è che l’intelligenza artificiale ha forti limiti. “Non c’è solo un attore che decide cosa entra e cosa non entra nella piattaforma”, ha chiarito Giorgia Abeltino (nella foto), responsabile delle relazioni istituzionali per il Google Cultural Institute.
“Parliamo di Ong, di gruppi culturali, di responsabilità delle piattaforme che portano alla decisione di eliminare alcuni contenuti. Sembra facile ma richiede molta cooperazione. Youtube sta cercando di migliorare il sistema di allerta, e i partner possono segnalare quello che per noi è un contenuto dannoso. Il 75% dei contenuti segnalati sono immediatamente rimossi”. Un tema fondamentale è però quello dell’educazione. Se ne parla infatti spesso come di una delle principali, forse la principale, soluzione a ogni forma di intolleranza, di odio, o di maleducazione, per l’appunto. Ma cosa significa educare, specialmente quando si parla di un grande soggetto culturale come Google, con tutta l’influenza e il potere di indirizzare i navigatori della rete, che tendono alla quasi totalità della popolazione, che detiene? “Spiegare alle persone, soprattutto ai giovani, che l’odio non è solo legato allo stare sui social media”, ha spiegato Abeltino. “Bisogna educare riguardo all’importanza dell’odio online e a come contrastarlo. Se si trovano narrative violente, dobbiamo fare in modo che offrano contenuti positivi, producendo contro-narrative, anche finanziandole. Perché fanno parte dell’educazione e dell’istruzione”.
Si parla cioè dei cosiddetti influencer della rete, ovvero i nuovi opinion leader, creatori di cultura condivisa e quindi di modi di vedere e di intendere il mondo. Perché i social media sono questo: generatori di cultura, di codici, di scambi di contenuti culturali e di interazioni linguistiche tra individui. “I giovani su Youtube seguono coloro che lo usano per creare video, persone che hanno migliaia di fan. Se queste cominciano a parlare in modo positivo, si avrà un messaggio analogo verso chi li segue. Certo, ciò, da solo, non può risolvere tutto, ma in molti casi si è dimostrato efficace”. E “la nostra società dà massima priorità a questo tema nella sua agenda”, ha concluso Abeltino. Poi, in alternativa, ci sono anche le maniere forti. Ovvero l’intervento della polizia postale, termine già di per sé di difficile traduzione letteraria in inglese. Anche perché “in un’epoca come la nostra, dominata dalla rete, il quadro giuridico è troppo poco flessibile per una materia che si muove a una velocità non coniugabile con i tempi giuridici”, ha subito messo in luce Nunzia Ciardi, da alcune settimane nuovo capo della Polizia Postale italiana.
“Quando parliamo di queste realtà, dove i messaggi si muovono a velocità fino a pochi anni fa imprevedibili, con meccanismi di replicazione che consentono a un contenuto falso di giungere a migliaia di persone, capiamo che la sostanza della disinformazione è cambiata”, ha commentato. Quando poi si dice che è sempre stata così, che la disinformazione esiste da che mondo è mondo, il capo della Polizia Postale ci tiene a precisare che non è affatto vero. Che più che di propaganda, oggi, si parla di “propagazione”. “La repressione dei reati è assolutamente sacrosanta ma non basta, occorre uno sforzo complessivo culturale da parte di tutti. Non si tratta di scaricare il tema su un terreno vago e scivoloso. Noi, come polizia del cybercrime, ci siamo assunti un compito che non è proprio nel nostro patrimonio genetico. Ma andiamo comunque nelle scuole, facendo attività di prevenzione, insegnando ai ragazzi a stare in rete, e dicendo loro che la banalità del male passa anche attraverso un like o a una condivisione data senza pensare”. La direzione è quindi quella di “un’alleanza”. Perché oggi, almeno su questi temi, “non ha più senso ragionare in termini di paesi e stati: internet ha sbriciolato ogni confine nazionale”.
Francesco Gnagni PORPORA
http://formiche.net/2018/01/30/antisemitismo-propaga-nel-web/
Auschwitz è in Polonia: il governo deve pagare le vittime della Shoah
“Vietato dire che i lager sono polacchi”. Netanyahu si ribella alla nuova legge: “La storia non può essere cambiata”
Il parlamento polacco ha approvato un disegno di legge che prescrive fino a tre anni di carcere per chi diffama la nazione associando l’aggettivo «polacchi» ai campi di sterminio nazisti o attribuisca alla Polonia i crimini commessi dalla Germania nazista”.
Questo titolo apparso su La Stampa può sembrare strano. Perché il governo polacco dovrebbe punire chi sostiene che i lager tipo Auschwitz sono polacchi? Non lo sanno tutti che essi furono allestiti e amministrati dai tedeschi, durante l’occupazione nazista in Polonia?
Ebbene, no. Possiamo assistere qui, praticamente dal vivo, a un istruttivo “cambio di narrativa”, volto a rendere corresponsabile il popolo polacco della Shoah, onde strappare all’attuale governo di Varsavia ricchissime compensazioni. Pretendono “restituzioni” di beni mobili e immobili del valore di 60 miliardi di euro.
L’ottobre scorso il governo polacco del partito Diritto e Giustizia (in polacco: Prawo i Sprawiedliwość, PiS), evidentemente in risposta di decine di cause legali avanzate da pretendenti alle restituzioni che hanno inondato i tribunali esigendo praticamente migliaia di ettari e palazzi che sarebbero stai “ebraici”, ha proposto una norma: per chiedere tali restituzioni occorre essere oggi cittadini polacchi, discendenti diretti degli espropriati all’epoca, o residenti in Polonia al tempo delle nazionalizzazioni (confische) disposti dal regime comunista.
Incredibile, vastissimo è stato l’urlo di dolore che si è levato da Israele dagli Usa e tutto l’Occidente, dalle centinaia di miglia di eredi veri o presunti che recano la ferita ineliminabile della Shoah sofferta dai bisnonni, e un cognome “polacco”, ma hanno da quasi un secolo rinunciato alla cittadinanza.
Un grido simile non può lasciare insensibile, l’umanitaria Washington. A dicembre, il Senato USA ha varato una legge (ovviamente bipartisan) per cui il governo americano “sorveglierà” minacciosamente se certi stati esteri (leggi: Polonia) stanno adempiendo ai loro obblighi di “aiutare i sopravvissuti dell’Olocausto a identificare e reclamare le loro proprietà”. Fatto approvare il giorno di Hanukkah dal senatore Chuk Schumer (ovviamente J) e dalla senatrice Tammy Baldwin (J e lgbt), il decreto impegna il governo polacco addirittura, in caso di “proprietà senza eredi” – situazione in cui in altri paesi tali proprietà passano allo Stato – di dedicarle “ad assistere i sopravvissuti bisognosi dell’Olocausto, finanziare l’educazione all’Olocausto” eccetera.
Leggere per credere, al punto 3: in the case of heirless property, the provision of property or compensation to assist needy Holocaust survivors, to support Holocaust education, and for other purposes.
Invano il governo polacco ha ricordato agli americani che gli ebrei stanno chiedendo un trattamento speciale in confronto ai milioni di goym che persero vita e proprietà in quella immane, indescrivibile tragedia che fu la doppia occupazione nazi-sovietica, con espulsioni di minoranze e cambi di confini della Polonia che implicarono il ritorno di 2 milioni di polacchi (3 furono caddero a causa dell’occupazione tedesca), e tedeschi cui furono prese le terre. “Su quali basi “, ha protestato Jaroslaw Kaczynski, il fondatore del PiS, “la Polonia dovrebbe decidere che coloro con antenati ebrei siano risarciti, mentre i bielorussi, polacchi, ucraini, i Karaiti di Crimea, i Tatari o i tedeschi, i quali tutti vissero qui prima della guerra, non dovrebbero? Forse che gli attuali discendenti dei polacchi poveri debbono pagare i discendenti di quelli che erano ricchi?”.
Come Varsavia anti-nazista è diventata Negazionista
Sdegno: questa frase “nega la specificità della storia ebraica in Polonia durante l’Olocausto”, ha vibrato d’indignazione la rivista giudaica Tablet: quello della Polonia è Negazionismo!
“L’Olocausto non può essere negato! La storia non può essere riscritta!”, ha tuonato Netanyahu. E intanto Peter Singer, il capo del Congresso Ebraico Mondiale, ha cominciato a riscriverla: “La nuova legge polacca è specialmente odiosa perché sopprime ogni reale valutazione rispetto alla cosa più agghiacciante del tempo di guerra – la quantità di polacchi che furono complici nella distruzione dei loro vicini ebrei”.
Inutile obiettare che i polacchi combatterono i nazisti enormi sacrifici e sangue; che la storia non riesce a identificare un solo “boia polacco di Auschwitz” e se mai gli ausiliari dei Lager nazisti furono ucraini (vedi “Boia di Treblinka”).
Ormai la nuova versione della storia è che quando si parla di Auschwitz, sempre più si dirà “lager polacco della morte”. I polacchi si sono macchiati di Olocausto ed oggi, di Negazionismo. Le conseguenze sono ovvie.
L’Unione Europea è in armi da subito contro il governo “xenofobo e populista”. La grande manifestazione della Festa dell’Indipendenza celebrata dalla Polonia l’11 novembre, è stata accuratamente dipinta dai media come una festa del neo-nazismo europeo. Ma già in aprile, un reportage girato clandestinamente dalla della televisione internazionale TVN (j) mostrava dieci giovani polacchi dieci che “in una casa privata celebravano il compleanno di Hitler (20 aprile) con una torta sopra la quale era disegnata una svastica”. I dieci ragazzotti dieci, ha spiegato il reportage, appartengono ad un gruppo altrimenti sconosciuto chiamato Duma i Nowoczesność, Orgoglio e Modernità (!). Sicuramente allarmante, ma non pare capace di mobilitare quadrate legioni. Abbastanza però perché Leslaw Piszewski, presidente della Unione delle Comunità Ebraiche in Polonia abbia pubblicamente dato la colpa al governo: “Cos’altro deve accadere perché apriamo gli occhi? E le autorità dicono che fascismo e nazismo non sono tollerati in Polonia!”.
Insomma la “narrativa” evolvendosi, ed avendo ormai stabilito che la Polonia è la vera co-autrice dell’Olocausto ed è per giunta Negazionista, deve risarcire tutti gli israeliani, americani, inglesi di origine ebraica che vantano un qualche ascendente in Polonia nel 1939-45. Si è calcolato che se tutte queste pretese dovranno essere soddisfatte, Varsavia dovrà sborsare 62 miliardi di dollari.
Il 27 gennaio ad Auschwitz, durante la celebrazione della “Memoria”, i pochi polacchi presenti si sono sentiti chiedere imperiosamente di abbassare la bandiera polacca perché “ferisce i sentimenti degli ebrei”. Hanno vietato da anni la celebrazione della Messa e il canto dell’inno ploacco nel campo.
Il sacrario di Auschwitz come tempio olocaustico è a esclusiva gestione ebraica.
Al punto che è stato vietato entrarvi alla figlia di Vitold Pilecki (1901-1948): militare, purissimo eroe della resistenza antinazista, che si fece appositamente arrestare dalla Gestapo per farsi internare ad Auschwitz e organizzarvi la rivolta; partecipò poi nel ’44 alla sfortunata rivolta di Varsavia, soffocata nel sangue dai tedeschi sena che i sovietici – a pochi chilometri di distanza – intervenissero ad aiutare gli insorti, perché conveniva loro che fosse sterminata l’Armia Krajowa, l’esercito nazionale antifascista ma anticomunista. Pilecki fu poi giustiziato dagli occupanti rossi nel ’48.
Il governo comunista polacco (1944-1989), innocente.
Naturalmente la “narrativa olocaustica” né vecchia né nuova, racconta che i comunisti polacchi che tornarono sui carri armati sovietici e stabilirono a Varsavia il regime del terrore rosso. Del triumvirato del terrore capeggiato da Boleslaw Bierut, un agente del NKVD, due su tre erano ebrei.
Jacub Berman, spietato capo della Sicurezza e fondatore della ferocissima polizia politica UB (Urząd Bezpieczeństwa), perseguì e mandò all’esecuzione centinaia di membri dell’Armia Krajova ed altri patrioti.
Hilary Minc, che Stalin in persona nominò ministro dell’industria e dei trasporti; la moglie ddi Minc, ha diretto l’agenzia di stampa ufficiale del regime comunista.
Si illustrarono come torturatori :
Shlomo Morel (Garbów, 15 novembre 1919 – Tel Aviv, 14 febbraio 2007), comandante del campo di lavoro di Zgoda a Świętochłowice, in Polonia. “Ufficialmente, le persone prigioniere del campo erano prigionieri politici e tedeschi, ma la maggior parte di essi erano civili – tedeschi e polacchi, incluse donne e bambini. Morirono 1.695 persone durante un’ epidemia di tifo, su 6.000 reclusi. Morel è stato accusato di aver causato deliberatamente la morte di 1695 internati sui 6 mila reclusi, torturando e maltrattando i prigionieri ed evitando di applicare molte norme sanitarie. Nel 1992 scappò in Israele dopo che i media polacchiavevano iniziato a rendere pubblico il caso. Rifiutò di ritornare in Polonia, dov’è accusato di crimini di guerra e crimini contro l’umanita . Israele ha ignorato le ripetute richieste polacche di estradizione, l’ultima delle quali nel luglio 2005″. (Wikipedia)
Roman Romkowski. Il numero 2 di Berman, insieme ad Anatol Fegin (j), Józef Różański (nato Golberg) e Julia Brystiger ( nata Prajs) incanarono il terrore rosso negli interrogatori e nelle torture dei prigionieri. Se l’interrogato era un maschio, la Brystiger si compiaceva di colpirlo sui genitali, in qualche caso fino a farlo morire. “Era famosa per il suo sadismo”, ha testimoniato Anna Roszkiewicz–Litwiniwiczowa, una ex combattente dell’Armia Krajova cduta sotto le sue grinfie, “ossessionata dal trattare sadicamente I genitali, cosa in cui soddisfaceva la sua libido”. Un’altra vittima: “Era un mostro assassino, peggio delle donne guardiane dei lager nazisti”.
Józef Światło, nato Fleischfarb, alto funzionario del ministero di Berman, noto dalle sue vittime come Il Macellaio, alla morte di Stalin nel 1953, andato in Germania Est in visita ufficiale, passò il Muro: e divenne funzionario della CIA e redattore di Radio Free Europe.
https://en.wikipedia.org/wiki/Józef_Światło
Helena Wolińska-Brus, procuratrice militare, ai bei tempi responsabile della condanna e morta di decine di polacchi anti-nazisti (che avevano il torto di non essere comunisti), quando il clima è cambiato se n’è andata a vivere col marito Włodzimierz Brus, altro esponente del regime, n Gran Bretagna, la quale ha sempre rifiutato l’estradizione.
E come dimenticare il celebre Zygmunt Bauman? Filosofo alla moda, sociologo di grido, cattedratico nel Regno Unito, cantore della “società liquida” iper-capitalista e instancabile denunciatore dell’ “antisemitismo” – ma dal 1945 al 1953 fu commissario politico nel Corpo della Sicurezza Interna (KBW), una formazione militare creata per dare la caccia e sterminare i nazionalisti ucraini e quel che restava, in Polonia, dell’Armia Krajova.
Per non farla troppo lunga, concluderemo con Stefan Michnik,giudice militare bolscevico, responsabile dell’arresto, internamento, condanna, torture ed esecuzione di una decina di eroi dell’Armia Krajova – poi fuggito in Svezia dove mai è stato estradato, nonostante un mandato di arresto europeo emanato dal governo polacco nel 2010.
Se ricordiamo questi benemeriti figli della Polonia giudaica, è solo per ricordare che ha comandato per mezzo secolo un governo ebraico polacco comunista: è strano che né questo regime abbia intrapreso allora la restituzione dei beni che adesso gli israelo-americani reclamano dal governo polaco “di destra”, né la Diaspora olocaustica abbia allora inscenato campagne di stampa e propaganda per la restituzione, di cui ora sentono improvvisamente di aver diritto i nipoti delle vittime della Shoah; né il governo americano pretese allora che le proprietà senza eredi fossero destinate ad “assistere iI bisognosi dell’Olocausto” invece di andare allo Stato.
A dire il vero, con quel regime comunista, Repubblica Popolare di Polonia, il governo degli Stati Uniti stipulò un trattato di compensazione nel 1960, con estrasse dai polacchi un pagamento di 40 milioni di dollari di allora – e nell’articolo IV di quel trattato, si precisa che il governo USA rinuncia in futuro a pretendere altre riparazioni. Ma cosa vale la parola di Washington? Chiedetelo ai curdi.
Quanto alle vere vittime della Shoah, ne sopravvivono in Israele ancora 200 mila; un quarto di questi vecchietti vivono al disotto del livello di povertà. Non hanno mai visto un soldo delle riparazioni versate per loro dalla Germani. Un audit della Corte Spream ebrica, nel 2008, ha dichiarato che i due terzi dei fondi germanici sono scomparsi nel nulla.
Quello che resterà scolpito nelle memorie è la “narrativa” cambiata, praticamente sotto i nostri occhi, dai padroni del discorso: di Auschwitz, i polacchi sono colpevoli quanto i tedeschi. Se non di più.
Fuck the News!
C'è un termine che mi suona totalmente insopportabile e che evito di adottare: fake news. Sembra che nel pronunciarlo in inglese lo si carichi di verità assolute e inconfutabili. Se si dice con disprezzo "fake news" significa forse che perché è detto in inglese, la notizia risulta ancora più falsa? Se non esistesse il corrispettivo italiano, potrei anche capirlo. Ma costa tanto chiamarle "notizie false"? O "bufale"? No, qui nel paese di quel Job's Act che non dà lavoro, si preferisce chiamare con disdegno "fake news" ogni notizia non omologata ai media ufficiali di regime e alle testate ammiraglie, guarda caso, loro sì, principali propagatori di falsità, mistificazioni, veline, filtri, omissis.
FUCK THE NEWS!- verrebbe voglia di rispondere a questi minus habentes sgovernativi. E dato che le disgrazie non vengono mai sole, il duo Boldrini e Fedeli va per le scuole a decondizionare gli alunni a queste "fake news", apportando la fiaccola della verità (la loro).
Sul sito Voci dall'estero c'è la traduzione in Italiano di un articolo diDaniel Funke da Poynter Institute, uno dei principali centri internazionali di analisi e documentazione sul giornalismo e leader nel campo della formazione, un articolo decisamente critico sul portale creato dal governo italiano contro le cosiddette fake news, iniziativa certamente spinta da timori e preoccupazioni in merito agli esiti delle prossime elezioni. Il prestigioso istituto non nasconde il suo giudizio negativo sul fatto di affidare alla polizia il controllo sulla falsità o la verità delle notizie, cosa che in un regime democratico spetterebbe al giornalismo, quello vero naturalmente. E' interessante nel leggerlo, notare come ci stiano già classificando un "regime di polizia" dove con la scusa di valutare il VERO e il FALSO sul web, Minniti instaura un vero e proprio Ministero della Verità. Un ministero post-orwelliano basato sulla sistematica delazione e segnalazione da parte di eventuali detrattori di fonti non gradite; alla comunista, per intenderci. Udite udite!....
Il portale, annunciato giovedì dal Ministro dell’Interno Marco Minniti, invita gli utenti a fornire il loro indirizzo email, un link alla disinformazione che stanno segnalando e qualsiasi social network su cui abbiano trovato la notizia.
Quindi le segnalazioni vengono trasferite alla Polizia Postale, un’unità della polizia di stato che indaga sul crimine informatico, che le controllerà e – se le leggi sono state infrante – procederà per via legale. Nei casi in cui nessuna legge fosse infranta, il servizio si avvarrà comunque di fonti ufficiali per negare le informazioni false o fuorvianti.
L’esempio fornito da Minniti questo giovedì risale al mese scorso, quando l’ex vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden, affermò che la Russia aveva influenzato il referendum costituzionale italiano del dicembre 2016 – una pretesa che avrebbe potuto venire smentita ricorrendo alla testimonianza dei funzionari dei servizi segreti davanti al Parlamento.
Particolarmente inquietante è "il fatto che la Polizia Postale non dà una definizione di “fake news” da nessuna parte; il comunicato stampa ufficiale si riferisce in modo opaco a “notizie false e tendenziose”. Diffondere quel tipo di contenuto potrebbe essere contrario alla legge se si traduce in una “turbativa dell’ordine pubblico”, e questo lascia alla polizia un forte potere discrezionale su quale genere di informazione sia perseguibile online."
“Questa è una linea molto sottile sulla quale muoversi: in caso di reato, i responsabili possono rischiare fino a tre mesi di prigione“. “Vogliono cercare quelli che diffondono notizie false? E se a farlo fossero giornali importanti e non solo oscure pagine Facebook? ” Così dichiara il giornalista Giovanni Zagni allo stesso POYNTER INSTITUTE.Non è una scoperta né una novità che si voglia mettere le mani sul web, reo di influenzare "menti deboli" e di propagare "bufale" e patacche per l'etere. Gli oligarchi globalisti fautori del Pensiero Unico nel loro utopico (per noi distopico) Governo Mondiale, hanno riserve molto ristrette sulla rete. Cominciamo con Jacques Attali con la sua celebre dichiarazione:
« L'Internet représente une menace pour ceux qui savent et qui décident. Parce qu'il donne accès au savoir autrement que par le cursus hiérarchique. »
"L'Internet rappresenta una minaccia per coloro i quali sanno e decidono (parla degli Illuminati). Poiché dà accesso al sapere in modo alternativo al percorso gerarchico" .
Proseguiamo con George Soros nell'ultimo incontro al World Economic Forum di Davos se l'è presa con i social network e le loro piattaforme: dichiarando tra l'altro: “la loro straordinaria redditività è in gran parte funzione del fatto che evitano responsabilità per i contenuti - che non pagano - delle loro piattaforme. E si è spinto anche nel dettaglio: i social media “ingannano i loro utenti manipolando la loro attenzione e dirigendola verso i propri obiettivi commerciali, provocando deliberatamente la dipendenza ai servizi che forniscono, il che è molto pericoloso soprattutto per gli adolescenti”. Ma non è solo questo: “Nella nostra era digitale le social media company stanno inducendo le persone ad abbandonare la loro autonomia. E le persone senza libertà di pensiero possono essere manipolate con facilità. È un pericolo attuale e ha già svolto un ruolo importante nelle elezioni presidenziali americane”.
Ovviamente lo speculatore ungherese fa il gran sociologo e lo psicologo anti-social non certamente perché ha a cuore la nostra igiene mentale e fisica (e cioè, che a causa di questi marchingegni, la gente trascorre molte ore di sedentarietà).
"Soros non sarebbe probabilmente così indignato per il ruolo dei giganti del Web, se questi non fossero accusati, un giorno sì e l’altro pure, di aver “contribuito” alla vittoria di Donald Trump. Visto che tutti i media, inclusa Fox News, erano contro la sua candidatura, la vittoria del presidente repubblicano è stata spiegata come effetto del passa parola sui social network. Da allora, si rincorrono le famigerate "fake news" e si studiano modi per mettere sotto controllo la rete più informale dei social media. Del presidente Usa, Soros dice senza mezzi termini: “Penso che l'amministrazione Trump sia un pericolo per il mondo (sic!)" (...)
"Soros non sarebbe probabilmente così indignato per il ruolo dei giganti del Web, se questi non fossero accusati, un giorno sì e l’altro pure, di aver “contribuito” alla vittoria di Donald Trump. Visto che tutti i media, inclusa Fox News, erano contro la sua candidatura, la vittoria del presidente repubblicano è stata spiegata come effetto del passa parola sui social network. Da allora, si rincorrono le famigerate "fake news" e si studiano modi per mettere sotto controllo la rete più informale dei social media. Del presidente Usa, Soros dice senza mezzi termini: “Penso che l'amministrazione Trump sia un pericolo per il mondo (sic!)" (...)
"Adesso si capisce anche il perché dei toni sempre più autoritari delle formazioni politiche (come +Europa di Emma Bonino) da lui sponsorizzate: è una vecchia sinistra che ritiene di sapere cosa sia la libertà dei cittadini, meglio dei cittadini stessi. E quindi, nel nome della libertà, finisce col sopprimerla". (La Nuova Bussola).
Concludo con l'ultima trovata di Twitter già denunciata da Marcello Foa. Quello del cosiddetto “shadow banning” ovvero una “censura ombra” o, più propriamente, invisibile, che permetterà di escludere un utente senza che egli se ne accorga ovvero: voi continuerete a twittare ma nessuno vedrà più i vostri cinguettii. Progetto a cui si accompagna l’algoritmo che consente di individuare e di schedare gli utenti in base alle idee politiche , con le conseguenze che potrete facilmente immaginare: quelle gradite all’establishment avranno visibilità, quelle sgradite e anticonformiste saranno confinate in una bolla, private della virtù di Twitter: la viralità.
Anche Facebook dispone di un sistema di policy repressivo: un apposito algoritmo con parole-chiave, vi escluderà dalle chat se non ritenute "in linea". Prima offrono alle masse i loro giocattolini; poi in fieri, ne cambiano le regole a gioco iniziato. Ovviamente non criminalizzo i social che in alcuni casi sono serviti a far rimbalzare rendendo "virali", notizie che i canali ufficiali avrebbero ignorato.
Vorrei però aggiungere qualcosa che può sembrare ovvio, ma che in fondo non lo è. I Padroni del Vapore sono Lorsignori e possono promuovere ma anche censurare, bannare, oscurare, marginalizzare, cambiare l'algoritmo del sistema di policy come vogliono. Dopotutto twitter, FB, Instagram, google+ e altre diavolerie, sono privati e quotati in Borsa.
Noi però possiamo fare moltissimo: ignorarli, boicottarli se è il caso, e liberarci dai loro moduli e modelli di comunicazione. O quanto meno utilizzarli con discernimento.
Cerchiamo pertanto di renderci meno prevedibili e meno controllabili possibile. Un buon sistema è quello di non farsi prendere dalla smania dei modelli di ultima generazione di smartphone, dato che più siamo "attuali", più siamo controllabili.
Inoltre chi insegue troppo il Progresso è destinato ad essere obsoleto. E' questo uno dei crudeli paradossi della Modernità.
Pubblicato da Nessie
VOGLIONO ABOLIRE LE NEWS – Giulietto Chiesa
Giulietto Chiesa sull’argomento delle Fake News e sulla nuova linea di Facebook, che da un lato assegna a “Pagella Politica” il ruolo di determinare se una notizia è vera o falsa, inserendo il famigerato bottone rosso, e dall’altro penalizza le pagine di informazione fino a renderle quasi invisibili nel flusso informativo dei loro iscritti, a beneficio di un mondo fatto di gattini e fotografie di elaborazioni gastronomiche più o meno sofisticate.
Per Chiesa, è necessario costruire un’infrastruttura di rete, una internet italiana, come presupposto fondamentale e prioritario della sicurezza del Paese. E questo lo può fare solo un Governo che venga incaricato da un Parlamento eletto con un mandato chiaro da parte dei cittadini.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.