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domenica 11 marzo 2018

Con i sacramenti non si scherza

"CON I SACRAMENTI NON SI SCHERZA!" - intervista a mons. Nicola Bux su temi scottanti di pastorale sacramentaria..


In relazione al tema di questo nostro numero della rivista: La celebrazione dei Sacramenti, segnaliamo ai lettori un recente libro di Monsignor Nicola Bux dal titolo: Con i sacramenti non si scherza, ed. Cantagalli, 2016.

Il libro è avvalorato dalla prestigiosa prefazione di Vittorio Messori, che fra l’altro afferma: «Alla base di tutto quanto succede nella Catholica ormai da decenni, c’è […] quella “svolta antropocentrica che ha portato nella Chiesa molta presenza dell’uomo, ma poca presenza di Dio”. La sociologia invece della teologia, il Mondo che oscura il cielo, l’orizzontale senza il verticale, la profanità che scaccia la sacralità».
A mons. Bux abbiamo rivolto alcune domande per cogliere in ognuno dei sette sacramenti almeno un aspetto su cui riflettere e lavorare per una maggiore qualificazione celebrativa.
A Lui un cordiale ringraziamento, sia per il dono del suo libro, sia per questa intervista concessa alla nostra Rivista, che qui proponiamo ai nostri lettori.


DOMANDE

1. Con i sacramenti i fedeli sono messi «faccia a faccia» con Cristo. Cosa vuol dire?

In occasione del 50° della Costituzione liturgica del concilio ecumenico Vaticano II, mons. Luca Brandolini ha sostenuto che è cambiato il volto della Chiesa (Vita pastorale, 2/2014, p. 54-57), perché questa avrebbe riscoperto una visione teologico-biblica che la liturgia precedente non aveva. Ma, basta leggere i n. 5-7 della Sacrosanctum Concilium, per accorgersi che si rifanno all’ Enciclica Mediator Dei, di Pio XII, la quale rilancia proprio quella visione, attraverso la ‘forma’ oggettiva della liturgia, ossia le cerimonie o riti che dir si voglia; questi termini, indicano l’ordine esigito dal rapporto dell’uomo con Dio, supremo ordinatore, rapporto che si esprime massimamente nel culto; l’ordine, l’ordo o rito, non sta in piedi senza l’apparato giuridico-rubricale. È curioso che si parli di rito anche per il processo civile e penale: la non osservanza delle procedure, lo rende invalido. Sant’Ambrogio è certo che nei sacramenti, di cui consiste essenzialmente la liturgia, noi stiamo ‘faccia a faccia con Cristo’, perché attraverso i riti e le preghiere lo ascoltiamo, lo vediamo, lo tocchiamo, lo percepiamo e lo gustiamo mediante i nostri sensi, tramite i quali il nostro spirito è alimentato e vive. Chi sa di dover stare ‘faccia a faccia’ col Signore del Cielo e della terra, come oserebbe disprezzare il diritto divino e il diritto liturgico che costituiscono le sponde per non cadere nell’idolatria?
Se i liturgisti, a cinquant’anni dal Vaticano II, ritengono che “il problema numero uno per una recezione fruttuosa della riforma era e rimane tuttora quello della formazione a tutti i livelli”, vuol dire che questa non ha ri-formato, cioè ridato forma alla forma di cui sopra, ma addirittura l’ha de-formata qui e là, o per stare all’immagine proposta da Joseph Ratzinger, essa è stata un restauro aggressivo, per cui abbiamo rischiato di perdere l’ “affresco” della liturgia romana. La prima formazione del cristiano viene dalla stessa liturgia: se questa è deformata, essa non avviene. E si comprende pure la fatica dei preti, ai quali è stata demolita la sponda delle vituperate rubriche – il ritus servandus – che garantivano la forma oggettiva e si è preteso che i contenuti teologici, catechetici e pastorali della liturgia potessero ugualmente fluire ed essere ritenuti ‘normativi’. La causa è nell’idea che il nuovo rito doveva apparire completamente diverso dal precedente. La prova della necessità della ‘norma’ è data dal fenomeno che, anche i nuovi libri liturgici, come lamenta Brandolini, hanno incuriosito, come gli antichi, per le novità rituali; così il serpente si è morso la coda.
Lo stare faccia a faccia con Cristo nei sacramenti, in specie l’eucaristia,costituisce la vera ‘partecipazione attiva’, che è data innanzitutto dalla coscienza d’essere parte del suo corpo,prima che di svolgere una parte. Quando Brandolini si duole degli abusi e l’attribuisce alla mancata formazione, dovrebbe riflettere su questo.

2. Il battesimo è la «tessera» per il paradiso. Qual è oggi la sua maggiore criticità sul piano celebrativo?

Talvolta – da un po’ di tempo sempre meno – si mette in risalto l’invasione del secolarismo nella teologia e nella pastorale, quindi nella liturgia riformata dopo il concilio Vaticano II. I liturgisti postconciliari si sono illusi di aver ‘riconciliato’ la liturgia con le istanze della modernità, ed averla introdotta nella postmodernità; perciò ritengono che le tendenze a ritornare al ‘passato’ – che riconducono a una prassi liturgica formalistica, scivolante nell’esteriorità e nello spettacolare – si identifichino con l’antica liturgia. Non si sono accorti che la nuova, dove la fanno da padroni l’intrattenimento, l’animazione, il protagonismo di preti e laici, è ben più esteriore e spettacolare! Proprio questo ha finito per mettere al centro l’uomo ed estromettere Dio, in nome dei mutamenti antropologici. Così, proprio il battesimo è diventato il rito d’entrata nella comunità, che è in parte vero, ma non nella Chiesa cattolica, in terra e in cielo: se il battesimo non servisse a salvarsi, ad arrivare al Cielo, a che servirebbe? Ecco, a mio avviso, il punto critico.

3. La cresima è «l’allenamento alla lotta nel mondo». Che cosa non va?

Lo Spirito Santo – è stato scritto – è il grande assente dalla teologia cattolica, anzi dalla liturgia, dove sarebbe entrato di soppiatto e per caso a conclusione dell’art 6 di Sacrosanctum Concilium. Questo slogan di teologi e pastori nasconde, a mio avviso, la dimenticanza dell’Incarnazione del Verbo, il non volere fare i conti con Gesù Cristo, l’unto di Spirito Santo. Diceva Balthasar che lo Spirito non vuol quasi essere adorato, ma adorare in noi il Padre, per, con e in Gesù Cristo.
Si sa che all’origine della testimonianza da rendere a Cristo 2nel mondo, a cui la Confermazione abilita, c’è lo Spirito, nella cui unità sussiste la Chiesa cattolica. Ora, qualche storico della liturgia, ritiene che la pluralità dei riti, e delle forme all’interno di uno stesso rito, non attenti all’unità della Chiesa. Questo è vero, se il rito e le sue forme esprimono la lex credendi della Chiesa cattolica, altrimenti contribuiscono alla divisione. A questo son stati sempre molto attenti i Padri. Una cosa è l’unità del rito come quello romano, altra cosa sono le consuetudini che possono essere diverse all’interno di questa unità di fede che il rito deve manifestare. Questo, afferma la Costituzione liturgica, è possibile quando non è in questione la fede (cfr. Sacrosanctum Concilium 37-38): a cinquant’anni di distanza, non è essa ad essere in questione? Il passaggio di una ‘unità liturgica’, per es. il Canone Romano, dall’Egitto a Roma, nel senso che è stata tradotta la paleoanafora alessandrina; oppure, la ricezione a Roma e Milano del memento dei morti, della liturgia cappadoce, attribuita a san Basilio, sono esempi di arricchimento, solo perché illustrano l’unica fede. Proprio il timore che l’eresia – che porta poi allo scisma – arrivasse attraverso il rito, ha indotto la Sede Apostolica, a istituzionalizzare la liturgia, nel senso di regolarla giuridicamente, in modo da renderla normativa e ridurre il rischio di interpretazioni ‘creative’ che potessero snaturarla. Non è scontato che i sacerdoti abbiano la capacità mistica per comporre testi ‘cattolici’, cioè che esprimano quella fede che “sempre, dovunque e da tutti” deve essere professata. La ragione sta nel fatto che il culto si chiama anche ‘liturgia’ perché è azione del popolo, cioè un atto pubblico, non privato come una pratica di pietà; per questo lo chiamiamo culto della Chiesa. Non è ‘fissismo giuridico’.

4. L’ eucaristia ci mette «alla Sua presenza». Va tutto bene? Dove intervenire per migliorare?

Si accusa l’antica liturgia di essere barocca, ma quella attuale non è diventata rococò? La processione offertoriale, con di tutto e di più in essa, e la colluvie di interventi e monizioni di preti e laici nella Messa e nei sacramenti, esprimono la ‘nobile semplicità’ (Sacrosanctum Concilium 34)? È più teatrale la Messa in cui sacerdoti, ministri e fedeli sono tutti orientati in modo composto verso la Croce o l’Oriente, oppure quella in cui il prete col microfono scende nell’assemblea come un conduttore televisivo? Se la liturgia del passato era opus cleri, quella odierna lo è di meno? Se quella avveniva nel silenzio ‘arcano e sacrale’, l’attuale non è soggetta alla dittatura del rumore, con la voce alta – che non è lo stesso che ‘chiara’ – gli applausi e l’ilarità? Altro che stupore, accoglienza, adorazione e azione di grazie! Si è pensato di annullare la distanza tra Dio e l’uomo, demolendo la balaustra tra presbiterio e navata, ma si può annullare la distanza tra il cielo e la terra? Sì, se si riceve Gesù Cristo Dio e Uomo, l’unico che rende attuale la liturgia; no, se si ritorna al deismo, in nome dell’indifferenza tra le religioni. Così non va bene.
Poi, c’è chi sostiene che il ‘cerimoniale’ sviluppatosi nel medioevo, abbia allontanato i fedeli dalla comprensione della liturgia, favorendo l’interpretazione allegorica dei riti che farebbe appello alla fantasia dei fedeli presenti (cfr. E. Mazza, Vita pastorale, cit. , p. 59) al fine di riconoscere nella maestosità rituale e del tempio, la maestà divina. Ma, non è la liturgia cristiana erede di quella giudaica, quindi anche dei riti e del tempio di Gerusalemme, che si svolgevano davanti alla Shekinah, alla Presenza divina? Forse la liturgia odierna, con la ‘nobile semplicità’ disdegna appunto la nobiltà che viene dal cerimoniale e dai luoghi di culto artistici? E poi, per esprimere meglio l’obbedienza a Dio, aver adottato nella liturgia romana la genuflessione e le mani giunte, gesti dell’omaggio feudale e della sottomissione al sovrano, non è un esempio di ‘inculturazione’ già nel medioevo? Si ritiene, inoltre, che la devotio moderna sia peggiore della devotio antica, in quanto avrebbe sancito il divorzio tra la preghiera personale e la liturgia pubblica, non solo, ma anche favorito l’allegorismo a partire dagli elementi visivi dei riti e appellandosi alla fantasia. Ma, se il rito comunitario non favorisse la preghiera personale, a cosa servirebbe? E poi, chi conosce le liturgie orientali, in specie bizantina, sa che nel V secolo, Teodoro di Mopsuestia proponeva l’interpretazione allegorica ispirata alla visione della Gerusalemme celeste nell’Apocalisse. Perché ritenere che la pastorale della devotio moderna, imperniata “nel soddisfare l’obbligo di accostarsi ai vari sacramenti”, non attingesse alla liturgia: non ha detto il Signore che chi non sarà battezzato non sarà salvo? Non è un comando: “Fate questo in memoria di me”? L’intimismo religioso o il devozionismo, che la riforma liturgica postconciliare avrebbe superato, è rimpiazzato oggi dalla “creatività selvaggia” e “dal culto dell’emozione”. Dunque, la domanda da porsi è questa: partecipare alla liturgia è introdurre nel mistero? Se è così, la preghiera personale è il segno dell’avvenuta entrata in esso della persona.

5. La riconciliazione: «confessarsi per convertirsi». Ma quante insidie a questo sacramento!

C’è chi ha scritto che l’unica novità osservabile nella celebrazione del nuovo rito del sacramento della penitenza, sembra la sua vistosa diminuzione. Tanto si è insistito sulla partecipazione attiva, che alla fine si è perduto il principale atto di partecipazione alla sequela di Cristo, che è la conversione.
La partecipazione attiva, passando per ritus et preces, non è innanzitutto né soprattutto esterna, ma interiore perché mistagogia della fede. San Paolo non poteva esprimerlo meglio che esortando a offrire noi stessi in sacrificio spirituale, non conformandoci alla mentalità mondana (cfr. Rm 12,1), come postula la Mediator Dei e il movimento liturgico che l’ha preceduta. Invece, è proprio del modo odierno di impostare la liturgia, la preoccupazione di far fare qualcosa ai fedeli. I riti e le preghiere sono la via e il mezzo della partecipazione, ma ciò a cui si partecipa è il ‘mistero della fede’: la morte e la risurrezione del Signore; alla morte e sepoltura col battesimo e il sacramento della penitenza, e alla risurrezione con l’eucaristia. Se i biasimati medievali e i vituperati devoti moderni, non avessero avuto tale senso teologico della liturgia, non avremmo avuto Francesco, Caterina, Ignazio, Teresa, Alfonso, Newman, ecc. Sì, a tale partecipazione si arriva con la conversione e l’imitazione di Cristo: è questo il difficile. Dunque, non si tratta di contrapporre esteriore ed interiore, perché “è l’azione rituale nella sua concretezza e corporeità, il luogo della partecipazione integrale al mistero”(M. Augé, Vita pastorale, cit. , p. 63).
Senza la confessione dei peccati, che è la riforma permanente della nostra vita, diventa impossibile “mettere in atto la riforma del Vaticano II”; e non “perché la nostra cultura liturgica è troppo distante da quella della Chiesa delle origini. Troppo diversa,” altrimenti saremmo di nuovo all’archeologismo.

6. L’unzione degli infermi è «la benefica unzione» della Grazia. Sacramento dei malati o benedizione per tutti?

Se la riforma liturgica, dopo il Concilio, sia stata effettivamente applicata, è una questione permanente tra i liturgisti: sono insoddisfatti dell’applicazione della stessa, perché, dicono, “il popolo non partecipa”. Sono arrivati anche a denunciare la mancata riflessione sulla dimensione antropologica della liturgia, che avrebbe portato da una parte alla negazione del rito e, dall’altra, al suo esasperato e feticistico fissismo. Che dire? Proprio il sacramento dell’unzione esalta questa dimensione – nonostante non la si chiami “estrema”, è ugualmente raro vedere al capezzale del moribondo il prete – nel momento della debolezza corporea: è il sacramento per i deboli (in latino: infirmus): gli infermi. L’”Olio di consolazione” può essere preceduto dalla confessione dei peccati e seguito dal Viatico; tale itinerario di guarigione, dimostra, senza ricorrere allo slogan “la liturgia è per l’uomo e non l’uomo per la liturgia”, che questa deve aiutare l’uomo ad arrivare a Dio, per ottenere la salvezza.

7. L’ordine sacro «per consacrare il mondo». Un dono dall’alto o un incarico sociologico?

Una visione e un esercizio del ministero – si è auspicato da taluno – meno sbilanciati sulla cristologia e quindi sull’istituzione. Che vuol dire? Benedetto XVI scrive: “Il sacerdote è più che mai servo e deve impegnarsi continuamente ad essere segno che, come strumento docile nelle mani di Cristo, rimanda a lui. Ciò si esprime particolarmente con l’umiltà con la quale il sacerdote guida l’azione liturgica, in obbedienza al rito, corrispondendovi con il cuore e con la mente, evitando tutto ciò che possa dare la sensazione di un proprio inopportuno protagonismo” (Sacramentum Caritatis, 23). Il rito va interpretato nel senso di adoperare le possibilità diverse offerte dal libro liturgico. Ma l’idea di adattarlo alle circostanze e ai partecipanti, ha favorito gli abusi e la cosiddetta creatività, e riduce il libro a un ‘copione’, contraddicendo l’oggettività della liturgia pubblica e avvicinandola alla devozione privata di singoli e gruppi. Mi domando: non sono costoro a doversi ‘adattare’ alla liturgia divina? L’adattamento è una idea tutta occidentale, estranea alle liturgie orientali: è l’uomo che si deve elevare a Dio, il quale già si è abbassato con l’incarnazione, la katabasi che la liturgia ripropone. La liturgia è la forma dell’incarnazione e redenzione del Signore, non una ‘performance’, o esibizione improvvisata. Proprio questa idea fa eludere le norme, e disprezzare i diritti di Dio nel culto a lui dovuto, giungendo agli “abusi, anche di massima gravità contro la natura della liturgia e dei sacramenti”(Istruzione Redemptionis Sacramentum, 4). Siamo alla situazione odierna.
Checché ne pensi qualche liturgista modernista, il ritus per essere celebrandus deve essere servandus. Dice Gesù: “Chi è più grande: chi è a tavola o colui che serve?” Egli si è fatto servo e anche noi lo siamo e serviamo la liturgia, come indicano i termini usati: ministro, accolito, diacono. Invece, ha molto nociuto al servizio della liturgia, che questa debba essere “animata”; se la liturgia esprime l’obbedienza della fede, ha già l’anima che è data dalla Presenza del Signore, e va servita; questo ci rende figli del Padre, come il Figlio.
Qualcuno pensa che nella liturgia precedente il Concilio, ci si rivolgesse a persone già evangelizzate, sicché non ci fosse bisogno di gesti ‘chiari’; in verità la liturgia è stata sempre un annuncio, ma nessun annuncio nella Scrittura è ‘chiaro’, secondo le categorie razionali, e così la liturgia non può non essere “misteriosa”. Anche la liturgia attuale, sebbene la si ritenga in genere accessibile e comprensibile, non è capita da molti. Certo, il popolo è una presenza accessoria rispetto al Protagonista, al quale è rivolta in definitiva la liturgia. Dunque, nessuna “cortina fumogena” è stata interposta tra la liturgia e il popolo. Vero è, invece, che “la liturgia è come un albero, che è appunto cresciuto nel clima mutevole della storia mondiale, che ha conosciuto momenti di tempesta e periodi di fioritura, il cui sviluppo avviene dal di dentro, dalle forze vitali dalle quali è germinato”(J. A. Jungmann, Eredità liturgica e attualità pastorale, Milano 1962, p 556-557). Il sacerdote, che porta nel suo etimo il prefisso sacer, che sta a ricordare il dono ricevuto dall’alto, deve appunto consacrare il mondo e non conformarsi ad esso.

8. Il matrimonio «elevato a sacramento». È ancora un rito dove Dio è presente e operante?

È paradossale che, nel nostro tempo che vede il formidabile attacco all’istituto matrimoniale, con l’impressionante diminuzione di matrimoni in chiesa, l’attenzione dei riformatori della liturgia, si sia concentrata sulle epiclesi nelle quattro formule della benedizione nuziale, che inizialmente non lo prevedevano. Penso sia imputabile, anche in questo caso, alla teoria dello Spirito Santo ‘grande assente’. È proprio vero, che ridottasi la base imponibile dei fedeli che frequentano la chiesa, si sono moltiplicate a dismisura le ‘istruzioni per l’uso’.
Mentre incombe il relativismo sulla verità della creazione dell’uomo e della donna, quindi sulla concezione della coppia cristiana, mi sembra si debba invece esaltare proprio l’elevazione a sacramento voluta da nostro Signore, secondo il passo paolino di Ef. 5, che lo assimila al mistero del rapporto di Cristo con la Chiesa. Senza nulla togliere allo Spirito Santo, che insieme al Padre opera la santificazione in ogni sacramento, qui è innanzitutto Cristo ad essere presente, come alle nozze di Cana, per mostrare la novità dell’amore coniugale: bere il suo sangue, il “vino nuovo” che ha portato all’umanità. Così, nel matrimonio cristiano, la verità della creazione si unisce alla verità della redenzione, come insegna Giovanni Paolo II.

9. I sacramentali: «l’estensione del senso sacramentale». Perché le benedizioni in una società secolarizzata?

Si dice che l’esperienza del sacro è ambigua, perché l’uomo per un verso ne è attratto, per un altro atterrito, vuoi avvicinarti e toccarlo, hai timore e desideri allontanarti: è il mistero che cogli quando chiudi gli occhi (etimologia del termine greco myo) e non quando li apri; ma quando li apri, devono posarsi su una forma (rito e parola) che riconducano al mistero. Il senso religioso dell’uomo di tutti i tempi e di tutte le religioni, desiderava Dio e cercava un suo oracolo. Il sacro era ambiguo al tempo dei pagani, è ambiguo in tutte le religioni, ma non nel cristianesimo: da quando il Verbo si è incarnato, il sacro si è fatto incontrare ed è presente – è il mistero – il Santo, ben separato dal mondo, nella sua grandezza si è fatto il Dio vicino.
Per questo, il Motu proprio Summorum Pontificum invita a celebrare il Novus Ordo “con grande riverenza in conformità alle prescrizioni”; infatti, il venire meno di tale riverenza e la necessità di riconquistarla, ha indotto a ricorrere al Vetus Ordo. La sacralità dipende dalla riverenza, come insegna Tommaso: “totus exterior cultus Dei ad hoc praecipue ordinatur ut homines Deum in reverentia habeant” (S. Th. , I-II, q. 10, 2, a. 4, co. ): la celebrazione del culto divino è ordinata soprattutto a inculcare negli uomini la riverenza verso Dio. È questa l’ars celebrandi, che “deve favorire il senso del sacro e l’utilizzo di quelle forme esteriori che educano a tale senso, come, ad esempio, l’armonia del rito, delle vesti liturgiche, dell’arredamento e del luogo sacro” (Sacramentum Caritatis, 40). La coscienza del mistero che viene celebrato fa percepire il sacro, cioè la Presenza divina. Così abbiamo la vera liturgia, che nasce dall’atto di fede e ad un tempo la nutre. Perciò, la Chiesa ha voluto estendere il senso sacramentale a molteplici aspetti della vita, per aiutare l’uomo a cogliere la vicinanza di Dio: le benedizioni, gli esorcismi, le esequie, le processioni. . . Il profano si sottrae al sacro, ma si confronta sempre con esso e se non è conquistato, tende a crearsi un suo cerimoniale, come si può constatare nell’inimmaginabile scristianizzazione che caratterizza l’Occidente. Purtroppo la secolarizzazione ha trovato sponda proprio nel neomodernismo che ha conquistato ampi settori della Chiesa. Nonostante tutto, però, il fenomeno della pietà popolare attesta la ricerca del senso cristiano della vita, che è alimentato e sorretto solo dai sacramenti e dai sacramentali.

L'intervista è apparsa per la prima volta sul periodico Liturgia ‘culmen et fons’, dicembre 2016, n. 3, anno 9, pp. 13-17.

Testimonianze pubbliche


Testo dell'audio
Affinché non rimangano dubbi circa il fatto che la teologia del Nuovo rito non sia cattolica bensì protestante, citiamo varie testimonianze pubbliche, sia cattoliche che protestanti.
1.      Testimonianze cattoliche
I) La prima testimonianza, che è anche la più autorevole, essendo quella del cardinale Ottaviani (nella foto), in precedenza prefetto della Congregazione della Fede – insieme al cardinale Bacci – si trova nella lettera, con la quale egli presenta il Breve esame critico del Novus Ordo Missae a papa Paolo VI, come pure nell’Esame critico stesso: «il Novus Ordo Missae […] rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della santa Messa, quale fu formulata nella sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i “canoni” del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del Magistero» (Lettera 1). «È tale da contentare, in molti punti, i protestanti più modernisti» (Esame critico I).
Le altre testimonianze provengono dalle critiche classiche al Nuovo rito in tedesco, francese ed inglese.
II) Monsignor Gamber nella Riforma della liturgia romana (II edizione, 1981 cap.1) parla di «un terrificante avvicinamento alle vedute protestanti che viaggia sotto la bandiera di un ecumenismo mal concepito»[1]; e in La Riforma liturgica in questione (versione francese, 1992, p. 42): «La nuova organizzazione della liturgia e soprattutto i profondi cambiamenti del rito della Messa […] furono molto più radicali della riforma liturgica di Lutero – almeno per ciò che riguarda il rito esterno – e presero in minor considerazione la sensibilità del popolo».
III) Il professor Louis Salleron scrive in La Nouvelle Messe (Collection Itinéraires, p. 195): «Basti dire che la nuova Messa è liturgicamente la Cena “evangelica” con il suo carattere di pasto, la sua lingua volgare, la sua tavola, la sua celebrazione rivolta verso il popolo, la sua comunione nella mano o sotto entrambe le specie, e, nelle parole e nei riti, la soppressione della rappresentazione del sacrificio, della Presenza reale e del sacerdozio ministeriale»[2].
IV) Michael Davies scrive: «non ci può essere il minimo dubbio che la lingua sacrificale nel Novus Ordo Missae è stata minimizzata deliberatamente, cosicché sia compatibile con la teoria protestante del sacrificio» (p. 520, dove paragona il Rito antico ed il Nuovo rito alla luce del Communion Servicedi Cranmer).
2.  Testimonianze Protestanti
I) Max Thurian, parlando del Nuovo rito in La Croix (30 maggio, 1969, citato in La Nouvelle Messe p. 193), scrive: «Uno dei suoi frutti sarà forse che le comunità non-cattoliche saranno in grado di celebrare la Cena santa con le stesse preghiere della Chiesa cattolica. Teologicamente è possibile»[3].
II) Il dottor Ramsay, arcivescovo anglicano di Canterbury, osservò durante una visita in America nel 1972: «Ho fatto esperienza di riti romani, che sono veramente molto anglicani. Se volete trovare riti che sono veramente romani, visitate qualcuno dei nostri vecchi santuari anglo-cattolici» (MD p. 274).
III) Il protestante Hoeheres Konsistorium der Kirche der Augsburgischen Konfession von Elsasz-Lothringen pubblicato in Dernières Nouvelles d’Alsace (14 dicembre 1973) osservò: «Oggi dovrebbe essere possibile per un protestante riconoscere nella celebrazione eucaristica cattolica la Cena istituita dal Signore […] le nuove preghiere eucaristiche rendono più semplice per noi riscoprire la teologia evangelica».[4]
IV) Dopo un incontro ecumenico all’Accademia cattolica a Stuttgart-Hohenheim, un partecipante scrisse (al Rheinischer Merkur n. 11 del 26 marzo 1976) che un ministro protestante aveva celebrato la nuova Messa cattolica. Un sacerdote cattolico, richiesto di come l’avesse trovata, rispose: «era troppo cattolica per i miei gusti»[5]. In una lettera seguente (RM n. 14), un altro partecipante rispose alla lettera spiegando che, infatti, la “Messa cattolica” era stata un servizio protestante, vicino alla “Messa tedesca” di Lutero, che, aggiunse, oggi sarebbe considerata troppo cattolica da molti sacerdoti cattolici.
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[1] «[…] eine erschreckende Annaeherung an Vorstellungen des Protestantismus, die im Zeichen eines falsch verstandenen Oekumenismus segelt».
[2] «Qu’il nous suffise de dire que la Nouvelle Messe, c’est liturgiquement la Cène“évangelique” – avec son caractère de repas, sa langue populaire, sa table, sa célébration face au peuple, sa communion dans la main on sous deux espèces et, dans le paroles et les rites, l’estompage de la répresentation du sacrifice, de la Présence réelle, et du sacerdoce ministériel».
[3] «Un des fruits en sera peut-etre que des communautés non-catholiques pourront célébrer la sainte Cène avec les mêmes prières que l’Eglise catholique. Théologiquement c’est possible».
[4] «es mueszte heute fuer einen Protestanten moeglich sein, in der katholischen eucharistischen Feier das vom Herrn eingesetzte Abendmahl zu erkennen… die neuen eucharistischen Gebete erleichtern es uns, eine evangelische Theologie zu wiederfinden»
[5] Das war mir zu katholisch.

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