Eresia è abolire la differenza fra Creatore e creature. Nella teologia della “svolta” tutto viene ricondotto alla prospettiva dell’uomo, compresa la fede e Dio. Heidegger, Nietzsche e Kierkegaard visioni filosofiche a confronto
di Francesco Lamendola
Se dovessimo dire in che cosa si concentra, oggi, lo spirito di eresia che serpeggia nella Chiesa e avvelena l’anima di tanti cattolici, pervertendo la loro fede, diremmo che è questa: la pretesa, raramente esplicita, quasi sempre dissimulata, di abolire la differenza ontologica fra il Creatore e le Sue creature; di far come se, tutto sommato, non ci sia alcuna distanza, ma Lui ed esse si trovino su uno stesso piano di realtà. Tutto il resto, o quasi – le aberrazioni liturgiche, il disordine pastorale, l’anarchismo delle omelie durante la santa Messa, e il lento, micidiale, diabolico stillicidio teologico e dottrinale, che sposta un centimetro alla volta, un metro alla volta, la vera dottrina cattolica dal suo terreno e dal suo quadro di riferimento, e la trasforma, senza che la quasi totalità dei fedeli se ne renda pienamente conto, in un insieme di credenze umanistiche, laiche, ambientaliste, ecologiste, storiciste, naturaliste, immanentiste: tutto il resto, dicevamo, nasce da questo, dipende da questo, è l’effetto di questo: l’erosione, lenta ma sicura, della distanza ontologica che distingue l’infinità del Creatore dalla finitezza della creatura.
L’uomo moderno non vuole più essere creatura, non vuol più riconoscere un Creatore, dunque non vuol ammettere che esista un debito esistenziale della creatura nei confronti del Creatore. Siamo sempre lì, al peccato di Adamo e di Eva: un peccato di superbia, orgoglio e ingratitudine. Superbia: voler essere più di quel che si è; orgoglio: non voler riconoscere la priorità di Dio; ingratitudine: disprezzare ciò che si possiede e i doni che si sono ricevuti, per desiderare di più. Tutti i discorsi sulla “svolta antropologica” hanno questa radice: la mancata accettazione della finitezza e, di conseguenza, la pretesa di assolutizzare l’uomo e immanentizzare la fede. Poiché l’uomo non riesce a farsi Dio - la strada indicata da Nietzsche -, allora si sforza in ogni maniera di abbassare Dio al proprio livello: la strada indicata da Heidegger. Non è certo un caso che Heidegger, cattolico degenerato, sia stato il maestro di Karl Rahner: nella teologia di Rahner c’è questo veleno, questa irruzione del finito nell’infinto, che è esattamente il contrario della giusta prospettiva cristiana: l’infinito che irrompe nella dimensione del finito, Dio che bussa alla porta dell’uomo, la grazia che innalza l’uomo al di sopra della dimensione naturale. Nella teologia della “svolta” accade l’inverso: tutto viene ricondotto alla prospettiva dell’uomo, compresa la fede e compreso Dio. È un immenso, blasfemo, bagno di superbia e di orgoglio: un bagno di ego. Sarebbe stato mille volte meglio se il maestro di Heidegger fosse stato Nietzsche. Nietzsche non è cristiano, è persino anticristiano (almeno a parole; perché poi, nella sostanza, le cose sono un po’ diverse), però gioca a carte scoperte: lui crede davvero che l’uomo possa farsi il dio di se stesso. Meglio: è convinto che l’uomo lo debba fare, perché, dopo la morte di Dio, si è bruciato i ponti dietro le spalle e, se si ferma a metà strada, è perduto: precipiterà nell’abisso, diverrà qualcosa di meno di ciò che è, si abbrutirà e si trasformerà nella scimmia di se stesso. Perciò, secondo Nietzsche, all’uomo non sono date alternative, non esiste un piano di riserva: o riesce a innalzarsi sopra se stesso, a diventare un superuomo, oppure sarà la sua fine. Ma Heidegger è subdolo: è un semicristiano che gioca con le parole e che inventa sempre nuove trappole linguistiche per confondere le idee al prossimo: è più un sofista, quasi un giocoliere del linguaggio, che un vero pensatore. Il suo esistenzialismo non ha la nobile serietà e la drammaticità etica di quello di Kierkegaard, è un prodotto di risulta della modernità; il “suo” uomo è un essere-per-la-morte; la sua filosofia è una fenomenologia che va alla deriva, senza un vero scopo, cioè una filosofia della stanchezza, dell’ambiguità, della indefinibilità; le sue domande aprono scenari fantastici, mutevoli, sorprendenti, ma non portano mai da nessuna parte. Da un simile “maestro”, la teologia non poteva che essere infettata dai molti mali della modernità, primo fra tutti il soggettivismo. La fede diventa una questione privata, una questione sentimentale: non è più un dato certo e oggettivo, cui si può giungere per tappe graduali, dalla ragione naturale alla rivelazione soprannaturale. Questa era la strada di san Tommaso d’Aquino, ma Rahner la rifiuta, perché vuol essere moderno.
Karl Rahner il teologo gesuita della "svolta"
In effetti, Rahner è semplicemente modernista. Se i padri conciliari avessero avuto il coraggio di vedere la “teologia” di Rahner per ciò che realmente è, una riproposizione subdola e sleale del modernismo, cioè il tentativo disonesto di far passare per cattolico un pensiero eretico, formalmente condannato come tale dal Magistero (col decreto Lamentabili e con l’enciclica Pascendi, entrambi del 1907), oggi non saremmo arrivati a questo punto. Di ciò si può e si deve domandare conto ai padri conciliari: i quali, per quanto fossero, probabilmente, nella loro maggioranza, in buona fede, avevano pure gli strumenti intellettuali per comprendere quel che stava accadendo nel 1962: che il modernismo, avendo cambiato nome, ma non certo la sua sostanza eretica, e avendola anzi enormemente sviluppata e rafforzata, in direzioni sempre più lontane dall’ortodossia, si ripresentava alla finestra, cinquant’anni dopo essere stato cacciato dalla porta. Ed essi lo fecero entrare! Questa è la loro responsabilità, che niente e nessuno potrà mai attenuare. Impossibile che non abbiano capito la manovra, tanto essa era evidente. Dal 1879 avevano il tomismo come base della loro formazione teologica e filosofica, secondo la volontà di Leone XIII, formalizzata nell’enciclica Aeterni Patris. Si affidarono invece ai teologi della “svolta”, cioè ai teologi neomodernisti: impossibile che non abbiamo visto, né si siano resi conto, di trovarsi in presenza di una vera e propria inversione a “u”, di un capovolgimento intenzionale della prospettiva.
Abolire la differenza fra Dio e l’uomo: questo, dunque, il vero nocciolo dell’eresia modernista. Non è un caso che, a partire dalla “svolta” conciliare, siano salite in grande onore scuole di pensiero che la Chiesa, fino a quel momento, aveva tenuto in sospetto, o addirittura condannato, e contro le quali aveva messo doverosamente in guardia i fedeli: tanto per citarne una, la cosiddetta psicologia del profondo, che ai nostri giorni la fa da padrona anche nell’ambito della cultura “cattolica”, e i cui testi sacri si possono trovare nelle librerie “cattoliche”, e ossequiosamente recensiti ed elogiati sulla stampa “cattolica”. E si faccia attenzione che la prima conseguenza, sul versante morale, della negazione della differenza ontologica fra il Creatore e le creature, è la negazione pratica della distinzione fra il bene e il male. Logico: se l’uomo si erge a giudice di se stesso, della propria vita, delle proprie scelte, chi potrà imporgli un’idea superiore, e quindi oggettiva, del bene e del male? No: il bene e il male saranno sempre e solo, di volta in volta, quel che lui deciderà essere tali. E se, per esempio, giudicherà che un bambino non deve nascere, perché i suoi genitori non sono pronti ad accoglierlo, egli deciderà che sopprimerlo nel grembo di sua madre non sarà male, ma sarà bene, tenendo conto delle necessità e delle esigenze di quei genitori, e perfino nei confronti del nascituro, visto che non avrebbe trovato tutta l’accoglienza e tutto l’amore cui un bambino, nascendo, ha “diritto”. Stesso discorso per l’eutanasia, ossia per la soppressione di una vita la cui prosecuzione sia giudicata, a parere insindacabile dell’uomo stesso (ma quale uomo, nel caso, ad esempio, di una persona in coma?; evidentemente, di un altro uomo), non più degna e meritevole di continuare a esistere.
La svolta "modernista" ed eretica del Concilio Vaticano II: i padri conciliari, che probabilmente, nella loro maggioranza erano in buona fede, avevano "gli strumenti intellettuali" per comprendere quel che stava accadendo?
Ed ecco cosa scriveva a questo proposito, in una pagina veramente ispirata, il padre francescano Raniero Cantalamessa, nel suo libro La vita nella signoria di Cristo (Milano, Editrice Àncora, 1986, pp. 47-48 e 49-50):
Un altro modo di abolire, di prepotenza, la differenza tra il Creatore e la creatura, tra Dio e l’”io”, è quella di… confonderli. E questa è la forma che l’empietà prende talvolta, oggi, nell’ambito della psicologia del profondo. Quello che Paolo rimproverava ai “sapienti” del suo tempo non era di studiare la natura e di ammirarne la bellezza, ma di fermarsi ad essa; così quello che la parola di Dio rimprovera oggi, a certa psicologia del profondo, non è di aver scoperto una nuova zona del reale che è l’inconscio umano e di cercare di far luce su di essa, ma è di aver fatto, di questa scoperta, l’ennesima occasione per sbarazzarsi di Dio. La parola di Dio, in tal modo, rende un servizio alla stessa psicologia, purificandola da ciò che la minaccia , come, del resto, la psicologia, a sua volta, può servire – ed ha servito effettivamente, in molti casi – a purificare la nostra intelligenza della parola di Dio.
L’empietà che si annida in alcuni orientamenti più recenti di questa scienza è la soppressione della distinzione tra bene e male. Con un procedimento che richiama da vicino quello dell’antica gnosi eretica, si tendono pericolosamente i confini: il confine del divino verso il basso e il confine del demoniaco verso l’alto, fino ad accostarli tra loro e sovrapporli e a vedere nel male nient’altro che “l’altra faccia della realtà” e nel demonio nient’altro che “l’ombra di Dio”. Su questa linea c’è chi si è spinto fino ad accusare il cristianesimo di aver introdotto nel mondo “la nefasta contrapposizione tra bene e male”. In Isaia leggiamo una parola che sembra pronunciata oggi stesso, per questa situazione: “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre” (Is 5, 20). Per gli psicologi di questo indirizzo l’importante non è “salvare l’anima” (questo è messo addirittura in ridicolo) e neppure “analizzare l’anima”, ma è “fare anima”, cioè permettere al’anima umana – che è poi come dire all’uomo naturale – di esprimersi in tutte le direzioni, non reprimendone alcuna. […]
E tuttavia non abbiamo toccato ancora il fondo. Le forme di empietà che serpeggiano in seno alla filosofia e alla psicologia sono le più pericolose perché propagandate con ogni mezzo, erette, in alcuni posti, a sistemi politici, inculcate acriticamente ai giovani nelle scuole e nelle università, perché toccano le idee e i principi che sono il punto nevralgico di ogni cultura, perché, infine, si ammantano del prestigio di cui gode oggi la parola “scienza”; ma non sono, in se stesse, le più gravi. C’è in esse tanta presunzione e spesso tanta ignoranza della vera e autentica esperienza di fede. Intorno a noi c’è qualcosa di ben più tenebroso che inquieta meno, solo perché si tiene nascosto. Accanto alla negazione INTELLETTUALE di Dio dell’ateo, il quale è convinto (onestamente o disonestamente) che Dio non esiste, c’è la negazione VOLONTARIA di chi rifiuta Dio, pur sapendo che esiste, e lo sfida apertamente dicendo: Non mi assoggetto! “Non serviam!”. Questa forma estrema di peccato, che è l’odio di Dio e la bestemmia, si traduce nell’insulto aperto e minaccioso a Dio, nel proclamare ad alta voce, con segni e gesti nefandi, la superiorità del male sul bene, delle tenebre sulla luce, dell’odio sull’amore, di Satana su Dio. Essa è manovrata direttamente da Satana; chi altri infatti sarebbe capace di concepire il pensiero che “il bene è una deviazione del male e, come ogni deviazione, secondario e destinato un giorno a scomparire”, o che “il male non è, in realtà, che il bene mal conosciuto”?
La terza forma di eresia è la più grave di tutte: ha la malizia della prima, il rifiuto della differenza ontologica fra Dio e l’uomo, e la terribile empietà della seconda, il riconoscimento che Dio è Dio, e tuttavia il rifiuto della Sua signoria e della Sua regalità, per adorare, al Suo posto, ciò che è finito, o addirittura il Suo nemico
Eresia è abolire la differenza fra Creatore e creature
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