Anche i processi di canonizzazione, gestiti dalla Congregazione delle cause dei Santi, hanno subito delle profonde modifiche come tutti gli ambiti della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II. Oggi i Papi danno il loro assenso a tali processi seguendo non ciò che ha sempre sostenuto la Chiesa in materia di beatificazioni e canonizzazioni, ma secondo logiche mondane. Infatti, la stessa scelta di alcuni candidati all’onore degli altari è cambiata perché soggetta a scopi di carattere politico ed ideologico. Basti pensare a due recenti casi: Giorgio La Pira e Aldo Moro, di cui si possono trovare riferimenti in due articoli pubblicati su «Corrispondenza Romana», qui e qui.
I santi sono coloro che vivono e muoiono in Grazia di Dio, avendo esercitato tutte le virtù in grado eroico, vivendo le realtà terrene alla luce di quelle soprannaturali e imitando Cristo, la seconda Persona della Trinità, incarnatosi per morire sulla Croce e dare la possibilità a ciascuna persona di salvarsi. I santi, degni di sacro culto e indicati dalla Chiesa a modello per i fedeli, nonché possibile motivo di conversione per i non credenti, sono testimoni della Fede e non interpreti di correnti politiche. Da alcuni decenni, invece, si propongono esempi distanti da questi parametri, compiendo “santificazioni” laiche, scegliendo eroi-miti di una comunità oppure di un’ideologia o di un’epoca, che divengono loro simbolo.
La questione inerente il fatto che il santo può essere opportuno ed utile esempio da additare in un determinato periodo storico è di indiscutibile rilevanza. Soltanto nel 1900 venne canonizzata Santa Rita da Cascia, dopo 500 anni dal suo dies natalis. Perché dopo così tanto tempo per un culto che localmente, cioè in Umbria, era formidabile da secoli? Perché era giunta per la Chiesa la necessità di dare alle spose e alle madri di tutto il mondo un riferimento esemplare. Ed è proprio per questa ragione che oggi, quando la confusione di valori, di dottrina, di principi è immensa; quando le violazioni del diritto naturale e divino imperversano, pretendendo anche di trasformare le proprie perversioni in diritti; quando vengono meno linee guida solide e sicure, urgono modelli di santità che riconducano alla verità ed ai valori cattolici eterni.
È scandaloso, perciò, che i Pastori indirizzino l’attenzione delle anime a personalità che soddisfano una certa porzione di Chiesa atta a seguire eroi per il mondo e non eroi per il Cielo, così da appagare aspirazioni progressiste, liberali, relativiste, ecumeniche, protestanti, globaliste… Pensare sante figure come Alcide De Gasperi, Robert Schuman, Padre Pedro Arrupe Sj, l’Arcivescovo Hélder Pessoa Câmara, il Vescovo Tonino Bello, don Zeno Saltini, don Primo Mazzolari, già tutti dichiarati Servi di Dio, è inammissibile: avere buone intenzioni – ammesso che le avessero – non è mai stato un requisito sufficiente, e mai lo potrà essere, per essere santi!
Paolo VI rifiutò di canonizzare «per acclamazione Giovanni XXIII» alla chiusura del Vaticano II[1] perché sosteneva che, se si voleva santo Papa Roncalli, prima bisognava canonizzare Pio XII e che era necessario un iter processuale. Tra i moderatores era stato l’Arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro a raccogliere forti sollecitazioni in questo senso. Già nel novembre 1964 un sacerdote vicentino si era indirizzato all’Arcivescovo per chiedere la canonizzazione in Concilio del «carismatico Parroco del Mondo Papa Giovanni»:
«Il Papa Buono che in morte ha visto il mondo unito, lo rimostrerebbe riunito in una sua recente esaltazione al cospetto del Concilio da Lui voluto e penso da Lui anche assistito. Anche il mondo ha i suoi carismi e la universale intuizione è signum veritatis che i Padri a loro volta sapranno regolare. Il mondo canonizza Papa Giovanni. Lo canonizzi anche il concilio»[2].
Era stato il perito personale di Lercaro al Concilio, Giuseppe Dossetti, a redigere il testo di una conferenza letta dall’Arcivescovo di Bologna il 23 febbraio 1965 all’Istituto Sturzo di Roma, nell’ambito di un ciclo di seminari su «I Cattolici Italiani dall’800 ad oggi»[3]: l’idea di una profonda unità in Roncalli tra dimensione spirituale e dimensione di governo costituiva il filo rosso dell’intervento di Lercaro; per l’Arcivescovo di Bologna coloro che rivolgevano la loro attenzione «soprattutto alla luce spirituale» di Giovanni XXIII non potevano «non convenire che il carisma proprio di papa Giovanni ha portato in lui una tale unificazione tra natura e grazia, tra vita interiore e azione di governo, tra servizio ecclesiale e servizio semplicemente e universalmente umano, che non è possibile oggi considerare e ammirare la sua santità, senza accettare sinceramente e cercare di comprendere fino in fondo le intenzioni essenziali del suo governo e del suo magistero ecclesiale e storico»[4].
Giovanni XXIII è stato beatificato il 3 settembre 2000 per volere di Giovanni Paolo II ed è stato canonizzato il 27 aprile 2014 “ad ogni costo” da Francesco, senza neppure il placet divino, visto che non è avvenuto il miracolo necessario per un corretto iter di canonizzazione.
I santi sono coloro che rappresentano il volto e il cuore di Nostro Signore Gesù in terra, pertanto non possono essere utilizzati come pedine e i loro posti non possono neppure essere usurpati da figure sacralmente indegne. Nella contabilità delle beatificazioni e delle canonizzazioni, Papa Francesco ha superato, in quantità, quelle realizzate da Giovanni Paolo II. Una Chiesa Santa in terra si conta dalla qualità dei suoi santi e non dalla quantità. Anzi, un numero eccessivo di beatificazioni e canonizzazioni, quasi si volesse gareggiare con i record, tende inevitabilmente a sminuire e svilire di fronte al mondo il ruolo del santo.
Il santo, infatti, è persona straordinaria e non ordinaria, perché ”eletta”, cioè scelta, da Dio per venire nel mondo a portare la Sua luce, il Suo insegnamento, la Sua Verità, la Sua Bellezza, la Sua Misericordia, la Sua Giustizia. Il santo, quindi, non è mai ordinario, ma sempre straordinario, a differenza di ciò che si dice da cinquant’anni a questa parte: tutti sono chiamati alla santità, ma pochi la raggiungono (la porta del Paradiso è stretta, come ricorda il Vangelo) e ancor meno sono coloro che degnamente raggiungono l’onore degli altari per volontà della Chiesa, e gli altari appartengono solo a Cristo.
Chi mai potrà congiungere le mani e piegare le ginocchia per pregare davanti ad un altare dedicato ad un mito? Tuttavia è ciò che accade oggi, calpestando ogni tipo di logica e di norma atti a dichiarare, nella verità e nella giustizia del diritto sia divino che ecclesiale, un fedele degno di entrare nell’ordinamento della Chiesa di Roma, specchio dell’ordinamento divino: Servo di Dio, Venerabile, Beato, Santo.
Al fine di spiegare criteri e requisiti per essere presi in considerazione come campioni della Fede, dopodiché essere presi in esame dalla Chiesa cattolica, proponiamo, diviso in due parti, un eccellente ed esaustivo contributo del teologo Don Jean-Michel Gleize, dal titolo Béatification et Canonisation depuis Vatican II, pubblicato, prima della beatificazione di Giovanni Paolo II, sul mensile «Courrier de Rome» nel febbraio del 2011, Anno XLVI n° 341 (531), pp. 1-7 e tradotto in italiano su «La Tradizione Cattolica», n° 86, Anno XXIV (2013), pp. 23-38.
Cristina Siccardi
[1] Sulle sue iniziative conciliari al riguardo cfr. L. Bettazzi, Una Chiesa per tutti, Roma 1971, pp. 363-373, e A. Melloni, La causa Roncalli, La causa Roncalli. Origini di un processo canonico, in «Cristianesimo nella storia», 18 (1997)/3, pp. 617-620 e 625. Nella propria deposizione processuale Mons. Martimort, favorevole al progetto di una canonizzazione di Giovanni XXIII «per acclamazione», ha ricordato di aver aiutato Bettazzi per consentirgli di intervenire in aula sull’argomento, Parigi (3), 99ª [19.03.1970], p. 434.
[2] Lettera di R. Cavazzana a G. Lercaro, 29 novembre 1964, Archivio Giacomo Lercaro, Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII (Bologna), f. «Processi di santi», A.LXVIII; nella medesima cartella è contenuta la lettera di un ragazzo emigrato in Germania che chiedeva a Lercaro, «tanto buono con i bambini», «di fare quanto è in suo potere di proclamare Santo il nostro amato scomparso Papa Giovanni XXIII al termine del Concilio Vaticano II».
[3] G. Lercaro, Linee per una ricerca su Giovanni XXIII, ediz. critica in Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del Card. Giacomo Lercaro, a cura dell’Istituto per le scienze religiose, Bologna 1984, pp. 287-310. Il testo è stato reso noto nella sua integrità solo tredici anni dopo essere stato pronunciato dal Cardinal Lercaro in A. e G. Alberigo, Giovanni XXIII, profezia nella fedeltà, Brescia 1978, pp. 495-515; in una lettera a Mons. Capovilla dell’8 agosto 1966, il postulatore Padre Cairoli, riferendosi all’edizione della conferenza di Lercaro per i tipi delle Edizioni di Storia e Letteratura (1965) dichiarava che gli erano «molto piaciuti gli studi del Card. Lercaro e del [De] Rosa: offrono un serio contributo allo studio della personalità di Papa Giovanni: conosco bene le opere giuridiche del Dossetti e mi sembra di averne riconosciuto lo stile ed il pensiero!», AR, b. 56: «Causa di beatificazione di papa Giovanni XXIII».
[4] G. Lercaro, Linee per una ricerca, cit., p. 288.
Beatificazione e Canonizzazione
dopo il Vaticano II
«Che gli spiriti dei mortali disprezzino le realtà visibili, per non desiderare più che i beni invisibili, è certo il maggiore dei miracoli e l’opera manifesta dell’ispirazione di Dio»[1]. La virtù eroica dei santi è quindi l’indizio più eloquente della divinità della Chiesa. E di solito, questo indizio è esso stesso autentificato, riceve il sigillo della Chiesa che si porta garante della sua propria santità: è la canonizzazione, atto solenne con cui il sommo pontefice, giudicando in ultima istanza ed emettendo una sentenza definitiva, dichiara la virtù eroica di un membro della Chiesa.
La canonizzazione rientra nella categoria dei fatti disciplinari, in cui i teologi classificano le varie leggi promulgate per il bene di tutta la Chiesa e che corrispondono all’oggetto secondo del magistero infallibile. Ne fanno parte la legge liturgica universale, che prescrive il modo di rendere a Dio il culto che gli è dovuto; la canonizzazione, che è la legge con cui la Chiesa prescrive la venerazione di un fedele defunto che in vita abbia praticato la santità perfetta; l’approvazione solenne degli ordini religiosi, che è la legge con cui la Chiesa prescrive il rispetto e la stima per una regola di vita che è un mezzo certo di santificazione.
L’infallibilità di queste leggi si spiega perché la Chiesa con esse dà a tutti i fedeli l’espressione dei mezzi richiesti per la conservazione del deposito della fede[2]. Queste leggi non sono quindi l’espressione di un potere puramente legislativo; esse corrispondono formalmente all’esercizio di un potere magisteriale, perché, alla radice, mettono in gioco la rivelazione[3]. Stabilendo infallibilmente certi fatti, che sono al di fuori del dominio delle verità rivelate, la Chiesa presuppone la professione di un principio formalmente rivelato, che si tratta di difendere, tramite le sue applicazioni concrete.
Su questo come su altri punti, l’aggiornamento conciliare doveva lasciare delle tracce. Le riforme derivate dal Concilio Vaticano II hanno toccato tutti i campi. Si è imposto e s’impone ancora ai fedeli cattolici non solo un nuovo magistero ed una nuova teologia, ma anche una nuova liturgia, una nuova messa, nuovi riti sacramentali, nuovi santi, nuove canonizzazioni e infine nuove comunità, dei nuovi “ordini”, dei movimenti di cui ci si può chiedere in cosa sarebbero religiosi. Tutto ciò non può non porre dei problemi reali, il più spinoso dei quali è sicuramente quello dell’infallibilità di queste nuove leggi.
Ora, la questione dell’infallibilità dipende essa stessa da un’altra, che è quella della validità di tale legislazione. Infatti, queste leggi sono infallibili in quanto leggi, allo stesso modo in cui l’insegnamento del magistero è (a certe condizioni) infallibile in quanto è precisamente l’atto di magistero. L’infallibilità è una proprietà che presuppone la definizione essenziale dell’atto al quale corrisponde. Se si cambia tale definizione, per ciò stesso si cambia anche la proprietà che ne deriva. Se un atto diventa dubbio, lo diventa anche la sua infallibilità. Perciò, se si vuole risolvere la difficoltà posta da queste novità postconciliari, ci sono solo due soluzioni. Nella prima soluzione, constatiamo che le nuove leggi nate dal Vaticano II sono leggi legittime alle condizioni volute e allora si deve dire che esse sono infallibili. Nella seconda soluzione, constatiamo che queste nuove iniziative nate dal Vaticano II sono il più delle volte dubbie e non presentano più le garanzie sufficienti perché si possa riconoscere in esse delle leggi legittime, nel senso tradizionale del termine, e ciò autorizza dubitare della loro infallibilità. Ma, in ogni caso, non è possibile dare una soluzione ammettendo che queste nuove iniziative postconciliari sono leggi legittime alle condizioni volute e negando che siano infallibili. Perché questa infallibilità, benché ancora non definita solennemente, è un dato acquisito di tutta la teologia secolare e dell’insegnamento del magistero ordinario: si può dire che essa sia prossimamente definibile e che sarebbe temerario negarla. Seguendo Mons. Lefebvre, noi difendiamo la seconda soluzione. Noi diciamo che la nuova legislazione postconciliare (nuova messa e nuova liturgia, nuove canonizzazioni, nuovo diritto canonico) non è infallibile e non vincola, perché abbiamo serie ragioni di dubitare della sua stessa natura di legge. In questa argomentazione, tutto dipenderà dalla legittimità delle nuove canonizzazioni e delle nuove beatificazioni.
Nella prima parte ricorderemo i principi tradizionali concernenti la natura dell’infallibilità delle canonizzazioni, riguardo alla beatificazione. Nella seconda parte esamineremo le difficoltà poste dalle iniziative postconciliari.
Prima parte
I PRINCIPI TRADIZIONALI
Per procedere con ordine, in questa prima parte cominceremo col definire la beatificazione e la canonizzazione (§ 1) prima di dimostrare che la canonizzazione è infallibile in quanto tale e prescindendo dalla circostanza sopraggiunta con l’aggiornamento del Vaticano II (§ 2).
1) Alcune definizioni
a) La beatificazione
La beatificazione è un atto con cui il Sommo Pontefice concede il permesso di rendere un culto pubblico al beatificato, in alcune parti della Chiesa, fino a che il beato sia canonizzato. Questo atto dunque non è un precetto; è un atto temporaneo e non definitivo; è riformabile. La beatificazione si riduce a permettere il culto. L’atto di beatificazione non enuncia direttamente né glorificazione né virtù eroiche del servo di Dio beatificato[4].
b) La canonizzazione
La canonizzazione è l’atto con cui il Vicario di Cristo, giudicando in ultima istanza ed emettendo una sentenza definitiva, iscrive nel registro dei santi un servo di Dio precedentemente beatificato.
L’oggetto della canonizzazione è triplice, perché questo atto non concerne solo il culto. Il Papa dichiara in primo luogo che il fedele defunto è nella gloria del paradiso; in secondo luogo dichiara che il fedele defunto ha meritato di giungere a questa gloria esercitando delle virtù eroiche che valgono d’esempio per tutta la Chiesa; in terzo luogo, per dare meglio l’esempio di queste virtù e ringraziare Dio di averle rese possibili, prescrive che venga reso un culto pubblico a questo fedele defunto. Su questi tre punti la canonizzazione è un precetto; vincola tutta la Chiesa; è un atto definitivo e irriformabile.
Il registro dei santi non è il Martirologio; e d’altronde l’espressione «iscrivere nel registro dei santi» non si riferisce ad un documento materiale, ma evoca solo l’intenzione della Chiesa che, con l’atto della canonizzazione, annovera ormai nel numero dei suoi santi il nuovo canonizzato e impone a tutti i fedeli di venerarlo come tale. L’atto della canonizzazione dichiara in modo definitivo la santità del canonizzato, così come la sua glorificazione, e di conseguenza ne prescrive il culto a tutta la Chiesa; altra cosa è il prescrivere alla Chiesa universale la celebrazione della messa e la recita dell’ufficio in onore di quel santo: è una determinazione che esige un atto supplementare, specifico e distinto dalla canonizzazione.
L’iscrizione di un personaggio nel Martirologio non significa la canonizzazione infallibile di quest’ultimo. Il martirologio è la lista che racchiude non solo tutti i santi canonizzati, ma anche i servi di Dio che hanno potuto essere beatificati, sia dal Sommo Pontefice, sia dei vescovi prima del XII secolo, data in cui il Papa si riserva il privilegio di procedere alle beatificazioni ed alle canonizzazioni. I titoli di «sanctus» o di «beatus» nel Martirologio non hanno significato preciso che permetterebbe di fare distinguo tra santo canonizzato e beato.
c) Similitudini e differenze
La beatificazione e la canonizzazione hanno entrambe come oggetto di rendere possibile il culto di un fedele defunto, il che presuppone che quel fedele abbia esercitato in vita delle virtù esemplari e ottenuto la gloria. La differenza è che la beatificazione non fa che rendere quel culto possibile (è un permesso) e non fa che supporre la gloria e le virtù esemplari; mentre la canonizzazione rende quel culto obbligatorio (è un precetto) ed impone ai fedeli di credere esplicitamente alla realtà della gloria delle virtù eroiche del santo.
In tutto ciò, l’essenziale è la virtù esemplare (o eroica) del fedele defunto ed è quella che si cerca di verificare nei due processi, quello della beatificazione e quello della canonizzazione. Infatti, il culto presuppone questa virtù come l’effetto presuppone la sua causa. I miracoli sono essi stessi presi in considerazione solo come segni che attestano la virtù eroica. Senza virtù eroica, non c’è santità né venerazione.
d) Conseguenze
Esiste una differenza tra un santo ed un santo canonizzato. La canonizzazione non causa ma indica la santità di una persona. E la indica come esempio. Questo spiega perché non si canonizzino né tutte né molte persone. L’esempio, per essere eloquente, deve essere unico o raro. Moltiplicare i santi equivale a sminuire la loro esemplarità[5]: quand’anche i santi fossero numerosi, un piccolo numero di essi e non la maggior parte dovrebbero essere levati sugli altari. D’altra parte, la Chiesa dà sempre gli esempi di cui i fedeli hanno bisogno, nel contesto di un’epoca. In questo senso, la canonizzazione è un atto politico, nella migliore accezione del termine: non un atto di demagogia partigiana, ma un atto che procura il bene comune di tutta la Chiesa, un atto di rilevanza sociale, un atto che tiene conto delle circostanze. Santa Giovanna d’Arco è stata canonizzata nel 1920, più di 500 anni dopo la sua morte; santa Teresa del Bambin Gesù lo è stata nel 1925, meno di 30 anni dopo la sua morte. I due esempi furono utili alla Chiesa, ma il primo sarebbe stato difficilmente capito prima, o troppo presto, prima che la distanza del tempo avesse sbiadito il contesto e le conseguenze di una lotta secolare.
C’è un’altra differenza da osservare, tra salvezza e santità. Una persona morta in odore di santità è salva. Ma ci si può salvare senza aver vissuto come un santo. Agli occhi dei fedeli, la canonizzazione ha come scopo principale ed effetto immediato di segnalare (per darla d’esempio) la santità di vita. Anche se si sono potute salvare ed andare in paradiso, non si canonizzato delle persone che in vita non hanno dato esempi di santità.
2) L’infallibilità
Tale questione è duplice. Innanzitutto, il giudizio del Sommo Pontefice è infallibile quando canonizza un santo (§ 2.1)? Inoltre, è verità di fede che questo giudizio sia infallibile, di modo che il negarlo equivarrebbe a denunciare un’eresia (§ 2.2)? Si potrebbe già rispondere a ciascuna di queste due domande basandosi sui discorsi di Papa Sisto V (1585-1590) in occasione del primo concistoro che precedette la canonizzazione di san Diego nel 1588: «Il Papa dimostrò, appoggiandosi sulle Sacre Scritture, sugli argomenti della ragione presi dalla teologia e su ogni sorta di prove, che il Pontefice Romano, vero successore di san Pietro e Principe degli apostoli per il quale Cristo ha pregato chiedendo che la sua fede non venisse meno, quel Pontefice che è il vero capo della Chiesa, fondamento e colonna della verità che dirige e guida lo Spirito Santo, non può sbagliarsi né essere indotto in errore quando canonizza i santi. E affermò che tale verità deve non solo essere creduta come una pia credenza, ma costituisce l’oggetto di un atto di fede certissimo e necessario; e per stabilire questo punto produsse tutti gli argomenti di peso e d’autorità divina. Aggiungendo anche, cosa assai manifesta, che le leggi della Chiesa e del Papa sono certe e sicure se concernono la disciplina della fede dei costumi e si fondano su dei principi certi e dei fondamenti solidi»[6]. Nondimeno, queste parole del Papa emanano da lui come dottore privato. Perciò si deve esaminare questa duplice questione più dettagliatamente e considerare l’ipotesi dei vari teologi.
2.1) La canonizzazione è infallibile
L’infallibilità delle canonizzazioni oggi è dottrina comune e certa per il maggior numero dei teologi[7]. E tutti i manuali dopo il Vaticano I ( e prima del Vaticano II), da Billot fino a Salaverri, lo insegnano come una tesi comune in teologia[8].
Il principale rappresentante degli avversari dell’infallibilità delle canonizzazioni è Caietano (1469-1534) nel suo Trattato delle indulgenze, nel capitolo VIII. Secondo lui, l’infallibilità di una canonizzazione non è né necessaria né possibile[9]. Questa opinione prima di Caietano era già stata difesa da Agostino Trionfo o Agostino d’Ancona (1243-1328), nella sua Somma sul potere della Chiesa. Il suo ragionamento fondamentale è identico a quello di Caietano. Consiste nel dire che, non potendo giudicare direttamente l’intimo delle coscienze, la Chiesa non può discernere infallibilmente la santità di una persona.
A partire dal Vaticano II, alcuni teologi conciliari hanno ripreso questa posizione anti-infallibilista. Alcuni di loro hanno addotto le difficoltà d’ordine storico per mettere in dubbio l’infallibilità delle canonizzazioni[10]. L’opinione difesa da Agostino d’Ancona e Caietano è stata ripresa recentemente da padre Daniel Ols op, Professore all’Università pontificia dell’Angelicum e relatore della Congregazione per la causa dei santi, in uno studio sui «Fondamenti teologici del culto dei Santi»[11]. Infine, Mons. Brunero Gherardini, in un articolo pubblicato nella rivista Divinitas[12], traccia un bilancio della controversia sull’argomento. Questo studio rinnova la problematica nella misura in cui tiene conto delle varie reazioni suscitate dalle recenti canonizzazioni di Giovanni Paolo II[13]. La fine dell’articolo[14] presenta una serie di obiezioni che andrebbero in direzione dell’infallibilità.
Seguendo san Tommaso[15], la maggior parte dei canonisti[16] e dei teologi[17] difende la tesi dell’infallibilità delle canonizzazioni. Notiamo che il problema posto è molto preciso: san Tommaso non si chiede se il Papa è infallibile quando canonizza un santo. La sua problematica riguarda il sapere se tutti i santi che sono canonizzati dalla Chiesa siano in gloria o se alcuni di essi possano trovarsi all’inferno. Questo modo di porre il problema orienta già tutta la risposta. Per san Tommaso, la canonizzazione richiede l’infallibilità prima di tutto perché comporta la professione di una verità che è virtualmente rivelata. Ciò non esclude gli altri due aspetti: l’esempio della vita del santo e il culto prescritto. Ma esiste un ordine tra i tre giudizi che il Papa enuncia allorché canonizza un santo. Il primo giudizio verte su un fatto teorico ed enuncia che una persona defunta ha perseverato fino alla fine nella pratica eroica della virtù soprannaturale e ora è glorificata nella beatitudine eterna. Il secondo giudizio fa imitare a tutta la Chiesa come esemplari le virtù eroiche messe in pratica dalla persona canonizzata. Il terzo giudizio è un precetto che impone il culto pubblico di un santo a tutta la Chiesa. La canonizzazione dà come esempio le virtù eroiche del santo e rende il suo culto obbligatorio. Ma essa presuppone innanzitutto il fatto della glorificazione di quel santo. Benedetto XIV, che cita e fa sue le riflessioni di san Tommaso, considera che il giudizio della canonizzazione si basi in ultima analisi sull’enunciato di una verità speculativa, dedotta dalla rivelazione[18].
Resta da provare che questo triplice giudizio sia infallibile. Per farlo, non disponiamo di argomenti di autorità di magistero, perché l’infallibilità delle canonizzazioni non è definita come un dogma. San Tommaso si accontenta di fornire quello che sarebbe l’equivalente di un argomento d’autorità: una riduzione all’assurdo. Se vogliamo, è l’autorità dei primi principi della ragione e della logica. Ci sono due riduzioni: se si nega l’infallibilità della canonizzazione s’incorre in un doppio pregiudizio inverosimile da una parte nell’ordine pratico e dall’altra nell’ordine speculativo. Prima riduzione all’assurdo sull’ordine pratico: se la canonizzazione non fosse infallibile, i fedeli potrebbero venerare come santo un peccatore; quelli che l’avessero conosciuto da vivo sarebbero portati a credere sulla autorità della Chiesa che il suo stato di peccatore in realtà non fosse tale; ora questo sarebbe come confondere nella mente dei fedeli la virtù e il vizio e sarebbe un errore pregiudizievole per la Chiesa. Seconda riduzione all’assurdo sul piano teorico: Sant’Agostino dice che se c’è un errore nell’insegnamento della rivelazione divina, consegnata nelle Scritture, la fede viene privata del suo fondamento; ora, così come la nostra fede si fonda sull’insegnamento delle Scritture, si basa anche sull’insegnamento della Chiesa universale; dunque, se si trova un errore nell’insegnamento della Chiesa universale, similmente la nostra fede è privata del suo fondamento; ora Dio non può privare la nostra fede del suo fondamento; dunque gli insegnamenti della Chiesa universale, tra cui la canonizzazione, devono essere infallibili come l’insegnamento delle Scritture. Domenico Bañez completa questa argomentazione precisando che se si afferma la possibilità d’errore nella canonizzazione dei santi, si scandalizza la Chiesa militante nei suoi costumi, si rende sospetta la sua professione di fede, e si fa ingiuria alla Chiesa trionfante del cielo.
Per corroborare questi argomenti difensivi, san Tommaso utilizza in seguito un argomento della ragione teologica. Il giudizio della canonizzazione è un giudizio del Papa in una materia che implica una certa professione di fede, poiché venerare un santo ed imitare le sue virtù è dire implicitamente che lo si crede giunto alla gloria del cielo. Ora, nelle materie che riguardano la professione di fede, il giudizio del Papa è infallibile perché Dio lo ha promesso. Il giudizio della canonizzazione quindi è infallibile. È qui che possiamo ricorrere ai chiarimenti dati da Giovanni di san Tommaso, per capire perché l’assistenza divina qui sia richiesta in modo particolare. Il giudizio della canonizzazione può intendersi come una conclusione che risulta dalle sue premesse. La prima è una condizione formalmente rivelata: chiunque perseveri fino alla fine della pratica eroica delle virtù soprannaturali ottiene la ricompensa eterna nella gloria. La seconda è un fatto probabile, attestato dalle testimonianze umane: tale fedele ha perseverato fino alla fine nella pratica eroica delle virtù soprannaturali. La conclusione derivante da queste due premesse quindi è ottenuta per mezzo di testimonianze, ed è per questo che essa non deriva da una vera dimostrazione scientifica, assolutamente vincolante. Il giudizio della canonizzazione fa intervenire un ragionamento che i vecchi logici avrebbero considerato come probabile. Vi si trova ciò che normalmente deve verificarsi in ogni ragionamento teologico, poiché la proposizione enunciata in conclusione cui si ricollega, benché indirettamente, ad una verità di fede[19]. Tale legame è solo indiretto perché, tra la verità formalmente rivelata e la conclusione, interviene la mediazione di una verità la cui certezza non è più quella della fede. Ma anche se solo indiretto, il legame esiste e la conclusione si radica nonostante tutto in una professione di fede formale ed esplicita. La differenza che porta a dire che questo ragionamento è soltanto probabile è che, per stabilire una conclusione teologica si passa da una proposizione razionale evidente e certa; mentre per stabilire il giudizio della canonizzazione si passa dalle testimonianze. Ecco perché l’assistenza divina è necessaria, proprio al livello del discernimento di queste testimonianze: l’infallibilità non potrebbe accompagnare un’iniziativa in cui ci si appella alla contingenza e la cui certezza resta soltanto probabile.
Si potrebbe obiettare che se si considera la canonizzazione come infallibile, la si mette sullo stesso piano delle solenni definizioni ex cathedra, cosa che pare inconcepibile. Benedetto XIV risponde con tutta la tradizione teologica più sicura[20] che una tale assimilazione è al contrario nell’ordine delle cose. Certo non si può ridurre univocamente la canonizzazione alla definizione dogmatica infallibile; ma si può nondimeno considerare che l’atto del magistero solenne infallibile si realizzi in modi analogamente diversi. Un atto del Papa che ha per fine la conservazione del bene comune di tutta la Chiesa è un atto di definizione infallibile. Ora, il Papa conserva il bene comune di tutta la Chiesa non solo quando agisce strettamente come Dottore supremo, per insegnare, ma anche quando agisce più ampiamente come Pastore supremo, per governare. L’insegnamento del dottore non esaurisce tutta l’attività del pastore. E spetta al pastore fare delle leggi che provvedano al bene comune di tutta la Chiesa: in quanto tali, queste leggi non esprimono la verità formalmente rivelata; ma, nella misura in cui esse sono stabilite per il bene dell’unità di fede, sono analoghe alla definizione infallibile[21].
Aggiungiamo una ragione supplementare per giustificare questa analogia: infatti sopra abbiamo dimostrato, appoggiandoci a san Tommaso ed ai suoi commentatori, che se la canonizzazione è di conseguenza un esempio ed una legge, essa è anche formalmente e innanzitutto una professione mediata di fede. A questo titolo potremmo già assimilarla ad una definizione. La canonizzazione potrebbe ricondursi all’esercizio del magistero solenne infallibile e personale del Sommo Pontefice, a motivo del suo oggetto secondario. Tra altri autori, padre Salaverri cita degli esempi in cui vediamo che i termini usati dai Papi Pio XI e Pio XII esprimono senza alcun dubbio possibile la loro esplicita volontà di esercitare un atto solenne infallibile[22]. E Mons. Lefebvre diceva spesso che Papa san Pio V aveva «canonizzato il rito della Messa»: voleva esprimere così l’infallibilità delle leggi liturgiche per analogia con quella delle canonizzazioni; e supponeva dunque quest’ultima come equivalente molto probabilmente ad un atto personale del magistero solenne del Papa.
2.2) Il valore dottrinale di questa infallibilità
Benedetto XIV[23] dimostra che i teologi non sono unanimi quando si tratta di pronunciarsi sul valore dottrinale dell’infallibilità delle canonizzazioni. Alcuni ritengono che tale infallibilità non sia un dogma di fede definito: tra questi, notiamo i domenicani Giovanni di San Tommaso e Domenico Bañez, il gesuita Francesco Suarez e i Carmelitani di Salamanca. Altri credono che tale conclusione equivalga ad un dogma di fede. Osserviamo che il problema è duplice: il valore dottrinale dell’infallibilità della canonizzazione si scompone in due aspetti. C’è il valore dell’ assenso richiesto da parte nostra al fatto teorico su cui verte il giudizio della canonizzazione: è di fede definita che un santo canonizzato sia indubitabilmente nella gloria del paradiso? E c’è il valore dell’infallibilità dell’atto della canonizzazione: è di fede definita che il Papa non possa sbagliare quando procede all’atto della canonizzazione? Gli autori (Benedetto XIV, Giovanni di San Tommaso e Bañez) si interessano ai due aspetti, ma privilegiano soprattutto il primo.
È di fede definita che un santo canonizzato sia indubbiamente nella gloria del paradiso? La tesi più comune in teologia è quella in cui si dimostra che la glorificazione di un santo canonizzato possa essere infallibilmente definita non come di fede, cioè come rivelata formalmente, ma come rivelata virtualmente. Negare questa verità non comporta la nota d’eresia, perché non è verità formalmente rivelata e perché la sua negazione porterebbe pregiudizio alla fede solo indirettamente: se questa verità rivelata virtualmente costituisce l’oggetto di una definizione infallibile nel contesto dell’atto della canonizzazione, essa sarà definita non come di fede divina cattolica, ma come certa o di fede cattolica; negarlo sarebbe dunque erroneo o falso; e secondo Giovanni di San Tommaso sarebbe anche: scandaloso per tutta la Chiesa, perché indurrebbe i fedeli a peccare dando loro come esempio un dannato; empio, perché sarebbe contrario al culto dovuto a Dio; ingiurioso, perché andrebbe contro l’onore dovuto al santo canonizzato.
È di fede definita che il Papa non possa sbagliare quando canonizza un santo? Benedetto XIV afferma che l’infallibilità dell’atto della canonizzazione non è ancora definita come di fede, ma che potrebbe esserlo a favore di tale eventualità, si può considerare che il concilio di Trento nei suoi decreti insegna che si deve rendere un culto ai canonizzati[24]; che si devono venerare le loro reliquie[25]. E nelle bolle di canonizzazione merita censura «sapiens hæresim et proximum errori in fide». Perché ciò equivarrebbe a mettere in causa il potere ecclesiastico ed il buon governo della società della Chiesa, a negare l’infallibilità delle leggi universali che hanno il fine di salvare la fede e i costumi. Benedetto XIV afferma che negare tali infallibilità equivarrebbe, se non alla nota di eresia, almeno quella della temerarietà; questa negazione implicherebbe anche ingiuria ai santi e scandalo per la Chiesa. Meriterebbe in tal modo le sanzioni più gravi[26].
Don Jean-Michel Gleize, «Courrier de Rome», febbraio 2011
[1] San Tommaso d’Aquino, Conta gentes, libro 1, capitolo 6.
[2] Cardinale Louis Billot sj, L’Eglise. II. Sa constitution intime, Courrier de Rome, 2010, nn°578-582, pp. 189-193.
[3] Il potere di magistero non è soltanto il potere di enunciare il vero puramente speculativo; ha per oggetto anche la verità pratica. Cosa che porta un buon numero di autori a considerare il potere di giurisdizione come un insieme potenziale, le cui parti analoghe sarebbero il magistero e il governo. Sullo stato di tale questione, cfr. Timoteo Zapalena sj, De Ecclesia Christi, pars altera, tesi XVI, pp.120 e segg.
[4] Billot, ibidem, nota 152, p. 206.
[5] «Giovanni Paolo II ha fatto più canonizzazioni di quanto abbiano fatto tutti i papi di questo secolo. Ma in tal modo, non si salva la dignità della canonizzazione. Se le canonizzazioni sono numerose, non possono essere, non diciamo valide, ma prese in considerazione né costituire l’oggetto di venerazione da parte della Chiesa universale. Se le canonizzazioni si moltiplicano, il loro valore diminuisce» (Romano Amerio, Stat veritas. Seguito di Iota unum. Glossa 39 sul § 37 della lettera apostolica Tertio millenio adveniente, p.117).
[6] Citato da Benedetto XIV, De la béatification des serviteurs de Dieu et de la canonisation des saints, libro 1, capitolo 43, n° 2.
[7] Cardinale Louis Billot sj, L’Eglise. II. Sa constitution intime, Courrier de Rome, 2010, n°601, pp. 208-209; Arnaldo Xavier da Silveira, Appendice: Lois et infallibilité in La nouvelle messe de Paul VI: qu’en penser? DPF, 1975, p.164.
[8] Salaverri nel suo De Ecclesia, tesi 17, § 726 afferma che è una verità almeno teologicamente certa se non implicitamente definita.
[9] Cajetan, Trattato 15 sulle indulgenze, capitolo 8 in Opuscola omnia, Georg Olms Verlag, Hildesheim, 1995, p. 96.
[10] Per esempio, il benedettino De Vooght invoca il celebre caso di san Giovanni Nepomuceno (la cui esistenza storica sarebbe secondo i razionalisti molto incerta) per concludere così: «io credo che dall’avventura di san Giovanni di Pomuk possiamo trarre la conclusione che il Papa non è infallibile nelle canonizzazioni dei santi» («Le dimensioni reali dell’infallibilità papale» in L’infallibilità: il suo aspetto filosofico e teologico – Atti del colloquio del Centro internazionale di studi umanisti e dell’Istituto di studi filosofici, Roma 5-12 febbraio 1970, pp. 145-149).
[11] Daniel Ols op, «Fondamenti teologici del culto dei Santi» in Aa.Vv. dello Studium Congregationis de causis sanctorum, parte teologica, Roma, 2002, pp. 1-54. Ammettendo per ipotesi un errore da parte della Chiesa che avesse canonizzato un santo inesistente o perfino (per assurdo) dannato, padre Ols afferma che ciò non presenterebbe un inconveniente per la fede. Poiché l’infallibilità è necessaria solo se l’errore comporta un danno per la fede, le canonizzazioni non la richiederebbero. Infatti, c’è inconveniente per la fede se l’errore della Chiesa in una canonizzazione porta i fedeli a professare in pratica l’eresia o l’immoralità; ora tale condizione non ha luogo dato che la pratica dei fedeli che deriva dalla canonizzazione prescinde dall’esistenza e dalla glorificazione reali del santo canonizzato: in caso d’errore, la persuasione personale dei fedeli basterebbe a fondare la loro devozione.
[12] Mons. Prof. Brunero Gherardini, «Canonizzazione ed infallibilità» in Divinitas numero del 2° semestre 2003, pp. 196-221.
[13] Queste posizioni più o meno recenti sono presentate al § 6 dell’articolo citato, pp. 211-214.
[14] Al § 7, pp. 214-221.
[15] Nel suo Quodlibet 9, articolo 16.
[16] Citati da Benedetto XIV, ibidem, n°5. Cfr. Billot, ibidem, n°601, nota 157, pp. 208-209.
[17] Citiamo soprattutto: Domenico Bañez (su 2a 2ae, q 1, art.10, dubium 7, 2a conclusione); Giovanni di San Tommaso (su 2a 2ae, q 1, disputatio 9, articolo 2), Melchiorre Cano (De locis theologis, libro 5, capitolo 5, questione 5, articolo 3, 3a conclusione, § 44).
[18] Benedetto XIV, ibidem, n° 12. Vedi anche Billot, ibidem, 600, p. 207.
[19] Giovanni di San Tommaso, ibidem, n° 11: «quasi reductive pertinet ad fidem». Cfr. Billot, ibidem, n° 601, pp. 208-209: «Alcuni hanno pensato che San Tommaso non fosse certo di queste infallibilità della Chiesa nella canonizzazione dei santi, dato che nella questione quodlibetale n° 9, questione 5, articolo 16 dice: “Si deve credere pienamente che il giudizio della Chiesa in queste materie è infallibile”. Innanzitutto, rispondiamo che, anche se San Tommaso fosse stato indeciso su questo punto, la nostra conclusione non perderebbe nulla della sua certezza. Infatti non sarebbe una cosa inaudita nella Chiesa, ed è stato anche osservato spesso, che una dottrina ritenuta prima probabile o più probabile in seguito fosse divenuto assolutamente certa, una volta chiarita la questione, e anche prima che la Chiesa ne donasse una definizione solenne. In secondo luogo rispondiamo che il dottore angelico non ha mai esitato su questo punto, perché dice non “si può credere pienamente” ma “si deve credere pienamente”, e rifiuta senza alcun equivoco tutti gli argomenti invocati a sostegno della negativa. Quanto all’argomento invocato a favore dell’affermativa, se egli non lo rifiuta e perché lo considera come conclusivo, così come vuole l’uso».
[20] Ibidem, capitolo 44, n°4.
[21] Nello studio sopra citato, padre Ols esamina la formula classica utilizzata per la proclamazione solenne della canonizzazione: «Decernimus» o «Definimus». Ricorrendo a delle espressioni di questo genere, dice, e contrariamente a ciò che ha luogo nel quadro delle definizioni dogmatiche, i Papi non dicono mai che propongono una verità da credere né che la propongono obbligando a questo o a quell’assenso. Il nostro autore conclude che la formula solenne della canonizzazione non esprime niente di infallibile. Certo, la formula di canonizzazione esprime una cosa diversa da una definizione dogmatica ed è per questo che la sua espressione è solo analoga a quella delle definizioni dogmatiche che esprimono le verità formalmente rivelate. Ma ciò non prova né che solo queste ultime esprimono un giudizio infallibile, né che solo queste ultime siano definitorie.
[22] De Ecclesia, tesi 17, §§ 725-726. «Infallibilem Nos, uti catholicae Ecclesiæ supremus Magister sententiam in hæc verba protulimus»; «Nos ex Cathedra divini Petri uti supremus universalis Christi Ecclesiæ Magister infallibilem hisce verbis sententiam solemniter pronuntiavimus» (Pio XI); «Nos universalis catholicæ Ecclesiæ Magister ex Cathedra una super Petrum Domini voce fundata falli nesciam hanc sententiamsolemniter hisce pronuntiavimus verbis»; «Nos in Cathedra sedentes, inerranti Petri magisterio fungentes solemniter pronuntiavimus» (Pio XII). In tal modo Salaverri pensa che l’infallibilità delle canonizzazioni sia implicitamente definita da Pio XI e Pio XII. Vedi anche Billot, ibidem, n° 601, p. 209.
[23] Ibidem, capitolo 45, n°.1-21.
[24] Concilio di Trento, 25a sessione, decreto del 3 dicembre 1563 sull’invocazione, la venerazione e le reliquie dei santi e sulle immagini sacre, DS 1821. «Quelli che negano che si devono invocare i santi che in cielo godono di una felicità eterna; oppure quelli che affermano che questi ultimi non pregano per gli uomini o che invocarli affinché preghino per ciascuno di noi è idolatria, o che ciò è contrario alla Parola di Dio e si oppone all’onore di Gesù Cristo, unico mediatore tra Dio e gli uomini; oppure che è stupido supplicare vocalmente o mentalmente coloro che regnano nei cieli: tutti costoro pensano in modo empio». Benedetto XIV dice che questo testo equivale ad una definizione infallibile.
[25] Ibidem, DS 1822. «Inoltre, quelli che affermano che non si devono né onore né venerazione alle reliquie dei santi, oppure che i fedeli invocano inutilmente loro ed i loro sacri ricordi, ed è vano visitare i luoghi del loro martirio per ottenerne aiuto, tutti costoro devono essere totalmente condannati, come la Chiesa ha già condannato e condanna ancora oggi».
[26] Ibidem, n°28. «Ogni persona che osasse affermare che il pontefice si è sbagliato per questa o qualunque altra canonizzazione, e che un qualsiasi santo da lui canonizzato non debba essere onorato da una lode appropriata sia da noi accusato di essere se non eretico almeno temerario; di essere scandaloso per tutta la Chiesa; ingiurioso per i santi; di favorire gli eretici che negano l’autorità della Chiesa per la canonizzazione dei santi; di essere in odore di eresia perché essa aprirebbe ai fedeli la via di ridicolizzare i fedeli; di difendere una proposizione errata e di essere soggetto alle più gravi sanzioni».
Cristina Siccardi
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