"Un bel tacer non fu mai scritto". La dichiarata predilezione di Bergoglio per il film del regista danese Gabriel Axel "Il pranzo di Babette": una sorta di caricatura dell’Ultima Cena, con un banchetto al cui centro c’è l’uomo
di Francesco Lamendola
Errare humanum est, perseverare diabolicum, si potrebbe dire, a proposito della dichiarata predilezione di Bergoglio per il film del regista danese Gabriel Axel Il pranzo di Babette, del 1987, tratto, a sua volta, dal racconto omonimo, del 1950, delle celebre scrittrice danese Karen Blixen (celebre per via di un altro film tratto da un altro dei suoi libri, La mia Africa; prima, nessuno s’era accorto che fosse una grande scrittrice, e adesso, nonostante il successo clamoroso del film, è tuttora lecito porsi la domanda se lo sia davvero).
Di quel film Bergoglio ha detto in svariate interviste che è il suo preferito; e subito i media lecchini e adulatori si sono gettati sulla sensazionale notizia, accostandola magna cum reverentia alle altre due grandi passioni del papa argentino, il tango e il pallone (se no, che razza di argentino sarebbe; l’ecumenismo va bene solo in ambito strettamente religioso e in funzione anticattolica). Pensate, si sono affrettati a ripetere tutti quanti, partendo da Famiglia Cristiana e arrivando a La Civiltà Cattolica: il papa adora il film Il pranzo di Babette; straordinario, non è vero?
Altro che Giovanna D’Arco, o Dies irae, o Luci d’inverno, o magari il più modesto, ma commovente Marcellino pane e vino: no: Il pranzo di Babette! Pensate: un film ispirato al racconto di una scrittrice protestante, che non solo non ha neanche un’ombra della spiritualità cattolica, ma che è, esso stesso, una sorta di parodia del più grande mistero della nostra religione: l’Ultima Cena di Gesù Cristo e il Sacrificio eucaristico. E, mentre tutti i cattolici progressisti e i modernisti bergogliani si affannavano a magnificare il finissimo senso estetico del falso papa, e facevano a gara, sgomitando addirittura, nel trovare cultura, buon gusto, profondità e sagacia nei gusti cinematografici e nelle scelte estetiche del loro idolo, quest’ultimo ha spinto la sua impudenza fino al segno di citare il suo film prediletto nella esortazione apostolica Amoris laetitia: sì, proprio quella carica di proposizioni eretiche, che ha turbato e gettato nella confusione milioni e milioni di cattolici, che ha suscitato la lettera coi dubia dei quattro cardinali e, poi, la correzione filiale dei teologi e dei sacerdoti. E, di nuovo, è stato un coro di osanna, di ah!, eh!, oh!, uh!, di stupore, di ammirazione, di gioia, di entusiasmo, quasi d’incredulità per una grazia tanto abbondante: che bellezza, non più i soliti Tommaso d’Aquino e i Padri della Chiesa, non solo i libri della Bibbia e i documenti dei ventuno Concili ecumenici, nel bel mezzo di un testo che vorrebbe essere magisteriale (anche se non lo è, dato il piccolo particolare che è invalidato dal fatto di essere eretico), ma un film contemporaneo: questa sì che è apertura, questa sì che è modernità, questo sì che è andare incontro al mondo, dir “basta” al clericalismo, svecchiare antichi ed ammuffiti modi di pensare il Vangelo.
Lo sguardo duro e freddo del falso papa
Ora, a parte il fatto che nemmeno nell’Unione Sovietica di Stalin si assisteva ad un tale, desolante spettacolo di piaggeria da parte diun esercito di cortigiani spudorati davanti al jefe maximo, i quali non esiterebbero a giurare che l’opera più profonda della letteratura universale è Va’ dove di porta il cuore, se lo dicesse lui, né si farebbero alcuno scrupolo a lodare come il più grande teologo “cattolico” un Lutero o un Melantone (pardon, questo è già successo e sta continuando a succedere; la nostra fantasia non ha saputo volare abbastanza lontano e abbastanza alto), pur di compiacerlo ed entrare o restare nelle sue grazie (perché si sa quanto costui sia rancoroso e vendicativo e come si rischi di venire silurati da qualsiasi carica se non ci si mostra abbastanza calorosi nell’approvare e nel lodare tutto quel che lui fa, e non solo in ambito strettamente pastorale), resta che Il pranzo di Babette, anche se il discorso, ai cattolici progressisti, non piace, è un vero e proprio apologo anti-cristico, e il falso papa argentino, che sarà, senza dubbio, un ignorante e un presuntuoso, ma è anche, sicuramente, un uomo astuto, non certo a caso ha voluto farne l’apologia e spingersi al punto di citarlo in un documento ufficiale come Amoris laetitia. Il primo, o uno dei primi, a quel che ci risulta, ad accorgersi delle implicazioni blasfeme di quella stupefacente citazione e di quella sbandierata preferenza, è stato Cesare Baronio, il quale, in un articolo nitido e puntuale del 5 marzo 2017, ha denunciato il lato oscuro di quella attestazione di stima e di entusiasmo cinefilo: tutto il film di Gabriel Axel – senza dubbio molto bello sul piano formale e narrativo, su questo non abbiamo alcun problema a convenire – è una sorta di caricatura dell’Ultima Cena, con un banchetto al cui centro c’è l’uomo, e dal quale il grande escluso è proprio Gesù Cristo, convitato di pietra dal silenzio fragoroso. Insomma: nessuna trascendenza, nessuna tensione verso Dio, nessun bisogno di redenzione per l’umanità peccatrice; al contrario, la satira feroce, spietata, senza appello, e solo apparentemente dimessa e quasi bonaria, di una cristianità bigotta, ipocrita, farisaica, la quale, per contrasto, fa risaltare ancor di più la schietta bontà della protagonista, una cuoca francese esule in Danimarca, la quale mette in quel pranzo tutta la sua arte, tutto il suo amore, e tutti i suoi risparmi, senza riuscire a strappare un solo complimento da parte dei rigidi pietisti che siedono in tavola, ma tuttavia paga di cogliere nei loro volti e nel loro appetito quella tacita approvazione che proprio non vuole uscire dalle loro labbra bigotte. La loro rigida interpretazione della Bibbia, contraria a dare importanza ai piaceri terreni, proibisce loro di proclamare che il pranzo, veramente squisito, è stato di loro gusto; ma i loro gesti, per quanto forzati e innaturali, tradiscono ciò che provano in segreto, e, comunque, la cuoca francese, una ex comunarda fuggita da Parigi dopo la repressione del 1871, una specie di santa laica e atea, si è presa la sua ultima soddisfazione prima di partite da quel paesino di filistei e far ritorno nella sua patria: quella di far vedere che il suo “vangelo” edonista e materialista è superiore al loro Vangelo, incentrato su una gretta concezione di Dio, gelosa e sospettosa di ogni umano e legittimo piacere terreno.
La cosa più fastidiosa, in tutto questo – vogliamo dire, nel tifo incontenibile di Bergoglio per questo film danese - è che egli, con tutta evidenza, ha voluto rappresentare se stesso nella cuoca Babette, così innamorata della vita, così altruista e generosa, da dissipare i diecimila franchi-oro della sua vincita alla lotteria, solo per allestire un pranzo di prima qualità a un gruppo di barbogi alquanto tetri e brontoloni, perennemente vestiti di nero, che considererebbero peccato dire, ad esempio: Com’è buona questa salsa!, oppure, Dio non voglia: Che squisitezza questa minestra! E perciò, per tutta la durata del pranzo, non smettono un solo istante di parlare di tutt’altro, evidenziando ancor di più, senza volerlo, la dissonanza della situazione che si è venuta a creare: come se dei visitatori degli Uffizi volgessero ostentatamente le spalle alla Nascita di Venere di Botticelli e seguitassero a parlare dell’ultima puntata della loro telenovela, oppure del prezzo delle sigarette, o altre cose dello stesso tipo. Con la sua solita modestia e con la sua inarrivabile dolcezza e delicatezza, Bergoglio ha voluto dire: vedete come sono buono e generoso, io, che mi faccio in quattro per il prossimo, per rinnovare la chiesa, per ravvivare la fede languente e ritornare al “vero” vangelo; e vedete come sono meschini, invece, e tristi, e rigidi, e falsi, e sgradevoli i miei detrattori, quelli che non mi capiscono, quelli che non riconoscono nella mia voce amorevole, la voce del pastore? Appunto, è tipico dell’uomo: lodare se stesso e denigrare chi non lo segue: con rancore, con cattiveria; oppure ripagarlo col disprezzo e la totale indifferenza. Perché questo è il vero volto del signor Bergoglio: quello di un uomo che non ha voluto neanche risponde ai dubia dei quattro cardinali; che non ha voluto rispondere loro nemmeno quando gli chiesero una udienza privata chiarificatrice; quello che, incontrando un’ultima volta, a Bologna, durante la sua visita pastorale, il cardinale Caffarra, che di lì a poco sarebbe morto, lo abbracciò con gesto rigido, con sguardo assente, per rispettare il copione imposto dalla presenza dei fotografi, ma, che di, nuovo, non gli disse nemmeno una parola su ciò che l’altro aspettava; e seduto a tavola accanto a lui, il papa misericordioso ostentò poi di rivolgersi sempre agli altri commensali, spezzandogli il cuore con la sua palese indifferenza. Chi dubita di quel che stiamo dicendo, vada a vedersi le fotografie di quell’ultimo incontro: confronti lo sguardo duro e freddo del falso papa con quello commosso, intensissimo, commovente, del cardinale Caffarra, che par quasi implorare, supplicare una parola, un gesto di cristiana ed umana comprensione, un sia pur minimo segno di pace e fratellanza, e crediamo che se ne convincerà. A meno che abbia deciso che Bergoglio ha sempre ragione, per principio, comunque e a prescindere da qualsiasi cosa.
Il vero volto del signor Bergoglio: quello che, incontrando un’ultima volta il cardinale Caffarra, che di lì a poco sarebbe morto, lo abbracciò con gesto rigido, con sguardo assente, per rispettare il copione imposto dalla presenza dei fotografi, ma, che di, nuovo, non gli disse nemmeno una parola
Tutto questo, però, non è ancora abbastanza. No: bisogna battere il ferro ancora caldo, o tiepido, o magari anche ormai freddo: la propaganda servile nei confronti del falso papa non può conoscere soste, pause o, ci mancherebbe altro, battute d’arresto, meno ancora la sia pur minima ombra, il più tenue accenno di perplessità. E allora che fanno i bravi gesuiti de La Civiltà Cattolica, se non tornare sul tema del Pranzo di Babette (numero 4018 del novembre-dicembre 2017), a parecchi mesi di distanza, per meditare ancora (il titolo dell’articolo dice proprio così: usa il verbo meditare) sul film tanto lodato e tanto raccomandato da sua santità. Una volta i gesuiti e tutti i buoni cattolici meditavano sui Sacri Misteri del Rosario; adesso meditano su Il pranzo di Babette; altro tempo, altra chiesa, evidentemente. Voi mettere la zuppa con le ostriche e gli involtini di carne con la flagellazione o la corona di spine del nostro Signore? Non c’è neanche da fare un paragone. E il profumino delizioso che esce dalla cucina della cuoca francese, con il sangue e il sudore che scorrono sul volto e sul corpo di Gesù Cristo? Ma, soprattutto, vuoi mettere un sereno e spensierato pranzo, alla luce del mezzodì, con la cupa atmosfera da tragedia dell’Ultima Cena, dove Cristo parla di addio e i suoi discepoli sono afferrati da una invincibile tristezza? Date retta a Bergoglio: il pranzo di Babette è meglio della cena del Signore; se non altro perché vi tiene più allegri in questa vita, già tanto carica di problemi e difficoltà. E bisogna vedere con quante contorcimenti gli estensori dell’articolo (perché ci si sono messi in due, evidentemente uno non bastava) sono riusciti, alla fine, a dire l’improbabile, l’incredibile, l’impossibile: che quel film è pieno di pathos religioso e di citazioni evangeliche implicite (!) e che, dopo averlo visto, vien fatto di augurarsi – citiamo alla lettera – che nella vita di ognuno di noi peccatori capiti di incontrare una Babette, che ci consenta di fare almeno per una volta l’esperienza di “un’ora del millennio”. Di Gesù Cristo, neanche una parola. Di Dio Padre, neanche una parola. Della redenzione, neanche una parola, sebbene si ammetta (bontà loro) che gli uomini sono “peccatori”. E chi o cosa li redimerà, allora? L’incontro con “una Babette”! Sì, avete sentito bene: la redenzione non viene da Dio, né dal Sacrificio di Gesù Cristo sulla Croce, ma dalla cucina e dai piaceri della tavola di una cuoca atea e materialista, in polemica sottile ma serrata con il sentimento religioso dei suoi ospiti, che viene liquidato semplicemente mettendolo in caricatura. A che cosa deve tendere la vita del cristiano, dunque? Ad incontrare Gesù Cristo, nel momento privilegiato del Sacrificio eucaristico? Nossignori; a fare l’esperienza del millennio, fra le cose del mondo, le più materiali possibili, come mangiare, bere e stare allegri.
Un bel tacer non fu mai scritto
di Francesco Lamendola
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