«Dal Papa in giù, tutta la gerarchia sapeva».
A dirlo non è monsignor Viganò, ma, alcuni anni prima di lui, un ragazzo vittima di abusi sessuali. Non lo dice attraverso la parola o lo scritto: lo dice usando la lingua dei segni.
Perché costui è uno dei sopravvissuti agli orrori abissali della «casita de Dios».
La mostruosità di cui parliamo non rappresenta un caso isolato: è un grumo di male – con strascichi giudiziari nei tribunali del Secolo – che corre dal Sud America all’Italia, dove ha fatto tappa in quel di Verona.
A Mendoza, in Argentina, dietro l’Istituto Cattolico Antonio Provolo vi era una chiesetta con un affresco della Madonna. Lì bambini e anche bambine sordomuti venivano stuprati da due sacerdoti. Questi piccoli presentavano per gli orchi consacrati un notevole vantaggio: non potevano urlare, né difendersi, né raccontare quanto succedeva loro. Altri bambini, guardando dalle fessure, vedevano però le indicibili atrocità di cui erano vittime.
Avevano tra i 6 e i 12 anni.
Gli stupri sono avvenuti tra il 2006 e il 2007. Ben oltre il trapasso fatidico dei primi anni 2000, quando esplose a Boston lo scandalo dei sacerdoti molestatori. In quegli anni, arcivescovo di Buenos Aires e capo della conferenza episcopale argentina era Jorge Mario Bergoglio.
L’abominio della casita supera l’Atlantico: «decine di studenti dell’Istituto Provolo di Verona, in Italia, erano stati abusati per anni e tra i loro aguzzini figurava uno dei religiosi arrestati in novembre in Argentina», scriveva il Corriere della Sera il 23 dicembre 2016, appena sotto Natale.
Tutti coloro che oggi si scandalizzano per il predatore seriale McCarrick tendono a dimenticare questo caso incredibile, che pure sbucò sui giornali mainstream, ma come una meteora fu subito inghiottito dal silenzio. E mai più riaffiorò.
A leggere le informazioni trapelate sulla stampa, non si può non pensare ad una connivenza di Bergoglio con i mostri pedofili.
«Il Vaticano sapeva almeno dal 2009, quando le vittime italiane raccontarono pubblicamente gli abusi subiti», ricorda l’agenzia AP. «Nel 2014 scrissero direttamente a papa Francesco accusando per nome 14 preti e religiosi laici dell’istituto, tra cui il reverendo Nicola Corradi. È lo stesso sacerdote, trasferito nelle sedi argentine del Provolo, denunciato ora da 24 ex studenti argentini».
Due dozzine di persone accusano don Corradi. Consegnano una lettera a Bergoglio.
INSABBIAMENTO SERIALE, INSABBIAMENTO PAPALE Succede esattamente quello che poi succederà con Karadima, in Cile: Bergoglio si ritrova con la patata bollente di un pedofilo coperto da tutta la sua gerarchia, soprattutto dai suoi allievi divenuti vescovi (esatta replica del pattern McCarrick–Wuerl etc.); come Andrés Arteaga, Tomislav Koljatic Maroevic, Horacio Valenzuela, o come Juan Barros Madrid, vescovo dell’Ordinariato militare in Cile.
I giornali americani picchiano, gli italiani nemmeno per sogno.
In conferenza stampa aerea – geniale spot pubblicitario del pop-papato – Bergoglio pure si stizzisce, e sbotta: «Io non ho sentito alcuna vittima di Barros. Non sono venuti, non ho potuto parlare con loro, non si sono presentati. Su una cosa dobbiamo essere chiari, che chi accusa senza evidenza e con pervicacia è calunnia. Se viene una persona con una evidenza sono il primo ad ascoltarlo».
Ma non ci vuole molto a smentire papa-pinocchio: la testata Catholic World News racconta di una lettera consegnata brevi manu a Bergoglio nel 2015. «Il cardinale Sean O’Malley, che presiede la commissione papale speciale sugli abusi, ha informato i membri della Commissione di aver consegnato a mano la lettera della vittima al Pontefice. Juan Carlos Cruz, l’autore della lettera, ha detto all’Associated Press di aver ricevuto assicurazioni dal card. O’Malley sul fatto che il papa ha ricevuto la sua lettera nel 2015».
Il “Santo Padre” della menzogna? Il “Santo Padre” dell’insabbiamento pedofilo? Così pare.
Tanto più che la storia cilena non è che una ripetizione pedissequa di quanto, appunto, era già accaduto con la Casita de Dios. «Lo scandalo sfiora anche Papa Francesco che, tra il 1998 e il 2013, era vescovo di Buenos Aires e apparentemente ignorò le lettere inviate dalle vittime italiane».
Quindi, o egli è analfabeta, o è complice di un’orgia di stupri senza fine. Sono 67 i ragazzi dell’istituto che denunciano di aver subito angherie sessuali nell’arco di tre decenni. I religiosi aguzzini sarebbero 25.
LA “VIRTÙ EROICA” DELLA PEDOFILIA Gianni Bisoli, una delle presunte vittime, parla di un prete in particolare, tale Mons. Giuseppe Carraro: si tratta, nientemeno, che dell’ex vescovo di Verona. Il Bisoli, scrive MicroMega, «nel 2012 era stato ritenuto inattendibile nonostante la minuziosa descrizione della stanza in cui era costretto a “masturbazioni, sodomizzazioni e rapporti orali”».
Il 16 luglio 2015 Bergoglio pubblica il decreto sulle “virtù eroiche” di Mons. Carraro, collocandolo tra i venerabili: è in atto dunque il suo processo di beatificazione.
Del resto, da quando Giovanni Paolo II nel 1983 ha riformato il processo delle cause di canonizzazione – con l’abolizione della figura dell’“avvocato del diavolo” e un potenziamento del ruolo dei vescovi locali nella fase preliminare – si è verificato un incremento esponenziale delle proclamazioni (basti pensare che, a fronte di neanche un centinaio nell’arco di tutto il resto del Novecento da parte dei suoi predecessori, dal solo pontificato di Wojtyla sono usciti quasi 500 nuovi santi e 1300 nuovi beati). L’advocatus diaboli era stato istituito da Sisto V nel XVI secolo proprio per rendere più scrupoloso il giudizio sul candidato in predicato di santificazione, mentre dal 1983 resta al promoter fidei solo il compito di co-redigere le conclusioni sulla positio stesa dal relatore della causa.
Risultato: la santità diffusa; il santo uno di noi, insomma, sì che il fedele medio possa identificarsi nel santo “persona normale”, magari anche pubblico peccatore.
Ci torna alla mente quando, l’anno scorso, si scatenò d’improvviso quella strana, poderosa operazione mediatica su don Milani – che impegnò l’intera corazzata della grande stampa nazionale – volta a combinare, nella narrativa corrente, la figura dell’omosessuale-pederasta a quella dell’educatore illuminato. Cioè, le due “prerogative” possono stare tranquillamente insieme, anzi, costituire un binomio modello: quello era il messaggio da trasmettere.
Il prete di Barbiana fu prima pubblicamente dipinto come pedofilo, attraverso l’abnorme risalto dato a un romanzetto che tale lo definiva apertis verbis, per poi essere insignito del titolo di pedagogo perfetto col lancio roboante del doppio Meridiano Mondadori dedicato alla sua opera e curato dall’ultras bergogliano Alberto Melloni.
Ma non solo. Alla apologia laica del sacerdote “inquieto” ha fatto seguito la sua “beatificazione” con la visita papale al Mugello, dove è sepolto. Ecco che quel don Milani che si chiedeva come si potesse «amare i ragazzi fino all’osso senza finire col metterglielo anche in culo» (sic!) diventava nelle parole pronunciate da Bergoglio sulla sua tomba il «credente innamorato della chiesa anche se ferito», che va «compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale», perché «la Chiesa riconosce in quella via un modo esemplare di servire il Vangelo».
È in corso la beatificazione della pedofilia?
IL GRANDE PROTETTORE Di certo, anche ai più scettici tocca prendere atto che l’attuale occupante del trono di Pietro ha insabbiato ogni abuso, ha evitato accuratamente ogni contatto con le vittime e ha lasciato in pace i pedofili, soprattutto quelli che ricoprivano cariche utili al controllo del potere.
Il che emerge anche da una recente inchiesta di Der Spiegel, intitolata “Non dire falsa testimonianza”: «durante il periodo in cui Bergoglio era cardinale, molte vittime di abusi a Buenos Aires si sono rivolte a lui per aiuto; a nessuno è stato permesso vederlo (…). Il numero delle vittime potrebbe raggiungere le migliaia».
Come dice Julieta Anazco, una delle abusate di La Plata: «Vogliamo raggiungere il Papa, ma lui non è interessato a noi». Ne parla anche Il Fatto quotidiano: insieme a gruppo di una ventina di donne abusate, Julieta ha scritto a Bergoglio nel 2013: «so per certo che la lettera è arrivata a destinazione, conservo ancora la ricevuta di ritorno col timbro vaticano». Nella lettera racconta delle violenze subite dal prete predatore Ricardo Gimènez, il quale si assicurava l’impunità delle bambine approfittando del sacramento della confessione; racconta di come molte di loro siano in terapia da una vita, alcune si siano suicidate, altre siano dipendenti da alcool o droghe; racconta di come il sacerdote responsabile di tutto questo sia tuttora in contatto con minori.
«Lui [Bergoglio, ndr] sapeva tutto – afferma Julieta – e non ha mai fatto niente».
Marco Tosatti ha ricordato la riflessione di Juan Pablo Gallego, difensore delle vittime argentine: «Francesco è ora in esilio a Roma, avendo trovato rifugio (con immunità), per così dire laggiù. In Argentina dovrebbe confutare il sospetto di aver protetto per anni violentatori e abusatori di minori». Bergoglio, secondo l’avvocato, avrebbe ordinato una contro-inchiesta col duplice obiettivo di scagionare un prete condannato per abusi e di criminalizzare le sue vittime: esattamente la stessa cosa che aveva fatto in Cile definendo “calunniatori” quanti invocavano giustizia per le violenze perpetrate dal vescovo Barros.
Poi ci si domanda il perché in cinque anni e mezzo di pontificato, mai abbia avuto il desiderio di tornare in patria, a casa sua; un motivo ci sarà.
SALVATE IL PEDOFILO CIELLINO Per la verità anche in Italia ci sarebbero buone ragioni per levare qualche voce di protesta all’indirizzo vaticano. Ma il cordone di protezione steso dai pennivendoli nostrani rende assai più arduo far trapelare gli scandali, specie se questi rischino di detonare dentro le mura leonine.
Nella sua ultimissima esibizione aerea, insieme all’“avvertimento” indirizzato ai giornalisti sull’esegesi del rapporto Viganò, Bergoglio ha affermato, a propria generale discolpa (coda di paglia?), di non aver mai firmato richieste di grazia dopo una condanna per abusi sessuali. Perché – ha detto – «su questo non negoziamo». Altra bugia. A smentire la sua dichiarazione temeraria, basterebbe il fascicolo sul ciellino don Mauro Inzoli, pedofilo seriale reo confesso e pluricondannato sia dai giudici ecclesiastici sia da quelli dello Stato. Al solito, ne parlano gli americani, gli italiani nemmeno per sogno.
Don Mercedes – così era soprannominato per la sua passione per le automobili di lusso – fu sospeso dal sacerdozio nel 2012 a seguito di sentenza di condanna del tribunale ecclesiastico. Bergoglio, su pressione del cardinale Coccopalmerio (quello il cui segretario personale, monsignor Luigi Capozzi, venne beccato in flagranza di orge gay e traffico di droga all’interno del palazzo dell’ex Sant’Uffizio, nel giugno 2017), nel 2014 lo reintegrò nell’esercizio del ministero sacerdotale, ignorando il parere contrario della Congregazione per la dottrina della fede.
E infatti, nel 2015, è possibile ammirare il molestatore don Inzoli immortalato in prima fila al convegno “Difendere la famiglia per difendere la comunità” organizzato da CL e Alleanza Cattolica nella sala Testori (altro noto invertito ciellino) del Palazzo della Regione Lombardia, ad applaudire Introvigne, la Miriano e compagnia festante.
Ma l’effetto della clemenza di Bergoglio è stato effimero suo malgrado perché, nel 2016, Inzoli è stato condannato dal tribunale di Cremona per violenza sessuale continuata ai danni di cinque ragazzini del movimento. E per lui si sono aperte le porte del carcere. A quel punto, non ha potuto non celebrarsi il secondo processo ecclesiastico, non ha potuto non concludersi con la condanna, non ha potuto non provocare di nuovo, per il condannato, la sospensione a divinis. E così sono stati vanificati tutti gli sforzi pregressi volti a riabilitare il maniaco ciellino.
LA PEDOFILIA VAL BENE UNA MESSA Un episodio rende meglio di qualsiasi altro la gerarchia “sacramentale” di Bergoglio nell’esercizio della sua carica: l’Eucarestia – davanti alla quale d’altra parte non ha mai sentito il dovere di inginocchiarsi – passa in secondo piano di fronte alle esigenze di gestione del traffico pedofilo vaticano, specie quando implichino equilibri e alleanze di potere.
Nel giugno 2013 il cardinale Gerard Müller fu costretto a interrompere la Messa che stava celebrando nella chiesa di Santa Monica, accanto alla sede della Congregazione per la dottrina della fede di cui era all’epoca prefetto, per recarsi in sacrestia a rispondere ad una telefonata di Bergoglio. Come raccontano sia Tosatti sia la giornalista americana di origine tedesca Maike Hickson, «il segretario del cardinale Müller gli si avvicinò all’altare: “Il papa le vuole parlare”. “Gli hai detto che sto celebrando la Messa?” gli chiese Müller. “Sì”, rispose il segretario, “ma dice che non gli importa, vuole parlarle lo stesso”. Il cardinale andò in sacrestia. Il papa, con tono molto scocciato, gli diede degli ordini riguardo a un dossier concernente un suo amico, un cardinale».
Il cardinale in questione era l’inglese Cormac Murphy-O’Connor, accusato di aver coperto in modo continuato suoi sottoposti predatori seriali e pedofili conclamati, in certi casi anche già condannati dai tribunali civili, oltre che di essere lui stesso filo-omosessualista nella teoria e, nella pratica, di costumi molto libertini.
Il prelato, amicissimo di Bergoglio, era membro di spicco della cosiddetta mafia di San Gallo che ha svolto un ruolo decisivo nel sostenere la candidatura dell’argentino nei due ultimi conclavi, e nella sua elezione in quello del 2013. Tanto che – si racconta – quando a un incontro pubblico il neoeletto papa vide il suo vecchio amico, lo indicò e gli disse: «è colpa tua!».
Si capisce quanto impellente fosse, una volta appreso del suo coinvolgimento nelle indagini sugli scandali pedo-sessuali inglesi, cavarlo dagli impicci con ordine perentorio. Il sacrificio di Nostro Signore può attendere.
Il cardinale Cormac Murphy-O’Connor è morto, incensurato, nel settembre 2017.
NEL COVO DI SANTA MARTA Ci eravamo chiesti, in passato, se al potente vescovo Bergoglio, all’epoca molto noto in terra sudamericana, fosse mai arrivato l’eco dello scandalo di monsignor Giovanni Battista Ricca, quello che a Montevideo (Uruguay) pretese e ottenne dalla nunziatura apostolica un appartamento per convivere con il suo amante svizzero (uno nei cui bagagli furono trovate armi e materiale pornografico), per poi farsi beccare, picchiato a sangue e col volto tumefatto, nel quartiere gay della città o, in alternativa, imprigionato in ascensore insieme al ninfetto di turno.
Ricca, vogliamo ricordare a tutti ancora una volta, è l’uomo al quale Bergoglio dedicò il suo storico «chi sono io per giudicare», sempre nel corso di uno dei suoi show ad alta quota. Si trattava di una risposta precisa all’altrettanto precisa domanda della giornalista brasiliana Ilze Scamparini, che gli chiedeva lumi sul perché, visti i trascorsi, il prelato fosse stato premiato con incarichi tanto importanti e delicati.
Giovanni Battista Ricca, infatti, è l’inamovibile direttore di Santa Marta, la struttura dove Bergoglio ha deciso di alloggiare sin dal primo giorno del pontificato. Come se non bastasse, il potente inquilino gli ha affidato subito anche il ruolo chiave di “prelato” dello IOR, la discussa banca vaticana.
Del resto, dalla lettera di Viganò la questione emerge con forza: esponenti della corrente omosessualista dentro la Chiesa Cattolica «risiedono persino alla Domus Sanctae Marthae». Nulla di così stupefacente, se è monsignor Ricca a dirigere il traffico della casa.
Un luogo probabilmente dominato dalla lobby catto-gay, dove accadono vicende assai inquietanti.
Miriam Wuolou, 34 anni, italiana ma di origini eritree, a Santa Marta faceva la receptionist. Miriam viene trovata morta nella sua casa fuori dalle mura leonine. Era stata dimenticata: i carabinieri riferiscono di un cadavere che «era quasi in stato di decomposizione».
Dettaglio non indifferente: era incinta al settimo mese. I giornali, dopo qualche brivido à la Manuela Orlandi, si assestano su una versione ufficiale: l’ha uccisa il diabete. Qualcuno poi aggiunge che il figlio probabilmente era di un addetto alla sicurezza del Vaticano, che però al momento della morte si trovava in viaggio apostolico in Messico con Bergoglio.
«Perché – si chiedono gli investigatori – nonostante Miriam fosse malata di diabete e in gravidanza, non aveva qualche parente o comunque qualcuno che la assistesse? Come mai i familiari hanno fatto passare alcuni giorni prima di dare l’allarme della sua scomparsa?».
Sono domande che non hanno trovato risposta, e nella totale indifferenza dei giornaloni che un tempo impazzivano per i misteri vaticani.
NÉ GIUSTIZIA NÉ PIETÀ Oggi che mondo e chiesa sono diventati mondi sovrapponibili perché ufficialmente dediti alle stesse attività e impegnati negli stessi obiettivi, anche la cronaca, per quanto nera, è risucchiata nella normalità. E viene fatta scivolare via, sfumando le luci sui volti dei criminali e dei loro numi tutelari (o demoni custodi, che dir si voglia) che, anzi, tornano pimpanti sulla ribalta una volta velocemente risciacquati dei loro misfatti.
I misteri vaticani non tirano più, perché non sono più misteri.
Sono obbrobri come tanti altri che proliferano nelle strutture di male e di peccato, di malvagità e di perdizione. Così gli aguzzini la fanno franca e conquistano fama e potere. E le vittime non meritano più né giustizia né pietà.
Fino al colmo dell’abominio: una ragazza uccisa con un bambino in grembo non fa più notizia, nemmeno se dipendente della casa dove abita anche un papa. Non fanno più notizia decine di piccoli sordomuti che, senza voce per chiedere aiuto, vengono violentati da orchi vestiti di vesti sacre, in predicato di beatificazione nella chiesa invertita.
Abbiano, almeno, le nostre lacrime.
– di Elisabetta Frezza e Roberto Dal Bosco
By Redazione On 1 ottobre 2018 · 7 Comments
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