Crisi della Chiesa: I "punti di rottura" del Concilio Vaticano II con la Tradizione della Chiesa - Sinossi
Crisi della Chiesa: I “punti di rottura” del Concilio Vaticano II con la Tradizione della Chiesa – Sinossi.
Pubblico qui, modificato in diversi punti e ampliato, il § 1.1 della ‘Introduzione’ a: P. Pasqualucci, “UNAM SANCTAM. Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa Cattolica del XXI secolo”, Solfanelli, Chieti, 2013, pp. 437; pp. 10-18.
I “punti di rottura”da me elencati sono 26, senza pretesa di completezza. I primi 12 si ricavano da mons. Brunero Gherardini: “Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare” (2009) e da: “Quod et tradidi vobis – La tradizione vita e giovinezza della Chiesa”(2010). Si trovano già parzialmente anticipati nel fondamentale testo di Romano Amerio, “IOTA UNUM. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX”, 19862. Senza dimenticare, ovviamente, il contributo essenziale del primo acuto e preciso critico del Concilio, già durante lo stesso Concilio: mons. Marcel Lefebvre, “J’accuse le concile!”(1976); “Ils l’ont découronné (1986). Né le ulteriori, approfondite analisi critiche raccolte negli Atti dei Convegni di “sì sì no no” e del “Courrier de Rome”, organizzati dalla FSSPX; né gli importanti contributi di Don J.M. Gleize FSSPX, del quale voglio ricordare qui, tradotto in italiano: “Vaticano II Un dibattito aperto. Questioni disputate sul XXI Concilio Ecumenico, Editrice Ichthys, 2013. La critica seria e documentata al Vaticano II ha ormai una lunga storia.
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1. Non appare conforme alla Tradizione della Chiesa il significato stesso da attribuire alla costituzione pastorale Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (GS), che sembra nel suo complesso improntata a uno spirito neoilluminista piuttosto che cattolico.
2. GS 22.2 afferma essersi con l’Incarnazione il Figlio di Dio “unito in certo modo ad ogni uomo”, affermazione straordinaria, che sembra estendere l’Incarnazione ad ognuno di noi, divinizzando l’uomo.
3. L’attribuzione a tutti i cristiani, anche a quelli “separati”, della stessa fede in Cristo, equipara impropriamente la fede cattolica a quella di scismatici ed eretici. Lo si nota, in particolare, nel Decreto Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo, il quale addirittura considera “Chiese e comunità separate”, nonostante le loro “carenze”, veri e propri “strumenti di salvezza, la cui forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica”(UR 3.4).
4. GS 24 afferma che “l’uomo è l’unica creatura creata per se stessa”, come se il fine che ha presieduto alla creazione dell’uomo avesse potuto esser qualcosa di diverso dalla celebrazione della Gloria di Dio e di Dio come fine ultimo di tutte le cose.
5. Singolare è la nozione della Chiesa contenuta nel tortuoso art. 1 della costituzione dogmaticaLumen Gentium sulla Chiesa (LG), presentata come “il sacramento ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”, senza menzionare il fine soprannaturale della Chiesa, cioè la salvezza delle anime, l’unico che ne giustifichi l’esistenza.
6. La definizione della Chiesa data da LG 8.2 e specificata ulteriormente in LG 15 e UR 3 e 15.1, afferma che la Chiesa di Cristo “sussiste”nella Chiesa Cattolica e anche “al di fuori del suo organismo in parecchi elementi di santificazione e di verità che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica”: definizione del tutto nuova, che sembra estendere il concetto di Chiesa di Cristo anche a tutti gli eretici e scismatici, esponendosi addirittura all’accusa di eresia in senso formale, perché implica la negazione del dogma dell’unicità della Chiesa Cattolica Apostolica Romana (unica vera Chiesa di Cristo) per la salvezza.
7. L’art. 11 della costituzione dogmatica Dei Verbum sulla Divina Rivelazione (DV) si può interpretare come se negasse il dogma dell’inerranza assoluta dei Testi Sacri poiché afferma che: “i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture“: ”senza errore” si può infatti intendere riferito solo alla “verità” consegnata “per la nostra salvezza”(nostrae salutis causa), riguardante cioè solo precetti religiosi e morali.
8. Nella stessa costituzione sembra di fatto scomparsa l’usuale distinzione fra Tradizione e Scrittura (DV 9-10).
9. La nozione di Tradizione non viene mai definita espressamente; il suo rapporto con la Scrittura non viene chiarito (DV 9), né quello con la Tradizione delle “Chiese d’Oriente” (Decreto Orientalium Ecclesiarum, 1). Vi compare, in aggiunta, un concetto di “tradizione vivente” o “viva”(DV, 8) nebuloso ed ambiguo, poiché, sottolinea mons. Gherardini, “si presta ad introdurre nella Chiesa ogni novità, anche la più controindicata, come espressione della sua vita”.
10. La nuova definizione della “collegialità episcopale” di cui a LG 22, non sembra conciliabile con la Tradizione della Chiesa e crea difficoltà al retto intendimento del Primato del Romano Pontefice. Essa infatti stabilisce, cosa inaudita e fonte di enorme confusione, due soggetti della suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa (il Papa da solo e il Collegio con il Papa) e due esercizi differenziati della stessa (del Papa da solo, del Collegio solo con l’autorizzazione del Papa): “D’altra parte l’ordine dei vescovi […] nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch’esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa, sebbene tale potestà non possa esser esercitata se non col consenso del romano Pontefice”(LG 22.2).
11. Nel decreto Dignitatis humanae sulla libertà religiosa (DH), si afferma un concetto di “libertà religiosa”che non sembra distinguersi da quello laico, frutto dell’idea di tolleranza di origine deistica prima e illuministica poi e del liberalismo politico. Tale concetto appare pertanto non conforme alla dottrina della Chiesa, foriero di indifferentismo e agnosticismo.
12. Questione della nota teologica dei documenti del Vaticano II. Mons. Gherardini (e non è stato certo il solo) non lo considera un Concilio dogmatico, visto che non ha definito dogmi né condannato errori, nemmeno nelle due costituzioni denominate “dogmatiche”, e ha espressamente dichiarato di non esser dogmatico bensì pastorale (vedi la Nota esplicativa previain appendice alla LG: “Tenuto conto dell’uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede e i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali”. Ma appunto non ci sono in nessun documento conciliare definizioni dogmatiche di “punti concernenti la fede e i costumi”. Tuttavia gli apologeti del Concilio lo vorrebbero portatore di una “infallibilità”di nuovo tipo, per così dire implicita nella natura pastorale dei suoi documenti, cosa impossibile poiché il carattere dogmatico di una pronuncia del Magistero straordinario deve risultare da segni certi e comprensibili e non può essere implicito).
13. Per ciò che riguarda la Liturgia, solleva notevoli perplessità il modo nel quale è definita la S. Messa nella costituzione Sacrosanctum Concilium sulla liturgia (SC 47, 48, 106), ove sembrano prevalere le nozioni di “convito nel quale si riceve Cristo”e “memoriale”, in luogo di sacrificio propiziatorio (che ci procura cioè misericordia [propitiatio] presso Dio per i nostri peccati), con l’ultimo articolo che descrive “il mistero pasquale”(nuovo, oscuro ed inusuale nome della S. Messa), come “riunione dei fedeli in assemblea per ascoltare la parola di Dio e partecipare alla Eucaristia e così far memoria della passione, della resurrezione e della gloria del Signore Gesù e render grazia a Dio…”(SC 106). Questo modo di esprimersi sembra presentare la S. Messa essenzialmente come memoriale e “sacrificio di lode”, alla maniera dei Protestanti eretici. Inoltre, le definizioni della S. Messa della SC, tacendo del dogma della transustanziazione e del carattere di sacrificio propiziatorio della S. Messa, non rientrano nella fattispecie condannata solennemente da Pio VI nel 1794, quando fulminò le eresie dei Giansenisti, dichiarando la loro definizione della S. Messa, proprio a causa del silenzio sulla transustanziazione, “perniciosa, infedele all’esposizione della verità cattolica sul dogma della transustanziazione, favorevole agli eretici”? (DS 1529/2629)
Nel decreto Ad Gentes sull’attività missionaria della Chiesa (AG), la variazione del significato della S. Messa appare ancora più evidente: vi si dice che i catecumeni partecipano alla S. Messa ossia “celebrano il memoriale della morte e della risurrezione del Signore con tutto il popolo di Dio [memoriale mortis et resurrectionis Domini cum cuncto Populo Dei celebrant]” (AG 14). Ma allora il “popolo di Dio”non assiste alla S. Messa ma la “celebra”, assieme all’officiante evidentemente; idea che sembra potersi ricavare da SC 48 (“…offrendo la vittima senza macchia non soltanto per le mani del sacerdote ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi…” – corsivo mio).
In questi articoli della SC appaiono già gli elementi della definizione della montiniana Nuova Messa, nello sconcertante, per non dire infame art. 7 della Institutio Novi Messali Romani, del 1969, tuttora vigente: “ La Cena del Signore o Messa è la santa assemblea o riunione del popolo di Dio che si raduna sotto la presidenza del sacerdote per celebrare il memoriale del Signore”; definizione che suscitò a suo tempo le angosciate quanto inutili proteste di tanti fedeli e sacerdoti, e la ben nota presa di posizione dei cardinali Ottaviani e Bacci, a causa del suo evidente carattere protestante.
Vale la pena di confrontarla con quella ortodossa, del Catechismo di san Pio X: “159. Che cos’è la Santa Messa? La Santa Messa è il Sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo che, sotto le specie del pane e del vino, si offre dal Sacerdote a Dio sull’altare in memoria e rinnovazione del Sacrificio della Croce”[1].
14. L’inaudita novità dell’introduzione nella Liturgia del principio di creatività, sempre nella SC, agli artt. 37-40, sia pure in teoria sotto il controllo della Prima Sedes, rivelatosi poi nei fatti quasi sempre accademico. Tale principio è stato sempre avversato nei secoli da tutto il Magistero, senza eccezioni, come cosa nefasta, da evitare nel modo più assoluto, ed è ritenuto da molti il vero motivo del caos liturgico attuale.
15. Il principio di creatività viene corroborato dall’ampia e del tutto nuova competenza attribuita alle Conferenze Episcopali in materia liturgica, ivi compresa la facoltà di sperimentare per l’appunto nuove forme di culto (SC 22 § 2, 39, 40), contro l’insegnamento costante del Magistero, che ha sempre riservato al Sommo Pontefice ogni competenza in materia, quale massima garanzia contro l’introduzione di innovazioni liturgiche.
16. In armonia con il principio di creatività, la SC ha introdotto il principio dell’adattamento del rito alla cultura profana ossia all’indole e alle tradizioni dei popoli, alla loro lingua, musica, arte, appunto mediante la creatività e la sperimentazione liturgica (SC 37, 38, 39, 40, 90, 119) e mediante la semplificazione del rito stesso, che si vuole più breve e più chiaro (SC 21, 34, 65-70, 77, 79, 90). Anche qui, contro l’insegnamento costante del Magistero, secondo il quale è la cultura dei popoli a doversi adattare alle esigenze del rito cattolico e senza che nulla si debba mai concedere alla sperimentazione o comunque al modo di sentire vano e superbo dell’uomo del Secolo. E difatti il rito della S. Messa è oggi frammentato in diversi riti a seconda dei continenti se non delle nazioni, con infinite variazioni locali, ad libitum del celebrante; variazioni (e degenerazioni) che non escludono l’intrusione di elementi pagani nel rito mentre gli occasionali richiami all’ordine della S. Sede cadono in genere nel vuoto.
17. La frammentazione e l’imbarbarimento del culto cattolico sono dovuti anche all’abbandono del latino quale lingua antica ed universale, unificatrice del rito. L’epocale mutazione fu autorizzata da Paolo VI. Ora, la SC ordina di conservare (servetur) “l’uso della lingua latina, salvo diritti paticolari, nei riti latini”(SC, 36 § 1). Ma consente anche di “concedere alla lingua nazionale una parte più ampia”, secondo le norme ed i casi fissati dal Concilio stesso (SC 36 § 2). Inoltre, le norme di carattere generale stabilite dal Concilio attribuiscono alle conferenze episcopali un’ampia competenza per ciò che riguarda l’introduzione del vernacolo nel culto (SC 22 § 2, 40, 54). E numerosi sono i casi nei quali il Concilio concede la possibilità dell’uso parziale o totale della lingua nazionale: SC 63, nell’ammistrazione dei Sacramenti, sacramentali e nei rituali particolari; SC 65, nei riti battesimali, presso i Paesi di missione; SC 76, nella consacrazione dei sacerdoti; SC 77-78, nel matrimonio; SC 101, nelle preghiere dell’ufficio divino; SC 113, nella liturgia solenne della S. Messa. L’uso del latino era ancora la norma ma non si aprivano già molteplici varchi al volgare?
18. La deminutio subìta dal sacerdozio, sulla quale si è soffermato più volte anche mons. Gherardini, inteso dal Concilio come “funzione del popolo di Dio”; declassato, il sacerdote, da “sacerdote di Dio” a “sacerdote del popolo di Dio”, che lo legittima quale sua funzione, sul presupposto scritturale infondato che Nostro Signore, agli inizi, abbia “promosso come ministri alcuni tra i fedeli che aveva raccolto attorno a sé” (Decreto conciliare Presbiterorum Ordinis sul ministero e la vita sacerdotale, PO 2); infondato, perché i Vangeli attestano che Nostro Signore non cominciò a costruire la sua Chiesa “dai fedeli” ma dai sacerdoti cioè dagli Apostoli[2].
19. L’inusitata equiparazione tra sacerdozio ministeriale o gerarchico e quello “comune dei fedeli”(LG 10), che vengono concepiti come “ordinati l’uno all’altro”e quindi posti sullo stesso piano; l’inaccettabile svalutazione del celibato ecclesiastico, del quale si afferma che “non è certamente richiesto dalla natura del sacerdozio”, giustificando l’asserto con un’interpretazione alquanto singolare del pensiero di S. Paolo (PO 16); l’affermazione del pari contraria alla Tradizione della Chiesa, secondo la quale, tra le “funzioni”sacerdotali, il primo posto spetterebbe alla predicazione (“annunciate a tutti il Vangelo di Dio”, PO 4), allorché il Concilio di Trento ha ribadito che ciò che caratterizza il sacerdozio è in primo luogo “il potere di consacrare, offrire e dispensare il Corpo e il Sangue di Cristo”e in secondo “il potere di rimettere o non i peccati”.
20. La deminutio della funzione sacerdotale si comprende alla luce della nuova nozione di Chiesa come “popolo di Dio”, da porre in relazione alla nuova (spuria) nozione allargata di Chiesa, la Chiesa del “subsistit in”, come viene chiamata (vedi n. 6, supra). “Popolo di Dio” invece che “Corpo mistico di Cristo”(LG 8-13), definizione che da un lato scambia la parte per il tutto; scambia cioè il “popolo di Dio”menzionato nella prima Lettera di S. Pietro, 2, 10, per la totalità della Chiesa, mentre si tratta – secondo l’interpretazione tradizionale e consolidata – di una semplice attribuzione di lode rivolta da S. Pietro ai fedeli convertitisi dal Paganesimo (“Voi un tempo neppure popolo e ora, invece, popolo di Dio”). Inoltre, induce ad una visione “democratica”, “comunitaria” della Chiesa stessa, del tutto estranea alla Tradizione cattolica e prossima, invece, al modo di sentire dei Protestanti. Infatti, essa include nella nozione di “popolo”, e quindi in una insolita prospettiva “comunitaria”, anche la Gerarchia, i cui componenti vengono adesso considerati “membri” del “popolo di Dio”(LG 13) e solo a tale titolo sembrano partecipare, insieme col “popolo”, al Corpo mistico di Cristo. Questa nuova e singolare nozione del “popolo di Dio” viene superimposta a quella ortodossa del “Corpo mistico”, al quale si parteciperebbe ora nel collettivo rappresentato dal “popolo di Dio”[3].
21. Tre “punti di rottura”, tra loro collegati: le aperture al femminismo (GS 29, 52, 60) e all’educazione sessuale pubblica (Dichiarazione Gravissimum educationis sull’educazione cristiana, GE 1), giustamente condannata dai Papi precedenti (Pio XI e Pio XII) perché immorale e corruttrice, da lasciarsi al prudente apprezzamento privato di genitori ed educatori; l’elevazione della “comunione di vita e amore”a scopo primario del matrimonio, dato che il fine procreativo ed educativo della prole appare solamente “il coronamento”(fastigium) di questa “comunione”, non il fine esclusivo per cui essa esiste (GS 48).
22. I molteplici, inusuali e fuorvianti riconoscimenti tributati alle religioni non cristiane dal Documento Nostra Aetate. Si dichiara addirittura che esse “non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”(Naet 2.3) e, incredibilmente, si incitano i cattolici a “riconoscere, conservare, far progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si ritrovano nei loro seguaci”(Naet 2.5)! La Dichiarazione (ma anche LG 16 : “adorano con noi un Dio unico”) sembra addirittura riconoscere come autentica la rivelazione proclamata da Maometto e ritenere accettabili la “cristologia”e la “mariologia” fantasiose del Corano (Naet 3). E verso gli Ebrei, sembra credere che Cristo abbia già riconciliato Cristiani ed Ebrei, a prescindere dalla conversione di questi ultimi: supposta conciliazione che rende incerta lateologia della sostituzione, la quale comporta, come sappiamo, la sostituzione radicale del Cristianesimo all’Ebraismo, con la sua falsa attesa messianica temporalistica, tuttora mantenuta (Naet 4).
23. Sull’Induismo, si scrive che in esso “gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia; cercano la liberazione dalle angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza”(Naet 2.2). Questa rappresentazione è del tutto fuorviante poiché induce il cattolico a ritenere valida la mitologia e la filosofia indù, come se esse “scrutassero”effettivamente “il mistero divino” e come se l’ascetica e la meditazione indù realizzassero qualcosa di simile all’ascetica cristiana. Noi sappiamo, invece, che l’impasto di mitologia e speculazione caratterizzante la spiritualità indiana sin dall’epoca dei Veda (XVI-X sec. a. C.) si traduce in una concezione della divinità e del mondo monista e panteista. Infatti, concependo Dio come una forza cosmica impersonale, essa ignora il concetto di creazione dal nulla e, di conseguenza, non distingue tra realtà sensibile e realtà sovrannaturale, realtà materiale e realtà spirituale, fra il Tutto e le cose particolari. Perciò ogni esistenza singola si dissolve nell’indistinto Uno cosmico, dal quale tutto emana e al quale tutto ritorna in eterno, mentre tutto ciò che è individuale sarebbe in se stesso pura apparenza. A questo pensiero, che secondo il Concilio sarebbe “penetrante”, manca per forza di cose la nozione dell’anima individuale (già intuita invece dagli antichi Greci) e di ciò che chiamiamovolontà e libero arbitrio.
Il quadro si completa con la dottrina della reincarnazione, concezione del tutto inaccettabile, condannata esplicitamente nello schema di costituzione dogmatica De deposito fidei pure custodiendo, elaborato nella fase preparatoria del Concilio e fatto naufragare dai Progressisti (con l’acquiescenza del Papa) all’inizio del Concilio, assieme a tutto il resto dell’imponente lavoro preparatorio. La cosiddetta “ascesi” indù appare una forma di epicureismo, la raffinata ed egocentrica ricerca di una superiore indifferenza spirituale verso ogni desiderio, anche buono, e verso ogni responsabilità; indifferenza giustificata con il ritenere che ogni sofferenza sconti le colpe di una vita precedente, come insegnato dalla falsa credenza nella reincarnazione.
24. Sul Buddismo, invece, variante autonoma parzialmente purificata dell’Induismo, si scrive che in esso “viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema per mezzo dei propri sforzi o con l’aiuto venuto dall’alto”(Naet 2.2). È questa l’immagine di un Buddismo alla De Lubac, cioè riveduto e corretto per farlo apprezzare dai Cattolici ignari, i quali non sanno che alla “radicale insufficienza di questo mondo” i Buddisti contrappongono una vera e propria “metafisica del nulla”, secondo la quale il mondo e l’io sono esistenze illusorie ed apparenti (e non semplicemente caduche e transeunti ma tuttavia ben reali, come per il Cristiano). Per il Buddista, tutto “si compone e si scompone” allo stesso tempo, la vita è un fluire continuo pervaso dal dolore universale, per superare il quale bisogna persuadersi chetutto è vano, bisogna liberarsi da ogni desiderio e affidarsi ad un’iniziazione intellettuale, unagnosi simile a quella degli Indù, andando oltre ogni limite fino a permettere l’uso, supposto liberatorio, della cosiddetta “magia sessuale”, nel Buddismo tantrico. Questa gnosi è studiata per conseguire la completa indifferenza a tutto, il Nirvana (“scomparsa”, “estinzione”); una condizione finale di privazione assoluta, in cui non vi è che il nulla, il vuoto; in cui l’io si estingue totalmente per dissolversi nel Tutto. Questo è lo “stato di liberazione perfetta”o di “illuminazione suprema” che il Vaticano II ha voluto proporre all’attenzione e al rispetto dei Cattolici[4].
25. Il grave problema rappresentato da una nozione di verità influenzata dal soggettivismo del pensiero moderno e incompatibile con l’idea stessa di verità rivelata.
a. Nella Dei Verbum, nel completare il discorso sulla “comprensione” delle verità di fede come “comprensione che cresce”, si afferma: “Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio”(DV, 8). Qui si afferma che la Chiesa non possederebbe ancora, dopo venti secoli, “la pienezza della verità divina”, visto che ancora “vi tende incessantemente”! L’idea della verità come “concordanza della cosa con l’intelletto” (Aristotele-S. Tommaso d’Aquino) viene sostituita da quella tipicamente moderna della verità come ricerca (soggettiva) della verità, ricerca che mai si arresta e tende all’infinito. Ma tale idea, a parte ogni altra considerazione, non può applicarsi alla nozione di verità rivelata da Dio, che il nostro intelletto riconosce con l’aiuto indispensabile della Grazia, e che costituisce per l’appunto il Deposito immutabile della Fede. Inoltre, tale idea non è coerente con la verità di fede, secondo la quale la Rivelazione si è conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo.
b. Quest’idea della “verità come ricerca” è alla base dell’attuale deleterio principio del “dialogo”. Essa comporta che la verità “in materia religiosa” debba ora risultare “con una ricerca condotta liberamente, con l’aiuto dell’insegnamento e dell’educazione, per mezzo dello scambio e del dialogo con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca, gli uni rivelano agli altri la verità che hanno scoperta [invenerunt] o che ritengono di aver scoperta “ in ordine alla “legge divina, eterna, oggettiva, universale per mezzo della quale Dio con sapienza e amore ordina, dirige e governa l’universo e le vie della comunità umana”(D H 3.2).
La verità “in materia religiosa” consiste dunque in qualcosa che è “scoperto”, trovato dalla coscienza individuale nella ricerca con “gli altri”, nello “scambio e nel dialogo”reciproci, ove gli “altri”(alii) non sono semplicemente gli altri cattolici ma gli altri in generale, tutti gli altri uomini, a qualsiasi credo appartengano. Questa ricerca ha significativamente ad oggetto la legge divina eterna, posta da Dio nei nostri cuori, cioè la lex aeterna della morale naturale, alla maniera deideisti (coinvolgendo tutti, infatti, non può avere ad oggetto la Verità Rivelata, negata completamente dai non-cristiani e ampiamente deformata dagli eretici).
Questa nuova dottrina contraddice apertamente l’insegnamento di sempre, secondo il quale, per il cattolico, la verità “in materia religiosa” e nella morale è una verità rivelata da Dio e conservata nel Deposito della Fede custodito dal Magistero. Pertanto, questa verità esige l’assenso del nostro intelletto e della nostra volontà, possibile con l’aiuto determinante della Grazia. Essa esige di esser riconosciuta e fatta propria dal credente, non di esser da lui “trovata” con le sue sole forze e per di più in una ricerca comune con gli eretici, gli scismatici, i non-cristiani, i miscredenti, cioè con coloro che negano le nostre verità religiose e morali fondamentali! Qui siamo al di fuori, non solo della fede ma anche della logica più elementare!
c. Il principio non cattolico, che la verità debba risultare da una “ricerca” in comune con gli altri uomini, condotta “in fedeltà alla coscienza” di ciascuno, anche per ciò che riguarda la soluzione di “numerosi princìpi morali”, viene riaffermato in GS 16.2, uno degli articoli chiave per capire la mens neomodernista del Concilio.
26. Per concludere questa breve Sinossi, voglio ricordare i tre punti non conformi alla Tradizione della Chiesa presenti nella Allocuzione inaugurale di Giovanni XXIII, dell’11 ottobre 1962, che hanno sicuramente contribuito ad indirizzare il Concilio nella direzione anomala che poi ha assunto. E cioè:
[1] Una concezione mutila ed erronea del Magistero: “Ora tuttavia, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità. Essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina piuttosto che rinnovando condanne”. Mutila, perché faceva ritenere che il Magistero non dovesse più condannare gli errori ossia usare la sua autorità, che gli viene da Dio per proclamare ed imporre in maniera indefettibile la distinzione tra verità ed errore; erronea, perché la condanna dell’errore, come ha rilevato Amerio, è essa stessa opera di misericordia, sia nei confronti dell’errante, che può così rendersi conto, ravvedersi e salvarsi l’anima, che dei fedeli, difesi dalle insidie e sottigliezze dell’Errore proprio grazie alla condanna dello stesso da parte dell’Autorità competente iure divino.
[2] Una grave commistione della dottrina cattolica con il pensiero moderno, poiché si affermava (nella versione in volgare, più audace di quella latina, ma utilizzata poi pubblicamente dallo stesso Giovanni XXIII) che l’autentica dottrina doveva esser “studiata ed esposta attraverso le forme dell’indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno”, dal momento che “altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che devesi – con pazienza se occorre – tener gran conto, tutto misurando nelle forme e proporzioni di un magistero a carattere prevalentemente pastorale”(concetto ripreso poi in GS 62 e in UR 6). Si tratta di un’impostazione sempre respinta dai Papi per l’evidente, insuperabile contraddizione esistente tra il pensiero moderno, chiuso al Sovrannaturale e votato al principio di immanenza, e “l’antica dottrina”, nella quale non si possono comunque separare “sostanza” e “rivestimento”.
[3] L’enunciazione dell’unità del genere umano quale fine proprio della Chiesa, considerata addirittura, tale unità, “fondamento necessario” affinché la “città terrestre”assomigli sempre più a quella “celeste”: nozione dalla tinta millenaristica, estranea alla dottrina della Chiesa. Ritroviamo l’attribuzione di questo fine improprio alla Chiesa in LG 1 (vedi supra, Nr. 5)[5].
Paolo Pasqualucci, sabato 17 febbraio 2018
[1] Catechismo della Dottrina Cristiana, pubblicato per ordine del Sommo Pontefice san Pio X, rist. Salpan, Lecce, 20032, p. 41.
[2] Vedi: mons. Bernard Fellay, La crisi del sacerdozio, bilancio del Concilio Vaticano II, conferenza tenuta al IV Convegno teologico internazionale di ‘sì sì no no’, Roma 3-5 agosto 2000 (in: Per una vera restaurazione della Chiesa. Atti del Convegno, Ichthys, Albano Laziale 2003, pp. 305-332).
[3] Perdurante il Concilio, così si esprimeva Karl Rahner, Il peccato nella Chiesa, in: Guilherme Baraúna OFM (a cura di), La Chiesa del Vaticano II. Studi e commenti intorno alla Costituzione dogmatica ‘Lumen Gentium’. Opera collettiva, Vallecchi, Firenze 1965, pp. 419-435; p. 426: “Nella Costituzione [Lumen Gentium] il concetto del “corpo mistico di Cristo” è quasi subordinato all’idea del popolo di Dio, con cui Questi ha stretto un’alleanza. Tale concetto sta in primo piano e costituisce quasi il filo conduttore di tutta l’ecclesiologia del Concilio”.
[4] Nei confronti del Buddismo, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso si cominciò a diffondere tra i teologi un atteggiamento di “sympathie admirative”, come scrisse Henri de Lubac, Aspects du Bouddhisme, Seuil, Paris 1950, p. 8. Dopo aver ben chiarito le profonde differenze ed anzi la sostanziale incompatibilità con l’impersonale “carità” (ma in realtà compassione) buddista per tutti gli esseri viventi, virtù sussidiaria della vera gnosi del saggio, che, sola, realizzerebbe la liberazione dal dolore dell’esistenza nell’annullamento finale del “nirvana”( pp. 11-54) – de Lubac, tuttavia, pur costretto a ricordare continuamente le insuperabili differenze tra le due religioni, si inoltra in faticosi ed avventurosi accostamenti sul piano dell’iconografia e del “simbolismo comparato tra l’arte buddista e quella cristiana primitiva”(pp. 55-79; 80-92), per sfociare, nell’ultimo capitoletto (Du Christ et du Buddha, pp. 93-141), in parallelismi molteplici, che insistono in particolare sulla rappresentazione del Logos come “angelo tra gli angeli”e sul modo di intendere la Trasfigurazione da parte di Origene e del Cristianesimo di impronta alessandrina e neoplatonica. Si tratta di assonanze costruite in modo artificioso, tra un continuo dire e non dire (peraltro caratteristico di de Lubac), e quasi esclusivamente sulla base della letteratura cristiana apocrifa, di testi gnostici. Sul vero contenuto delle religioni orientali, del tutto incompatibile con la nostra, vedi l’utilissimo e ben documentato studio a carattere divulgativo di: Corrado Gnerre, Ciò che non si dice della religiosità orientale. A proposito di un fascino dilagante, Studio Editoriale Nives del Miracolo, Benevento, 1997.
[5] Sulla roncalliana Allocuzione di apertura del Concilio, mi permetto di rinviare a: Paolo Pasqualucci, Giovanni XXIII e il Concilio Ecumenico Vaticano II. Analisi critica della lettera, dei fondamenti, dell’influenza e delle conseguenze della ‘Gaudet Mater Ecclesia’, Allocuzione di apertura del Concilio, di S. S. Giovanni XXIII, Ichthys, Albano Laziale 2008, pp. 415.
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