- DOPO LA MORTE
Parola d'ordine: confondere le idee sul caso Alfie
Alfie non è stato ancora sepolto, ma la gara per confondere la memoria di quanto è successo è già in pieno svolgimento. Dietro la narrazione dei "poveri genitori strumentalizzati" c'è il disegno di allargare la sorte di Alfie a tutti i disabili gravi.
Alfie non è stato ancora sepolto, ma la gara per confondere la memoria di quanto è successo è già in pieno svolgimento.
A dare la linea ci aveva già pensato il giudice Hayden nell’ultima udienza da lui presieduta ad Alfie già staccato dall’apparecchio che garantiva la ventilazione: comprensibile la difficoltà dei genitori ad accettare la tragica condizione di Alfie, purtroppo ci sono alcuni che hanno approfittato per strumentalizzare. E ovviamente, eroici i medici dell’Alder Hey che hanno sopportato tutto questo pur prodigandosi in tutte le maniere per Alfie e la famiglia.
Peccato che in quelle ore stesse andando in scena tutta un’altra storia, come abbiamo abbondantemente documentato giorno per giorno, ora per ora. Non importa, la teoria dei “poveri genitori strumentalizzati” ha avuto successo e dopo la morte di Alfie è diventata un ritornello. Lo ripetono i grandi giornali - il The Guardian ha dedicato pure una mini-inchiesta alla scoperta degli strumentalizzatori -; lo sostiene anche il cardinale Vincent Nichols, primate cattolico della Chiesa inglese; lo sostengono esimi medici che non fanno che tessere le lodi di questo ospedale modello che sarebbe l’Alder Hey.
Peccato che in quelle ore stesse andando in scena tutta un’altra storia, come abbiamo abbondantemente documentato giorno per giorno, ora per ora. Non importa, la teoria dei “poveri genitori strumentalizzati” ha avuto successo e dopo la morte di Alfie è diventata un ritornello. Lo ripetono i grandi giornali - il The Guardian ha dedicato pure una mini-inchiesta alla scoperta degli strumentalizzatori -; lo sostiene anche il cardinale Vincent Nichols, primate cattolico della Chiesa inglese; lo sostengono esimi medici che non fanno che tessere le lodi di questo ospedale modello che sarebbe l’Alder Hey.
Secondo questa teoria, va da sé che i genitori facciano fatica ad accettare quello che comunque è ineluttabile. Si può forse discutere se staccargli i sostegni vitali un giorno prima o un giorno dopo – dipende da come vengono preparati i genitori - ma non c’è discussione sul fatto che Alfie doveva morire; lasciarlo in vita sarebbe stata una crudeltà inutile. Anzi, dovremmo prendere a modello il sistema sanitario britannico che è così preciso nei protocolli e così attento nel seguire ogni situazione del genere.
È possibile che tra qualche giorno, a forza di ripetere queste spiegazioni, molte persone alla fine si adatteranno, forse penseranno di aver sognato a proposito delle violenze subite da Alfie e del tormento inflitto ai genitori. Allora è bene ricordare sempre la semplice realtà: per quanto addolorati, Thomas e Kate, non hanno mai messo in discussione la gravità della malattia di Alfie (peraltro mai definita) né si sono mai nascosti il fatto che la sua aspettativa di vita sarebbe stata piuttosto limitata. Ma volevano che la durata della vita di Alfie fosse decisa dal Signore e non dai protocolli dell’Alder Hey.
La lunga battaglia legale è su questo che si è sviluppata, e sulla possibilità dei genitori di portare Alfie in un’altra struttura sanitaria disposta a rispettare la sacralità della vita. Nessun accanimento terapeutico, nessuna sofferenza inflitta ad Alfie, solo il rispetto dovuto ad ogni persona, sana o malata che sia.
Il problema vero è tutto qui, nello scontro tra due antropologie, come è stato detto. Credere che la vita vada rispettata dal concepimento fino alla morte naturale e una concezione della vita legata alla sua efficienza o capacità di fare, sono due modi diametralmente opposti di accostarsi alla persona e certamente causano due modi molto diversi di curare un malato. Appare perfino ovvio che se si crede che sotto un determinato standard la vita non abbia più alcun valore, non sia degna, ciò genera anche decisioni cliniche conseguenti: chi continuerebbe a spendere denaro per qualcosa che non vale nulla?
La lunga battaglia legale è su questo che si è sviluppata, e sulla possibilità dei genitori di portare Alfie in un’altra struttura sanitaria disposta a rispettare la sacralità della vita. Nessun accanimento terapeutico, nessuna sofferenza inflitta ad Alfie, solo il rispetto dovuto ad ogni persona, sana o malata che sia.
Il problema vero è tutto qui, nello scontro tra due antropologie, come è stato detto. Credere che la vita vada rispettata dal concepimento fino alla morte naturale e una concezione della vita legata alla sua efficienza o capacità di fare, sono due modi diametralmente opposti di accostarsi alla persona e certamente causano due modi molto diversi di curare un malato. Appare perfino ovvio che se si crede che sotto un determinato standard la vita non abbia più alcun valore, non sia degna, ciò genera anche decisioni cliniche conseguenti: chi continuerebbe a spendere denaro per qualcosa che non vale nulla?
Certe espressioni di comprensione del dolore dei genitori – vedi giudici e medici dell’Alder Hey – sono in realtà il falso pietismo di chi è convinto che quei genitori sono dei poveretti, così attaccati a una vita che non vale nulla. E quindi cercano soltanto di trovare il percorso migliore per far loro digerire che gli ammazzeranno il figlio, ovviamente secondo un protocollo sanitario approvato da un Comitato etico che rende tutto così giusto.
Eppure abbiamo ben visto in cosa consiste questo protocollo, abbiamo rivissuto ieri con l’articolo della nostra Benedetta Frigerio quei cinque giorni di violenze contro Alfie e i suoi genitori. Non dimentichiamolo, perché chi oggi vuole oscurare quanto è realmente accaduto sta preparando lo stesso trattamento per tutti quanti sono in condizioni analoghe a quelle di Alfie. Non c’era nessun accanimento terapeutico, a meno che non sia considerato tale dare la possibilità di respirare, nutrirsi e idratarsi a chi è disabile grave.
Vale a dire che se era giusto che Alfie morisse in quel modo, allora lo stesso vale per quelle decine di migliaia di disabili gravi che solo in Italia sono tenuti in vita da supporti vitali. È qui che vogliono arrivare, è qui che punta anche la nostra legge sulle Dat (Dichiarazioni anticipate di trattamento).
Vale a dire che se era giusto che Alfie morisse in quel modo, allora lo stesso vale per quelle decine di migliaia di disabili gravi che solo in Italia sono tenuti in vita da supporti vitali. È qui che vogliono arrivare, è qui che punta anche la nostra legge sulle Dat (Dichiarazioni anticipate di trattamento).
La vicenda di Alfie è stata strumentalizzata? No, semplicemente c’è un popolo che ha compreso la posta in gioco, e ci sono associazioni e professionisti parte di questo popolo che si sono messi a disposizione per aiutare la famiglia Evans; o hanno fatto una battaglia culturale per far conoscere la vicenda e far comprendere l’importanza di salvare quel bambino dalle grinfie di chi lo voleva morto subito. Ma il Potere non perdona chi ha tentato di mettersi di traverso, e allora ecco che ora, ucciso Alfie, cominciano a colpire chi lo ha difeso.
Riccardo Cascioli
http://www.lanuovabq.it/it/parola-dordine-confondere-le-idee-sul-caso-alfie
Marco Tosatti
Prima di continuare a scorrere questa breve nota, vi invitiamo, se non l’aveste già fatto, a leggere sulla Nuova Bussola Quotidiana il reportage di Benedetta Frigerio sugli ultimi giorni di vita di Alfie Evans. Nel sommario dell’articolo leggiamo (il neretto è nostro): “Alfie ha retto la rimozione dei sostegni vitali, ma l’Alder Hey ha negato l’ossigeno portato poi al piccolo senza autorizzazione. Il piccolo non è stato alimentato per 36 ore e l’infezione al polmone non è stata curata ma era comunque stabile, tanto che Thomas era convinto di avere quasi un piede fuori dall’ospedale, che ha negoziato il silenzio della stampa in cambio di più apporti vitali. Poco prima della morte al piccolo sono stati somministrati dei farmaci”.
Citiamo ancora un paragrafo, invitandovi davvero alla lettura integrale: “Perciò, la sera di lunedì 23 aprile, dopo la rimozione della ventilazione alle 22.15 italiane, Thomas ha lanciato un appello chiedendo che qualcuno portasse dell’ossigeno in ospedale, ma la barriera di polizia all’entrata ha impedito qualsiasi intervento esterno. A quel punto uno dei legali della famiglia, Pavel Stroilov, è corso all’Alder Hey Hospital chiamato da Thomas. Mentre Stroilov entrava hanno cercato di seguirlo altre sei persone, una con la mascherina in mano che ha provato ad entrare con lui senza successo. Questa ha però pensato bene di lanciare la mascherina sopra la testa degli agenti, permettendo al legale di portarla ai genitori di Alfie. A quel punto il piccolo, che aveva già dimostrato una stazza da leone, smentendo l’avvocato dell’ospedale, Michael Mylonas, che in udienza aveva rassicurato il giudice Hayden sul fatto che la morte di Alfie sarebbe stata immediata alla rimozione della ventilazione, è stato aiutato a respirare”.
E ha continuato a farlo, a dispetto del digiuno di 36 ore (un giorno e mezzo!) dell’infezione e della brutalità della sospensione, per più di quattro giorni, fino alla notte fra venerdì e sabato.
Ora vi rimandiamo a un altro articolo, che contiene le dichiarazioni del cardinale Vincent Nichols di Westminster, primate della Chiesa d’Inghilterra. Parlando alla KAI – l’agenzia di stampa polacca – il porporato ha difeso l’operato e le decisioni sia dell’Alder Hey Hospital sia del giudice Hayden. Fra l’altro ha detto: “La saggezza ci mette in grado di prendere decisioni basate sulla piena informazione, e molte persone hanno preso posizione sul caso di Alfie nelle settimane passate senza avere tali informazioni e non hanno agito per il bene di questo bambino. Sfortunatamente ci sono state anche persone che hanno usato la situazione per scopi politici”.
I casi sono due. O il cardinale ha parlato senza aver “piena informazione” di quelli che sono stati gli ultimi giorni di Alfie Evans, e dei suoi genitori; oppure siamo di fronte a un caso di ipocrisia, e malafede non solo da parte sua, ma da parte della quasi totalità della Chiesa di Inghilterra e Galles (salvo forse un vescovo) di grandi proporzioni. D’altronde nel suo comunicato questa Chiesa aveva assicurato che i cappellani dell’ospedale si occupavano della famiglia di Alfie (mai visti), famiglia che, d’altronde, sempre secondo il comunicato, non sarebbe stata cattolica… Se ne occupavano tanto che ignoravano che Thomas e Alfie fossero battezzati. Ma l’unica preoccupazione di questo porporato sembra essere che qualcuno di destra, in Europa e negli Stati Uniti, (oltre al Pontefice e al cardinale Segretario di Stato) si sia occupato del caso Alfie. Appare un allineamento totale all’ideologia dominante nel Paese. Mentre scrivevamo queste righe piene di amarezza, ci è capitato sotto gli occhi un tweet del collega Damian Thompson. Che riprendeva un articolo di un giornale specializzato, in cui si parla di Fondazioni Accademiche in UK (che ricevono perciò denaro governativo) i cui dirigenti ricevono dalle 100mila alle 150mila sterline all’anno. Fra queste ci sono anche l’Academy Trust della Diocesi di Westminster, (che ne ha undici, di questi dirigenti superpagati) e altre, fra cui la Cardinal Hume Academy (con tre). I rapporti fra Chiesa e Stato in Gran Bretagna sono ottimi.
Per chiudere: credo che – visto dall’esterno – il comportamento della Chiesa di Inghilterra e Galles in questa vicenda sia stato sciagurato, per non dire vergognoso. Se poi esistono motivi diversi, più o meno confessabili, per questo sfoggio di contiguità con i Poteri, non lo sappiamo. Speriamo di sì; almeno, sarebbe comprensibile.
La vicenda di Alfie Evans si è conclusa quaggiù come i cattivi avevano deciso si dovesse concludere, ovvero con l’omicidio premeditato di un innocente sequestrato e torturato dai suoi “pietosi” aguzzini. Ora, sull’abbrivio del loro temporaneo successo, essi continueranno ad adoperarsi per farci sembrare buona e giusta la propria furia assassina e per normalizzare agli occhi del mondo il delitto sacrilego. Hanno molte truppe al loro servizio, di attacco e di difesa, di avanguardia e di retroguardia, e molti agenti infiltrati nelle fila dei presunti avversari.
Per questo, la vera storia del piccolo Alfie non deve, per nessun motivo, essere riassorbita nella rassegnazione o rimossa per autodifesa. Deve restare, nella sua tragica crudezza, a indicare una frontiera reale, prossima, visibile e terribile per chi conservi ancora un barlume di ragione.
Tutti noi che abbiamo seguito gli avvenimenti avvicendatisi nell’ultimo periodo a ritmo incalzante, in un’altalena crudele di speranze e delusioni, di orgoglio e di rabbia, di fiducia e di smarrimento, ci sentiamo come svuotati. Questa vicenda ci ha messo davanti agli occhi l’epicentro di quel male le cui propaggini lambiscono anche casa nostra e ci ha fatto toccare con mano l’orrore allo stato puro. Ma insieme all’orrore, per grazia di Dio, ci ha mostrato anche la vitalità di un popolo che ha saputo per istinto infischiarsene degli inganni del mainstream alimentati persino da chi, per mestiere se non per vocazione, aveva l’imperativo morale di smontarli nella piazza globale e si è guardato bene dal farlo. In molti, per grazia di Dio, sono riusciti stavolta a scansare l’influenza nefasta delle sirene del dialogo e della diplomazia trasversale – sempre più goffe e sempre più sfacciate – e a tenere lo sguardo puntato al cuore di una questione umana (e sovra-umana) che si è manifestata subito come cruciale per la vita di tutti noi, dei nostri figli e della nostra stessa civiltà. L’Italia per bene s’è destata, ha gridato allo scandalo e si è inginocchiata in preghiera. Lo ha fatto tanta gente comune, lo hanno fatto – onore a loro – tanti politici di buon cuore che hanno saputo cogliere l’essenziale elevandosi al di sopra delle beghe di partito e di retrobottega.
Attraverso Alfie è arrivata all’orecchio dei giusti una sorta di ultima chiamata.
Tra le migliaia di messaggi, ci pare che riassuma il senso di quanto diciamo quello recente di un amico: “Siamo svuotati, stremati, estraniati. Con un senso quasi di colpa per goderci i figli e col rimorso di fare cose quotidiane allontanandoci pian piano ogni giorno da ciò che di essenziale ci ha coinvolti e travolti. Abbiamo finito le lacrime, resta la comunione che sappiamo di avere con alcune persone, nella coscienza e nella preghiera, e la determinazione a proseguire la battaglia in modo più intenso e più alto, perché Alfie è uno spartiacque”.
“Con i fianchi cinti e le lampade accese”
L’omicidio di Alfie Evans è davvero uno spartiacque. E molte cose questo bimbo ha ancora da dirci e non mancherà di dirle a quanti siano disposti a guardare alla realtà delle cose senza piegarsi alla menzogna delle parole né alla suggestione del sentimentalismo fine a se stesso.
Intanto, va detto che quanto è apparso sotto i riflettori, assurto all’onore delle cronache, dei tweet e dei selfie, non è tutto di questa storia. Vorremmo qui raccontare di certi risvolti rimasti dietro le quinte, ma densi di significato quando si tratti, con grande dolore, ma con altrettanta onestà, di ricostruire i contorni della vicenda e di mettere a fuoco le diverse responsabilità. Lo facciamo cominciando a parlare di Christine Broesamle, l’attivista pro life americana che per otto mesi è stata accanto alla famiglia Evans e ne ha sostenuto, sui vari fronti, la disperata battaglia contro il perverso ingranaggio di potere apparecchiato dal sistema “sanitario”, giudiziario ed ecclesiale britannico, straordinariamente alleati nella realizzazione di un tremendo obiettivo comune: quello di sopprimere un essere umano innocente.
Dedicando a questa missione i giorni e le notti, Christine è ripartita da zero ogni volta che la via intrapresa veniva beffardamente sbarrata dai mostri in camice o in parrucca (col concorso esterno di quelli in talare).
Ora è indagata dalle autorità britanniche insieme a uno degli avvocati della famiglia Evans. Dal poco che ci è dato sapere, i due dovranno rispondere delle parole mosse a medici e giudici e ritenute calunniose nei confronti di costoro. Ma non basta, perché questa donna è stata anche diffamata e non solo dalla stampa di regime, ma persino da certi ambienti catto-tradizionali che vedevano nella sua opera decisa e intransigente una minaccia ai buoni rapporti con la gerarchia “amica” (che, dal canto suo, nulla ha fatto e nulla ha detto per salvare Alfie).
In cosa è consistito il suo comportamento tanto sconveniente? Dopo la visita di Thomas Evans a Bergoglio, Christine, dinanzi al precipitare degli eventi e al prevedibile disinteresse mascherato da azione diplomatica, ha deciso di trattenersi a Roma per recarsi di persona presso il Sant’Uffizio a chiedere il passaporto vaticano per Alfie, e di non muoversi di lì fino a che non lo avesse avuto in mano. L’estrema speranza, l’ultima chance per evitare il distacco del respiratore al piccolo (distacco che, ricordiamolo, nelle previsioni dei medici dell’Alder Hey, avrebbe dovuto determinare la sua morte in tempi molto veloci, ovvero nell’ordine di una quindicina di minuti).
Era sola e, su sua richiesta, essendo lontani da Roma, abbiamo cercato con una catena di telefonate qualcuno che potesse accompagnarla e darle sostegno in questa iniziativa disperata. Di domenica mattina si è così creato un piccolo tam tam tra persone di buona volontà che ha portato alla costituzione di un gruppetto improvvisato davanti al Sant’Uffizio.
In mattinata Christine ha consegnato alla gendarmeria vaticana la lettera di cui abbiamo parlato nel nostro articolo dello scorso 22 aprile, in cui implorava un intervento di Bergoglio (LINK).
A sera, avvicinandosi l’ora dell’ultimo volo per tornare a Liverpool, Christine, vedendo sfumare ogni speranza, sfinita dalla tensione e dalla fatica, si è gettata in ginocchio davanti alla cancellata e, aggrappata alla grata, si è messa a piangere, gridare, pregare, supplicando aiuto per salvare Alfie. Senza ricevere alcuna risposta.
Lidia Polisano era lì con lei in quei momenti e rende per Riscossa Cristiana la sua testimonianza dell’accaduto. Quanto racconta è confermato da altre persone presenti e che, come Lidia, sono rimaste profondamente toccate da una scena definita da tutti come lancinante:
Insieme a tre ragazzi che fanno parte dell’associazione “Universitari per la vita” e ad altre quattro persone, siamo stati fuori dal Sant’Uffizio con Christine. Christine ad un certo punto si è messa a gridare e a piangere con tutta la voce che aveva in gola. È stata una scena a dir poco straziante, che ci ha fatto toccare con mano tutto l’amore e la devozione che questa donna nutre per il piccolo Alfie. Urlava: “Santo Padre salva il tuo figlio! Santo padre tu hai promesso! Santo Padre fai qualcosa! Ci hai promesso che avresti fatto di tutto per salvare Alfie!” Era disperata.
In ginocchio, aggrappata alla grata del sant’uffizio, ha pianto per più di un’ora. Sicuramente dentro Santa Marta l’hanno sentita, perché era impossibile non sentirla e ne abbiamo avuto conferma dalle guardie.
Avrei voluto scattare una foto perché la scena era molto eloquente, ma mi pareva di violare il suo dolore: la disperazione di un figlio che chiede aiuto alla Santa Madre Chiesa. Non nascondo che anch’io mi sono messa a piangere.
Siamo stati lì per un po’, abbiamo attirato l’attenzione solo delle guardie svizzere e della polizia, che sono venuti, ci hanno detto che non potevano fare nulla e hanno chiesto un documento di Christine (Christine ha risposto che tutti già conoscevano la sua identità), poi ci hanno invitati ad andare via da lì, hanno messo delle transenne e noi ci siamo spostati sulla piazza.
Poi Christine doveva andare via perché aveva il volo per Liverpool (che peraltro ha perduto) e una mia amica l’ha portata a Fiumicino.
Nel frattempo noi abbiamo comunicato a tutti i nostri contatti che avremmo fatto una veglia di fronte al Sant’Anna per il piccolo Alfie. Ad un certo punto una rappresentante di “Universitari per la vita” di nome Chiara ha parlato con un addetto all’ufficio passaporti che lavora con monsignor Borgia, gli ha fatto presente la situazione drammatica di Alfie, ha chiamato telefonicamente Christine e li ha fatti parlare insieme. L’impiegato ha detto che per il rilascio del passaporto servono i documenti e l’autorizzazione dei genitori e che è prescritto che il bambino debba presentarsi di persona in ambasciata (cosa evidentemente impossibile per Alfie, piantonato in ospedale).
Anch’io ho parlato con questo stesso impiegato e gli ho detto che il Santo Padre aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per salvare Alfie, che erano passati quattro giorni ma non era stato fatto nulla. Mi ha risposto che se anche si salvasse Alfie, poi degli altri venti e poi degli altri duecento cosa ne sarà? Degli altri bambini come Alfie, che avranno un domani le sue stesse aspettative? Mi ha detto che loro non possono salvarli tutti. Al che ho replicato “bene, quindi abbiamo fatto morire Charlie, poi abbiamo fatto morire Isaiah ora forse faremo morire anche Alfie e non facciamo nulla perché ci preoccupiamo di cosa potrà avvenire in futuro!”.
Chiara ha fatto presente che il papa durante la guerra ha salvati migliaia di ebrei dando loro asilo politico.
L’impiegato ha concluso dicendo che la questione è delicata e dovevamo lasciar fare a chi di competenza perché noi non capiamo niente di queste cose e poi così si rischia di mettere in difficoltà la segreteria vaticana e di deteriorare i rapporti diplomatici.
L’ho lasciato ricordandogli che proprio il giorno prima si leggeva in tutte le chiese la parabola del Buon Pastore, che da la vita per le sue pecorelle. Non lascia le 99 per salvare la pecorella dispersa?
Il Potere e i suoi alleati
La pecorella Alfie, figlia prediletta di Santa Madre Chiesa, è stata abbandonata in pasto ai lupi. I suoi pastori non l’hanno difesa, anzi, l’hanno consegnata quale vittima sacrificale al Leviatano statale dietro chissà quale ricompensa, o in nome di chissà quale patto scellerato.
A futura indelebile memoria restano le lettere scioccanti dell’arcivescovo di Liverpool McMahon e di tutto l’episcopato inglese a un’unica voce, restano le parole condiscendenti e untuose del presidente della Pontificia Accademia per la Vita, restano quelle di Bergoglio citate ad adiuvandum nella sentenza del giudice Hayden, restano i messaggi vacui e i discorsi ambigui, restano le colpevoli inerzie e i troppi eloquenti silenzi.
Resta, infine, a suggello di tutto, il richiamo a Londra di don Gabriele Brusco, assistente spirituale della famiglia Evans, che è stato sottratto al capezzale del piccolo proprio a ridosso dei preliminari della sua esecuzione, avvenuta al di fuori di ogni protocollo saltato per motivi di urgenza. Un gesto estremo e sinistro, quello del richiamo del sacerdote, e spietato oltre ogni misura; un atto d’imperio che, per forma e per sostanza, non può non lasciare atterriti.
Alfie – dicevamo – è uno spartiacque. Lo è perché la breve vita di un bambino che messo a morte non voleva morire, la sua agonia mediatica e la sua vigliacca soppressione nel silenzio e nella penombra di una prigione di massima sicurezza, devono segnare il tempo di un risveglio, se ancora esistono una fede e una civiltà. Ma non solo.
Alfie è uno spartiacque anche perché ha fatto venire a galla il meglio e il peggio del materiale umano che abita oggi questo nostro mondo impazzito: da una parte chi si è fatto trovare con i fianchi cinti e le lampade accese, e ha sfidato frontalmente col coraggio della disperazione la sfacciata arroganza di un potere iniquo; dall’altra chi di questo potere si è fatto collaboratore più o meno dichiarato, prestandosi in qualche misura al mercimonio della vita.
Il Potere, agli occhi del mondo, questa mano l’ha vinta. Beato chi in coscienza potrà dire: non in mio nome.
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