OMOERESIA
Anche l'Italia ha il suo padre Martin e il Pride cattogay
Il gesuita padre Pino Piva sta facendo in Italia lo stesso lavoro di padre James Martin: in nome della pastorale, dell’accoglienza e del discernimento, arriva a giustificare gli atti omosessuali. E sarà protagonista, insieme a Martin, del Forum dei cristiani Lgbt che, da alcuni anni, si svolge ad Albano Laziale, il cui vescovo Semeraro è un grande sponsor dell'iniziativa.
Padre Pino Piva (a sin.)
Anche l’Italia ha il suo padre Martin. Non ha la stessa fama, forse nemmeno la stessa sfrontatezza, ma di fatto fa lo stesso lavoro: corrode poco a poco la dottrina cattolica sull’omosessualità. Mettendo in archivio san Paolo, Santa Caterina da Siena e tutti i papi che hanno affrontato il tema.
Padre James Martin (l'originale), come noto ha importanti protettori, nello specifico: Kevin Farrell - vicino prima al violentatore padre Maciel, poi all’abusatore McCarrick -, nominato cardinale da Bergoglio e da lui messo a capo del Dicastero laici e famiglia; William Tobin e Blase Cupich, anch’essi intimi di McCarrick, anch’essi divenuti cardinali con il successore di Benedetto.
In Italia padre Martin ha avuto soprattutto una sponda: monsignor Dario Edoardo Viganò, il sacerdote posto a capo della comunicazione e dei media vaticani da Francesco.
Il piccolo Martin italiano si chiama invece padre Pino Piva (qui e qui), e, come padre Martin, è anch’egli, guarda un po’, un gesuita. La sua mission è assai semplice: in nome della pastorale, dell’accoglienza e del discernimento, arriva a giustificare anche quello che nel catechismo della Chiesa è chiamato “peccato contro natura”.
Chi sono i protettori italiani di Padre Piva?
Una certa sintonia c’è sicuramente con Matteo Maria Zuppi, il vescovo vicino a sant’Egidio e a monsignor Vincenzo Paglia, che papa Francesco ha nominato sulla cattedra di Bologna al posto del cardinal Carlo Caffarra, per dare un evidente segnale di discontinuità.
Su alcuni siti gay Zuppi è segnalato come un vescovo amico, e del resto il nuovo arcivescovo di Bologna, ha scritto la prefazione all'edizione italiana del libro di padre Martin ("Un ponte da costruire"), prefazione che è stata pubblicata anche da Avvenire il 20 maggio 2018: «Il libro di padre Martin, uno dei primi tentativi a riguardo, è utile a favorire il dialogo, la conoscenza e comprensione reciproca, in vista di un nuovo atteggiamento pastorale da ricercare insieme alle nostre sorelle e fratelli Lgbt. Come ha già ben detto il cardinal Farrell, Prefetto del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita della Santa Sede, questo libro è «molto necessario» e «aiuterà vescovi, sacerdoti e operatori pastorali (…) ad essere più sensibili verso i membri Lgbt della comunità ecclesiale cattolica». Inoltre «aiuterà anche i membri Lgbt a sentirsi più a casa propria in quella che, dopo tutto, è anche la loro Chiesa»...”.
Riguardo a Zuppi si ricordano anche incontri con Francesco Spano, l’ex direttore omosessuale dell’Unar finito al centro di uno scandalo che ne provocò le dimissioni.
L’altro amico di padre Piva è il vescovo Marcello Semeraro, scelto dal papa come segretario del C9. Semeraro, che in epoca Bendetto non si era mai sbilanciato a favore dell’ideologia gender, negli ultimi anni, con il nuovo corso, ha visto bene di fare della sua città la capitale, non solo italiana, del mondo “cristiano” LGBT.
E’ nella diocesi di Semeraro, Albano Laziale, e in una struttura religiosa, per esempio, che si è svolto il IV Forum dei Cristiani LGBT italiani, alla presenza, tra gli altri, del citato padre Piva, di Alberto Melloni, e dello stesso Semeraro. Sempre ad Albano Laziale si è svolta, dal 9 al 13 maggio 2018, la II Conferenza Annuale del Forum Europeo dei Gruppi Cristiani LGBT; sempre qui, dal 5 al 7 ottobre, avrà luogo il 5° Forum dei Cristiani LGBT, alla presenza di padre Pino Piva, di Marcello Semeraro, e, per la prima volta, della nuova star mondiale, padre Martin.
In conclusione, viene da chiedersi: davvero c’era bisogno del memoriale di mons. Carlo Maria Viganò per capire che nella Chiesa, da qualche anno a questa parte la lobby gay, già precedentemente molto attiva e ben protetta, ha ormai preso definitivamente il comando della nave? Se così non fosse, a cosa ricondurre il nuovo corso, l’ostracismo dei vertici della Chiesa ai Family day, i silenzi sul matrimonio gay in Irlanda e Germania, le aperture continue, e persino il tentativo di nascondere sotto il termine “pedofilia” gli abusi di sacerdoti, vescovi e cardinali omosessuali?
Enrico Zeni
http://www.lanuovabq.it/it/anche-litalia-ha-il-suo-padre-martin-e-il-pride-cattogay
INTERVISTA A BUX
L'abito fa il monaco. Lo spiega anche Zalone
Paragonare l'abito religioso ad una moda passeggera, quando invece sta ad indicare uno stato di vita che permane, è contraddittorio. Anche l'espressione "l'abito non fa il monaco" dice tutt'altro di quello che oggi vuole significare. Perché il prete in abito ecclesiastico è come un vigile tra la folla: riconoscibile per la salvezza delle anime. Lo spiega anche Checco Zalone. Intervista a don Nicola Bux.
Checco Zalone nella celebre scena del film Cado dalle nubi
Non è di sicuro passata inosservata una delle ultime battute del Santo Padre Francesco che in occasione dell'incontro presso l'Auletta PaoloVI rivolgendosi ai partecipanti all'“European Jesuits in formation” ha detto ...“Quando si doveva andare dal Generale, e quando con il Generale dovevamo andare dal Papa, si portava la talare e il mantello. Vedo che ora questa moda non c'è più” aggiungendo “grazie a Dio.”
Due cose immediatamente sono balzate all'occhio: la prima e che si trattava di una “moda”, la seconda che essendo moda “non c'è più” lodando anche Dio, quasi che si tratti di un'azione di Grazia. Ne parliamo, nel tentativo di chiarirci un po' le idee con Don Nicola Bux
Don Nicola, in una scena di Cado dalle nubi Checco Zalone redarguisce benevolmente un sacerdote, vestito in abiti civili. E allora, la talare del sacerdote era solo un fatto di moda, e in quanto tale, passeggero?
La parola Sacerdote sta a indicare la “Sacra dote” di cui è costituito direttamente da Dio. L'abito del sacerdote può essere paragonato a quello dell'arbitro di calcio - l'arbitro è un mediatore - ed è necessario per ricordare a tutti l'importanza del primato della legge divina. L'abito, poi, serve ad evitare il lusso e la vanità perchè non c'è cosa peggiore per un sacerdote che ostentare un abbigliamento alla moda, per farsi notare - si dice per essere più accettabile - mentre finisce per mondanizzarsi e confondersi al fine di poter assumere comportamenti disdicevoli se non contrari alla morale.
Si potrebbe obbiettare che è più importante essere che apparire, quindi, giocando d'anticipo: “l'abito non fa il monaco”?
Questa espressione è diventata l'obiezione che ha portato a relativizzare prima, e ad abolire poi, l'abito ecclesiastico e l'abito religioso, visti come sinonimo di apparenza non corrispondente a ciò che una persona è nella realtà. Nel suo libro “L'abito ecclesiastico, sua valenza e storia”, Michele De Santi presenta un'interessante chiarificazione. Egli racconta che in passato alcuni monaci anziani ritenessero la vestizione dell'abito monastico, il momento in cui un uomo diveniva monaco. La decretale di Papa Clemente III (1187- 1191) o con maggiore probabilità di Papa Innocenzo III (1198-1216) contesta l'affermazione dicendo che è con la professione di fede che si diventa monaci. Pertanto si può considerare come, nel suo contesto originale, l'espressione “habitus non facit monachum” abbia lo scopo di far chiarezza sul momento in cui una persona diventa monaco. Questo significato è tutt'altro da quello attribuitole dalla errata interpretazione popolare, per cui l'abito non sarebbe necessario per coloro che vivono una vita consacrata al Signore. In sostanza il decreto papale afferma che l'abito, pur non essendo un elemento costitutivo che trasforma gli uomini in monaci, è però necessario per manifestare all'esterno “l'interiore onestà dei costumi”, secondo le parole del Concilio di Trento rivolte ai sacerdoti; questo soprattutto per manifestare la propria profonda e incancellabile identità dei consacrati del Signore.
Quindi, l'abito ecclesiastico non è una moda, altrimenti non mi spiego come mai, le ultime fiction televisive tipo “Don Matteo”, oppure spot pubblicitari, come quello piuttosto irriverente, nel quale un sacerdote distribuisce patatine quasi fosse la Comunione, propongano la figura del sacerdote con l'abito talare. Trattandosi di messaggi comunicati al pubblico attuale, perchè ricorrere all'abito talare che, a detta del Papa, è passato di moda?
Tra i vari aspetti che il sacerdote deve curare viene annoverato il suo abito proprio, in quanto la visibilità della sua presenza e della sua disponibilità, quale ministro di Cristo, appartiene alla disciplina, che aiuta a non cedere al conformismo, alla facile popolarità e che finirebbero per renderlo soggetto alle mode. Queste, come è noto, passano rapidamente, per poi tornare di... moda; tanto più che siamo circondati da una secolarizzazione nella quale il segno dell'abito distintivo è davvero necessario. Se fossimo in tempo di persecuzione si potrebbe anche comprendere la necessità di celare la propria identità, rappresentata dall'abito, ma siamo in tempo di secolarizzazione al punto che la Santa Sede ha dovuto chiarire che “ne il colletto romano ne una semplice croce, sono ritenuti sufficienti a rendere 'ecclesiastico' un abito e in null'altro si distingua da quello secolare” (Congregazione per il Clero, Risposta n. 95001444 del 10 febbraio 1996). Il Card. Siri ammoniva: “I sacerdoti si guardino bene dal favorire - col loro vestito, col modo con cui lo portano, col tratto imitato dal mondo, con l'esibizione di cose e atteggiamenti loro non pertinenti - i fedeli a disattendere la loro sacra dignità e il loro ministero ( Cfr. L'immutabile sacerdozio, Brescia 1990, pag. 109). Se solo si pensa al fatto che l'abito sia stato ostacolato o addirittura proibito da stati laicisti, affinchè il sacerdote scomparisse nella massa, si comprende quale gravissimo danno ne riceverebbe il suo apostolato.
Mi sono tornate in mente le raccomandazioni che mio padre mi rivolgeva quando ero bambino, qualora mi fossi smarrito tra la folla: “Se ti perdi, non ti disperare, è inutile piangere, cerca subito un vigile e digli che ti sei perso; non ti preoccupare perchè nelle sue mani sei al sicuro”. Quante anime smarrite, alla sola vista della “divisa” del prete, provano un senso di sollievo, come davanti a qualcuno che possa dargli conforto?
Diverse sono le testimonianze prodotte da De Santi: in specie quelle della signora che piangeva disperata perchè il marito stava morendo, e vedendo un gruppo di giovani tra i quali un sacerdote identificabile grazie al clergyman, gridava in modo accorato: “Venga, che mio marito sta morendo”. L'esperienza mi conferma che nei viaggi e in tanti altri luoghi, non pochi, quando vedono un sacerdote – identificabile dall'abito distintivo - si avvicinano per chiedere consiglio, e persino per confessarsi, in quanto il sacerdote è l'uomo di Dio, per chiunque e in qualunque momento. Toccante è anche la testimonianza del sacerdote francescano che faceva l'assistente scout, al quale fu detto da chi guidava il campo: “Voi francescani con il vostro abito avrete sempre qualcosa da dire al mondo”. Proprio il fatto che S. Francesco rinunziò ai vestiti secolari per rivestire l'abito religioso, dovrebbe far comprendere meglio di ogni altra cosa, quanto esso sia importante per testimoniare la nostra estraneità al pensiero mondano, al fine di poter portare al mondo il pensiero di Cristo, che solo può salvarlo. Il fatto che oggi molti sacerdoti religiosi abbiano abbandonato l'abito loro proprio, è uno dei segni più evidenti della crisi della Chiesa. Quindi, paragonare l'abito religioso ad una moda passeggera, quando invece sta ad indicare uno stato di vita che permane, è contraddittorio. A meno che non si pensi che non si diventi più “Sacerdote per sempre”.
Vito Palmiott
http://www.lanuovabq.it/it/labito-fa-il-monaco-lo-spiega-anche-zalone
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