Foto: padre James Martin S.J. |
Ho letto il discorso che padre James Martin ha tenuto all’Incontro Mondiale delle Famiglie e sono rimasto molto stupito. Mi chiedo come mai lo abbiano invitato ad un incontro del genere. Nel suo discorso, che potete leggere qui, ripete le parole “persona LGBT”, “parrocchiani LGBT”, “comunità LGBT”, ripetendole infinite volte, come se si riferisse effettivamente ad un altro tipo di persone rispetto a quelle eterosessuali. In realtà, è una posizione molto astuta. E’ un esperto di marketing. Mi fa pensare a quello che una volta disse una persona: “Ripetete cento, mille, un milione di volte una bugia e diventerà una verità”.
A tal proposito, vi propongo un interessante articolo di Adrian Reimers, che critica padre Martin per questa sua classificazione della persona umana sulla base della inclinazione sessuale.
Eccolo nella mia traduzione.
Quello che la Chiesa ritiene vero sulla sessualità umana non è un ostacolo. È l’unico vero cammino verso la gioia e l’integrità. Non esiste una cosa come un “Cattolico LGBTQ” o un “Cattolico transgender” o un “Cattolico eterosessuale”, come se i nostri appetiti sessuali definissero chi siamo; come se queste denominazioni descrivessero comunità distinte di diversa ma uguale integrità all’interno della vera comunità ecclesiale, il corpo di Gesù Cristo. Questo non è mai stato vero nella vita della Chiesa, e non è vero ora. Ne consegue che “LGBTQ” e linguaggi simili non dovrebbero essere usati nei documenti della Chiesa, perché il suo uso suggerisce che si tratta di veri e propri gruppi autonomi, e la Chiesa semplicemente non classifica le persone in questo modo.
James Martin, S.J., ha scritto un libro sulla necessità della Chiesa di costruire un ponte verso la “comunità LGBT“. Nel suo discorso all’Incontro Mondiale delle Famiglie di Dublino ha delineato una strategia pratica per la Chiesa a tutti i livelli – universale, diocesano e parrocchiale – per raggiungere questa comunità LGBT con rispetto, compassione e sensibilità. Il problema è che non esiste una tale comunità a cui la Chiesa debba tendere la mano. Padre Martin propone un ponte verso il nulla.
Ogni comunità è formata da un legame comune. La comunità civica è formata geograficamente da tutti coloro che vivono in un certo luogo e sono governati da una serie di leggi. La comunità afro-americana è composta da coloro che hanno la pelle più scura e gli antenati africani, che affrontano sfide comuni e abbastanza particolari come gruppo minoritario. L’ASPCA è una comunità formata da persone che si preoccupano del trattamento e del maltrattamento degli animali. Potremmo anche parlare di una comunità libera di tifosi dei Cubs (una squadra di baseball di Chicago, ndr).
Pertanto, la comunità LGBT, se esiste, è formata da un legame comune. Questo legame consiste nella loro esperienza comune del desiderio sessuale per membri dello stesso sesso. Un uomo che trova donne, e solo donne, sessualmente desiderabili non è omosessuale. Uno che trova il concetto di contatto sessuale con le donne ripugnante, sgradevole o altrimenti poco attraente, ma che desidera tale contatto con altri uomini è “gay”. E così via con lesbiche e bisessuali. Il punto può sembrare eccessivamente ovvio, anche noioso, ma è centrale. I termini indicati da “LGBT” hanno a che fare con la struttura dei desideri e delle esperienze sessuali. Non ci sono altri criteri per distinguere i gay dagli uomini etero, o le lesbiche dalle donne etero. Una persona con utero e seno che si identifica come uomo è transessuale. Se si identifica come donna, non lo è. Ripeto: non ci sono altri criteri per l’identità LGBT. Il legame comune per la comunità LGBT è solo il desiderio o l’inclinazione a godere del contatto sessuale con altre persone dello stesso sesso. Questo ci porta al nocciolo del problema.
Avere un contatto sessuale – per dirla in parole povere, definiamo questo come un qualsiasi tipo di interazione fisica il cui intento e effetto generalmente realizzato è quello di stimolare le parti verso l’orgasmo sessuale – al di fuori del matrimonio (e la Chiesa capisce che questo è possibile solo tra un uomo e una donna) è peccaminoso. Pertanto, ogni attività omosessuale è peccaminosa. Da quanto ho letto, Padre Martin sembra riconoscerlo.
D’altra parte, sperimentare inclinazioni omosessuali non è di per sé peccaminoso, come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica. Tuttavia, questa inclinazione è un’inclinazione al peccato. Non può essere compresa in nessun altro modo. Coloro che appartengono alla demografica LGBT, che agiscano o meno sulla loro omosessualità, vivono con una persistente e chiaramente identificabile tentazione al peccato. Certo, per molti di loro questa è una croce, un pesante fardello. Come dice un amico gay: “Non augurerei questo [l’omosessualità] a nessuno“. Alcuni gay e lesbiche potrebbero trovare l’impulso quasi irresistibilmente al di là del loro potere di controllo. Il saggio pastore e il cristiano caritatevole lo riconosceranno. Tuttavia, la condizione LGBT è segnata dal peccato.
Se la Chiesa riconoscesse una comunità LGBT e si rivolgesse ad essa – costruisse un ponte – rispettandola come comunità, allora questo significherebbe riconoscere una struttura di peccato. Come giustamente insiste padre Martin, ogni cristiano gay, lesbica, bisessuale o transessuale è amato da Dio e in virtù del battesimo è membro della Chiesa. Tuttavia, da ciò non si può concludere che la “comunità LGBT” è parte della Chiesa, perché tale comunità è definita dal peccato, sia nel comportamento che nella meta finale dell’inclinazione. Nient’altro definisce l’appartenenza LGBT.
In particolare, non c’è un insieme di valori superiori caratteristici dei gay che costituisce una “spiritualità gay”, o lo rende un contributo necessario alla nostra cultura. Essere stato vittima di bullismo a scuola, amare le melodie di Broadway o il balletto, o essere un imbranato nella maggior parte degli sport non rende gay, ….anche essere accusato da alcuni di non essere sufficientemente “virile” non rende gay. In altre parole, non c’è nulla nell’esperienza LGBT che sia spirituale. Gli omosessuali non sono fisicamente diversi da quelli che non sono LGBT. Piuttosto, per ragioni che possono essere al di fuori del loro controllo, sono soggetti a una particolare forma di concupiscenza sessuale, alla quale sono obbligati a resistere.
Che cosa deve fare la Chiesa? Deve fare quello che fa per ogni peccatore. La Chiesa aiuta l’alcolista (che non può essere riconosciuto come tale dai suoi vicini seduti nel banco della chiesa) a liberarsi dal bere. Ammonisce gli incalliti chiacchieroni a controllare la loro lingua. Lei disapprova coloro che non siederanno vicino alla persona nera …. o al gay …. in chiesa. Inviterà la persona con una voce forte a leggere durante la Messa o a cantare nel coro. Può anche promuovere gruppi, come Courage (un’associazione che sostiene, secondo l’insegnamento della Chiesa, le persone con inclinazione omosessuale, ndr), che hanno l’obiettivo di aiutare coloro che si identificano come LGBT a vivere liberamente nell’amore, il che significa, tra le altre cose, essere casti.
La Chiesa, che è sacramento dell’amore e della santità di Dio, non può “costruire un ponte” verso una comunità definita dal peccato. Se esiste una comunità LGBT, allora per sua natura è una struttura di peccato. Quello che deve fare è invitare e incoraggiare coloro che si identificano come LGBT a lasciare questa “comunità” e ricevere il suo abbraccio, che è l’abbraccio di Cristo.
Fonte: Crisis Magazine
Adrian Reimers è un istruttore aggiunto al Holy Cross College. Per diciassette anni ha insegnato filosofia all’Università di Notre Dame. Ha scritto molto sul pensiero di Karol Wojtyla (San Giovanni Paolo II) e il suo ultimo libro è Hell and the Mercy of God (CUA Press, 2017).
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