Neochiesa e l'interpretazione fallace della parabola del buon samaritano. "Ama il prossimo tuo come te stesso" e Gesù non ha detto "più di te stesso" ma come te stesso. Dunque per amare il prossimo bisogna amare anche se stessi
di Francesco Lamendola
Gesù Cristo ha insegnato questo comandamento: Ama il prossimo tuo come te stesso. Non ha detto: più di te stesso; ma ha detto: come te stesso. Dunque, per amare il prossimo bisogna amare anche se stessi; chi non sa amarsi, non sa nemmeno cosa sia il vero amore del prossimo. Sarà solo un masochista che riversa sugli altri il suo bisogno di approvazione, cercando di placare la sua ansia nevrotica di sentirsi "buono" e a posto con la coscienza; anche al prezzo di trascurare se stesso e i suoi cari, quelli che gli sono più vicini, più "prossimi". L'amore del lontano prenderà il posto del doveroso amore di sé e dell'amore del vicino, del figlio, del fratello, creando situazioni disarmoniche, ingiuste, paradossali, assurde.
Gesù ha anche detto: Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini. E, se poi ha ceduto e si è arreso alle insistenti preghiere della donna siro-fenicia, che chiedeva il suo aiuto per la propria figlia, posseduta da uno spirito maligno, nondimeno ha stabilito un principio: che il pane va dato prima di tutti ai propri figli; poi, se ne avanza, anche ai lontani. Non ha detto che il pane va dato solo ai lontani, agli stranieri, né che va dato a loro prima che a chiunque altro; ma tutto il contrario: prima ai propri figli, poi agli stranieri. E siccome si tratta di una nozione elementare, addirittura istintiva, vien da chiedersi perché Egli abbia voluto ribadirla. A nostro avviso, lo ha fatto proprio per evitare fraintendimenti, per evitare che qualche suo discepolo sprovveduto e troppo zelante arrivasse all'eccesso di "amore del prossimo" che consiste nel prodigare tutte le cure allo straniero, ignorando totalmente chi ci è maggiormente vicino. Gesù, nella sua divina intelligenza, sapeva che qualcuno avrebbe potuto prendere troppo alla lettera certi suoi insegnamenti, a rischio di diventare insensibile verso i propri figli e i propri fratelli per una forma sconsiderata di "amore" dello straniero. Ciò che oggi, nondimeno, sta puntualmente accadendo, e proprio nella sua Chiesa e nel suo Nome.
Gesù, nella parabola del buon samaritano, ha voluto toccare il cuore durissimo di certi suoi ascoltatori, facendo loro capire che il nostro prossimo è chiunque si prenda cura di noi, a qualunque popolo o fede egli appartenga; ma non ha voluto insegnare che quella dell'eterno bisognoso è una professione meritevole di eterna compassione e di eterna assistenza gratuita.L'uomo che è stato soccorso dal buon samaritano se ne andava per la sua strada, quando venne assalito, percosso e derubato dai ladroni. Non se l'era cercata: andava per i fatti suoi. Se milioni di persone si avventurano in viaggi pericolosi, non per una necessità reale o un pericolo immediato, ma semplicemente perché attirati dal miraggio di una vita più comoda e con tanti beni a disposizione, coloro nei quali s'imbattono non hanno alcun obbligo di accoglierli, sfamarli, ospitarli, farli entrare nelle loro case, offrire loro una residenza stabile, a discapito del futuro dei propri figli. Questo è un grossolano fraintendimento del comandamento dell'amore: una via di mezzo fra la perfetta stupidità e un rozzo buonismo manicheo, di matrice ideologica, più precisamente marxista: è la solita vecchia storia del "povero" che ha sempre ragione, a prescindere da qualsiasi cosa.
E ora vogliamo descrivere alcuni quadretti di vita quotidiana che si verificano in un raggio di pochissimi chilometri da casa nostra, al ritmo di parecchi ogni santo giorno: vogliamo precisare che nessuno è frutto d'invenzione, tutti si sono realmente verificati o si verificano abitualmente; solo dei più clamorosi, tuttavia, si occupano le cronache locali: quanto alle cronache nazionali, non ci arrivano mai, perché non sarebbe politicamente corretto far sapere al popolo italiano in quali termini sta realmente, oggi, la questione dei cosiddetti migranti. Non si sa mai, c'è il rischio di dare esca al fascismo e al razzismo, che sono sempre in agguato nel fondo oscuro del nostro popolo, e pronti ad esplodere, nonostante il minuzioso e capillare lavaggio del cervello operato da settant'anni di assoluta e incontrastata egemonia culturale della sinistra marxista e, più recentemente, da qualche decennio di crescente totalitarismo catto-comunista, veicolato, da ultimo, dal papa e dalla C.E.I. in prima persona, senza pudore né ritegno.
Prima scena.
Stanza di un medio ospedale di provincia, due donne ricoverate per un parto difficile: una italiana, una islamica. Al momento delle visite, si presenta il figlio della donna italiana, ma l'altra non vuole che entri, non ha il velo, e i parenti di quest'ultima si oppongono con forza. Il figlio protesta, va alla direzione: tutto quello che riesce a ottenere è che sua mamma venga spostata in un'altra stanza. La donna islamica rimane padrona del campo, secondo le sue regole: lei e la sua famiglia hanno imposto all'ospedale il loro volere.
Seconda scena.
Sala d'aspetto del pronto soccorso, nel medesimo ospedale. Ci sono diverse persone in attesa, in gran parte straniere: marocchini, nigeriani, albanesi, eccetera. A un certo punto arriva un italiano che si è tagliato col coltello, un tipico incidente domestico: si mette pazientemente in attesa anche lui. Ma il tempo passa, e non lo fanno entrare. Si accorge che stanno facendo passare numerosi stranieri, arrivati dopo di lui. A questo punto, dolorante, si alza e chiede spiegazioni: gli rispondono di avere pazienza, che bisogna fare così, altrimenti "quelli" piantano una grana colossale, è preferibile dare loro la precedenza, a scanso di complicazioni. Il giorno dopo, riferendoci l'episodio, quell'uomo ci ha confidato: Quando sono tornato a casa, ero talmente offeso e arrabbiato che sognavo il Quarto Reich.
Terza scena.
Sala d'attesa dell'ambulatorio di un medico della mutua. Ci sono diversi pazienti seduti, che aspettano il loro turno. A un certo punto arriva un giovane africano, ben piantato, mentre gli italiani sono quasi tutti persone anziane e male in arnese. Arriva la dottoressa che sostituisce il medico, momentaneamente assente: senza degnare di uno sguardo tutti gli altri, si dirige verso il giovane di colore e gli si rivolgere con tono premurosissimo, addirittura materno; gli domanda se per caso non ha freddo (è una giornata fredda e ventosa), se è abbastanza coperto; gli parla come una madre affettuosa con il proprio figlioletto, gli occhi lucidi per la commozione. Non lo fa passare avanti, ma si relaziona con lui come se di lui solo le importasse qualcosa, e nulla di tutti gli altri. Nella sua mente si è accesa una lampadina: immigrato=bisognoso, e bisognoso=meritevole di tutto il nostro amore, la nostra compassione, la nostra solidarietà. Non importa che tipo d'immigrato sia; se sia un falso profugo, uno che ha lasciato sorelle e genitori anziani per cercare il paese di Cuccagna, e non perché al suo Paese ci fosse la guerra o la carestia. Del resto, se ci fossero, avrebbe vigliaccamente abbandonato i suoi cari, lui giovane e pieno di salute, per mettersi in salvo, per pensare alla sua pelle. Ma tutto questo non conta: è uno straniero, ha la pelle scura: dunque, lui merita tutta la nostra disponibilità, senza "se" e senza "ma". Un vero e proprio razzismo alla rovescia. Gli altri, gli italiani,per quella giovane dottoressa piena di zelo umanitario, sono cittadini di un modo "ricco", perciò sono pazienti di serie B.
Quarta scena.
Un professore in pensione ospita, da anni, sei giovani africani nella sua casa privata. Un bel giorno, dopo alcuni anni di questa routine, con parecchi articoli e servizi elogiativi sui mass media e un riconoscimento formale da parte del Presidente della Repubblica, il professore decide di togliere il disturbo e di andare a vivere, insieme a sua moglie, presso un prete loro amico. Pur avendo quattro figli, ha deciso di lasciare la casa agli immigrati: pensa di aver fatto cosa buona e giusta. Non ci risulta che nessuno abbia mai pensato di ospitare gratuitamente in casa propria dei poveri italiani, neppure nel momento culminante della Grande Recessione del 2011, quando la crisi mordeva a sangue gli italiani più disagiati e i vecchietti e le vecchiette, pensionati con 500 euro al mese, si facevano pizzicare al supermercato a rubare il formaggio e le uova. E, se mai qualcuno lo ha fatto, non se ne sono occupati i mass media, né il Presidente della Repubblica ha speso una parola per elogiarlo. Almeno a quanto ci risulta.
Quinta scena.
Una giovane maestra della scuola elementare si sente dire, da un ragazzino straniero: Se non mi cambi il voto, ti faccio saltare in aria l'automobile. La maestra è preoccupata, ma non sa che fare, a chi rivolgersi. Salta fuori che di episodi così ce ne sono parecchi, ma gli interessati tacciono: a chi potrebbero parlarne? Nessuno li ascolterebbe; e, in ogni caso, nessuno sarebbe dalla loro parte. Se un insegnante viene minacciato, o insultato, o perfino malmenato sul posto di lavoro, mentre stava svolgendo le sue funzioni (di pubblico ufficiale), il problema è tutto suo e deve gestirlo da solo; ma, per carità, senza clamore. Non si deve alimentare la "xenofobia"; e, soprattutto, non bisogna mettere in imbarazzo il preside e la soprintendenza.
Sesta scena
Scuola media di una cittadina di provincia, con un’altissima percentuale di studenti figli di recenti immigrati. Un ragazzino nordafricano viene sorpreso a rubare la bicicletta di un suo compagno italiano. Riunione del consiglio d’istituto e poi… decisione del preside di regalare a quel ragazzino straniero una bicicletta nuova di zecca, evidentemente quale “premio” della sua bellissima azione. Motivazione: il poverino doveva desiderare così tanto una bicicletta nuova per sé, che sarebbe stata una vera crudeltà spezzare il suo sogno. Onestà, risparmio, rispetto dei beni altrui, capacità di attendere, osservanza delle regole: tutto gettato nel cestino dei rifiuti. Complimenti a quel preside e ai suoi collaboratori. Una sola domanda, considerazioni pedagogiche a parte: come sarebbe andata a finire la faccenda del furto, se a commetterlo fosse stato un ragazzino italiano? Quanti giorni di sospensione, quali note di biasimo gli avrebbero – giustamente - appioppato? E, in subordine, un’altra scomoda domandina: chi ha pagato la bicicletta-premio, il preside di tasca sua, o il fondo dell’istituto? Perché, se per caso qualcuno non lo sapesse, la situazione delle scuole pubbliche italiane è tale per cui, non di rado, le famiglie degli studenti vengono esortate dalla segreteria a versare dei contributi volontari, o, quanto meno, a fornire di loro iniziativa i generi di prima necessità, a cominciare dalla carta igienica…
Settima scena.
Nella scuola media di un grosso paese a pochi chilometri dal capoluogo di provincia si presenta il genitore di un ragazzo che è stato richiamato da un professore di matematica per il suo comportamento non adeguato e non conforme ai regolamenti. L'energumeno spinge il professore contro il muro, lo insulta e lo prende a schiaffi, lì, dentro la scuola, davanti a tutti; poi se ne va. E la scuola, che fa? Apre un procedimento nei confronti del professore. Motivo? L'energumeno aveva segnalato alla preside che il professore stava "perseguitando" suo figlio, quindi, spiega la dirigente, quel procedimento è "un atto dovuto" (cosa peraltro non vera: l'atto dovuto è l'accertamento preliminare della verità dei fatti contestati). Intanto il professore, da solo, non la scuola, sporge denuncia all'autorità giudiziaria: scoppia il caso, ne parlano i media. Sia la preside che la sovrintendenza scolastica si dicono "sorpresi" e negano recisamente di aver lasciato da solo quel professore, come lui, amaramente, ha invece dichiarato. Piccolo ma significativo particolare: in questo caso, come in tantissimi altri, i giornali e le televisioni riferiscono il fatto, ma tacciono rigorosamente la nazionalità dell'aggressore. Se fosse un italiano, lo direbbero: lo fanno sempre. Ma se è uno straniero, evidentemente hanno l'ordine, o il "consiglio", di non dirlo. Non bisogna incoraggiare il "razzismo" e, soprattutto, non si deve incrinare il paradigma buonista e immigrazionista di Soros, Boldrini, Bergoglio & Galantino: tutti insieme appassionatamente.
Ottava scena.
A bordo di una corriera che svolge il servizio di trasporto provinciale, alcuni ragazzi marocchini, tutti minorenni, rifiutano di mostrare il biglietto al conducente; poi lo insultano, lo spintonano, lo minacciano. L'autista ferma il mezzo, chiama al telefono i carabinieri. I carabinieri arrivano, salgono sul mezzo, fanno la predica ai ragazzini: poiché sono minorenni, è tutto quel che la legge consente loro di fare. Quelli ridacchiano, forti della loro impunità. La corriera riparte, ma intanto è arrivato un nuovo conducente: quello di prima ha dato forfait, è esaurito, coi nervi a pezzi. La scena che si è appena verificata è solo l'ultima di una lunga serie. Ogni giorno quell'uomo, e tanti altri come lui, vanno al lavoro con uno stato d'animo di estrema tensione, di autentica angoscia, perché sanno che potrà capitar loro qualsiasi cosa, se appena cercheranno di fare il proprio dovere: per esempio, esigere dai viaggiatori dei mezzi pubblici un comportamento educato, o almeno civile, e mostrare il biglietto alla loro richiesta.
Solo rozzo buonismo manicheo, di matrice ideologica marxista? I milioni di falsi profughi in stragrande maggioranza"islamici": un grosso "affare economico" o un grossolano fraintendimento del comandamento dell'amore?
Ama il prossimo tuo come te stesso
di Francesco Lamendola
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LA SOLA VIA: "RITORNARE A DIO"
Filosofia. Ritornare a Dio per ricostruire l’umano. La civiltà moderna, in quanto nasce dal rifiuto, sempre più cosciente e deliberato di Dio, sfocia in una progressiva, inesorabile, distruttiva decostruzione di ciò che è umano
di Francesco Lamendola
Da quando la nostra società e la nostra cultura si sono allontanate da Dio, inseguendo il miraggio di una piena affermazione dell’umano, è accaduto esattamente il contrario di quanto i nostri cosiddetti intellettuali avevano auspicato, promesso, evocato: ciò a cui abbiamo assistito, ciò che abbiamo vissuto, nel corso delle ultime generazioni, è stato un progressivo allontanamento da noi stessi, vale a dire una progressiva perdita dell’umano. La civiltà moderna, in quanto nasce dal rifiuto, sempre più cosciente e deliberato, di Dio, sfocia in una progressiva, inesorabile, distruttiva decostruzione di ciò che è umano; in una crescente alienazione dell’uomo da se stesso e in una sua metodica auto-distruzione, non importa se voluta oppure no. Il rifiuto di Dio implica il rifiuto di ciò che è intimamente umano, perché la relazione con Dio è parte della struttura ontologica dell’uomo: e come non potremmo immaginare un essere umano privo di un corpo, perché sarebbe un puro spirito, o privo dell’anima, perché sarebbe solo un automa, così non possiamo immaginare un uomo che si spogli completamente del bisogno di Dio, perché laddove ciò accadesse saremmo in presenza di un essere post-umano, di una creatura non riuscita, fallimentare, incompleta e infelice: non un semi-uomo, ma un anti-uomo, cioè un “uomo” intimamente, irreversibilmente nemico di se stesso. Sarebbe il peggior nemico dell’uomo che si possa immaginare: dell’uomo avrebbe solo le apparenze e le forme esteriori, ma, nella sua essenza, sarebbe il contrario dell’uomo: l’uomo radicalmente immanente, senza più alcuna scintilla di trascendenza e, quindi, condannato a una vita innaturale, contraria alla sua vera natura, e perciò a una vita perduta. L’uomo moderno è la creatura che sta perdendo se stessa, che ha smarrito se stessa. Si agita di qua e di là, si illude e si dispera, sbatte sempre contro le sbarre della gabbia che lui stesso ha costruito: ma quanto più si affanna e si proietta verso l’esterno, tanto più si smarrisce e si allontana dal suo centro. Il centro dell’uomo non è il suo piccolo io, ma Dio, l’Assoluto. L’uomo è la creatura che ha in sé la nostalgia dell’infinito; ma se la nega, le sue energie si rivoltano contro di lui, creano un corto circuito ed egli stesso si distrugge, si brucia come una falena sulla lampada che l’attrae.
Alcuni abusano della formula secondo la quale la natura dell’uomo sarebbe di non avere alcuna natura. Lo fanno perfino certi teologi, fra gli altri quel don Enrico Chiavacci, del quale ci siamo recentemente occupati, e, in generale, un po’ tutti gli esponenti della cosiddetta “svolta antropologica” nella teologia post-conciliare. La verità è che l’uomo ha una natura indeterminata, non che non ha alcuna natura: la differenza fra i due concetti è sostanziale. Se l’uomo non avesse alcuna natura, potrebbe diventare qualsiasi cosa, ma noi sappiamo che non è così. Può diventare un mostro oppure un santo, questo sì, ma ciò non significa che potrebbe diventarequalsiasi cosa. Non potrebbe diventare, per esempio, l’equivalente di un minerale o di una pianta; neppure nelle forme più gravi di autismo, l’uomo può privarsi da se stesso di un qualcosa che è specificamente umano, anche se indeterminato. La vera natura dell’uomo è l’indeterminatezza, ma sempre entro una certa cornice, entro un certo quadro che è pur sempre tipicamente umano, e di nessun altro essere. Nessun uomo può scegliere di diventare un animale, per esempio, perché, anche se l’espressione è effettivamente adoperata, la verità è che nessun animale sa godere o soffrire alla maniera dell’uomo. E non potrebbe diventare un angelo, e neppure un demone, se non in senso allegorico e figurato, perché gli angeli sono spiritualmente perfetti, mentre i diavoli sono spiritualmente irrecuperabili, ciò che non si verifica, alla lettera, per nessun essere umano, neppure per il più perverso, dato che la redenzione, almeno in teoria, è sempre possibile. Pertanto non si deve abusare della formula secondo la quale la natura dell’uomo è di non aver natura: una natura umana esiste, anche se non è definita e se è compito di ciascun uomo lavorare alla sua costruzione e, quindi, alla sua definizione, sempre nell’ambito di ciò che è umano. Se si vuole, la differenza fra inesistente e indefinito ricorda un po’ quella della geometria, fra infinito e illimitato. Una superficie può essere illimitata, senza perciò essere infinita: tale è, ad esempio, la superficie di una sfera. Una formichina, che cammini su di essa, non incontrerà mai un limite al proprio procedere, ma questo non significa che la superficie di quella sfera sia infinita: al contrario, essa è finita, e può essere calcolata con una millimetrica precisione. Se la natura umana fosse inesistente, sarebbe vuota, e “vuoto” è equivalente ad infinito, perché in entrambi i casi si pone qualcosa che non è suscettibile di misurazione. Non si può misurare ciò che non ha estensione, come non si può individuare ciò che non ha forma. Ma se la natura umana non esistesse, evidentemente non avrebbe forma e se non avesse forma, non potremmo neanche parlare di lei; più precisamente, non avremmo alcun diritto di parlare di una natura umana. Non si può parlare di ciò che non esiste, se non per sottrazione e per negazione. Si può dire: in questa stanza non ci sono elefanti, ma non si può dire: gli elefanti non esistono, perché il solo fatto di parlarne, implica che essi, in qualche modo, da qualche parte, esistono. Magari solo nella nostra mente; questo è un altro aspetto della questione. A rigore, non si può dire nemmeno: gli elefanti volanti non esistono, perché nessuno sa se davvero non esistano: se ne parliamo, vuol dire che esistono, anche solo come ipotesi o come un prodotto della nostra fantasia. Le cose pensate esistono: esistono nella nostra mente. Solo ciò che non è né pensato né pensabile, non esiste. La non esistenza non è il contrario dell’esistenza; è la sua non pensabilità e non dicibilità. Beninteso, la non esistenza di qualcosa per noi, e cioè sempre in un ambito, ampio quanto si vuole, ma comunque relativo; non in termini assoluti. Nessuno può dire, al di fuori delle menti pensanti, che una cosa non esiste affatto, ma solo che non esiste come oggetto pensabile e nominabile. Qui andiamo a sbattere contro il limite della nostra mente, che può pensare le cose solo all’interno di certi parametri e secondo certe regole logiche: la nostra mente è fatta in modo tale da non poter pensare l’impensabile; e tuttavia, a rigore, l’impensabile potrebbe esistere, solo che noi non saremmo in grado di pensarlo né, probabilmente, riusciremmo a vederlo, a percepirlo, se anche ce lo trovassimo di fronte.
Ora, se noi parliamo di una natura umana, prima ancora di vedere in che cosa consista esattamente, dobbiamo ammettere che esiste, altrimenti non potremmo neanche parlarne; meglio ancora, non potremmo nominarla. Nominare qualcosa significa evocare quella cosa. Se parlo dei fantasmi, evoco l’esistenza dei fantasmi; altro discorso è se ci creda davvero, o no; e se esistano fuori della mia mente, o no. Però, se li nomino, li evoco; e se li sto evocando, allora li chiamo all’esistenza, in qualche forma, in qualche luogo. Forse non esistono in questa stanza, ma devono esistere, altrimenti non li potrei né pensare, né chiamare per nome. In questo senso, crediamo, Pirandello affermava che lo scrittore non è colui che crea i personaggi delle sue opere, ma semplicemente colui che li chiama all’esistenza: laddove, da qualche parte, essi già sono. Quel che viene chiamato all’esistenza, passa da una esistenza potenziale ad una esistenza reale: ma non vien fuori dal nulla, perché dal nulla niente vien fuori. Il nulla è il nulla, vuoto, nihil. E se una forma è vuota, quella forma è nulla, non esiste. È evidente pertanto che la natura umana esiste: è una forma, anche se indeterminata e indefinita. Il mestiere di vivere consiste nel dare una forma alla propria natura di uomo, ed è un compito che ciascuno deve compiere su se stesso. Ancora Pirandello, con una certa arguzia, ha osservato che la vita o la si vive, o la si scrive: in questo senso, lo scrittore è colui che, invece di svolgere su se stesso il compito di diventare qualcuno, lo attua nei suoi personaggi, cioè lo trasferisce da se stesso a qualcun altro, che esiste solo nella sua mente. Ma il concetto di fondo non cambia: sia pure attraverso i propri personaggi, anche lo scrittore si applica al compito di dare una forma alla natura informe dell’uomo che è in lui. Nessuno vive e muore senza aver assunto una forma: mostruosa o beata, come abbiamo detto, ma una forma, alla fine, ciascuno l’assume. È la vita stessa che la scolpisce nel volto e nell’anima delle persone; anche nel caso di quelle che non si pongono mai la questione di cosa vogliono diventare e che, perciò, lasciano che siano gli eventi ed il tempo a fare di loro ciò che, alla fine, li caratterizza come esseri umani. In questo senso si può anche dire, senza esagerare, che una bella fetta di umanità è costituita da esseri sostanzialmente casuali, vale a dire che sono la risultante di azioni involontarie e di movimento inconsapevoli. Ciò non toglie che anche per costoro si attui la legge universale, secondo la quale nessun uomo conserva una struttura indefinita, ma tutti, per una via o per un’altra, finiscono per assumere una certa forma, per diventare qualcosa che originariamente non erano, se non allo stato potenziale; nessuno, insomma, può sottrarsi al mestiere di vivere, come lo chiamava Cesare Pavese; che è, poi, il mestiere di diventare questo o quell’uomo determinato, mentre il bambino piccolissimo è ancora un essere umano indeterminato (tralasciando, in questa sede, il problema, puramente biologico, della determinatezza relativa al suo dna, ed anche, in certa misura, quella prodotta dall’ambiente esterno, cominciando dal seno materno rispetto al feto; perché è chiaro che al filosofo interessa quel che l’uomo può e deve diventare una volta fatta la tara dei fattori ereditari e di quelli esterni). E quel che resta è la libertà dell’uomo. Se poi uno non l‘adopera, se lascia che la sua vita, e quindi la sua forma, siano determinati dal caso, ebbene anche questa sarà una scelta, dopotutto:la scelta di non scegliere. Ma è una scelta, e sia pure in negativo. La libertà, infatti, consta di due facce: la libertà di agire e quella di non agire; ma anche chi non agisce, anche chi lascia che altri agiscano su di lui e per lui, ha compiuto comunque un’azione: l’azione di rinunciare a qualcosa che gli è essenziale, perché la vita è movimento, quindi è azione.
Un essere post-umano ? Dio è la Verità, ma la Verità è una !
Giungiamo così alla conclusione perfettamente logica e naturale, che l’uomo, per ritrovarsi e per ricostruirsi, dopo aver perseguito così a lungo la propria auto-alienazione e la propria auto-demolizione, deve tornare a Dio. Più precisamente: deve liberarsi dall’ossessione narcisista del suo piccolo io, per ritrovare quell’io più grande, immenso, infinito, di cui possiede la nozione, la scintilla e la nostalgia: Dio.
Ritornare a Dio per ricostruire l’umano
di Francesco Lamendola
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