«La religione islamica è direttamente e essenzialmente un progetto politico che non riconosce il diritto naturale». Ciò pone molti problemi di etica pubblica nelle nostre società che non sono adeguatamente compresi. E anche la Chiesa si pone spesso in modo ingenuo. L'arcivescovo Giampaolo Crepaldi spiega il X Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa, pubblicato dall'Osservatorio Cardinale Van Thuân.
Musulmani in preghiera a Roma
È appena uscito per le edizioni Cantagalli il decimo Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel Mondo dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân. Quest’anno il Rapporto è dedicato ad un tema caldo: “L’islam, problema politico”, come suona il titolo. Abbiamo posto alcune domande al Presidente dell’Osservatorio, l'arcivescovo di Trieste monsignor Giampaolo Crepaldi (in foto).
Eccellenza, perché questo tema?
I temi centrali dei nostri Rapporti nascono da una analisi delle principale dinamiche in atto, non li inventiamo noi ma li riscontriamo nella realtà. E mi sembra fuori di dubbio che quello di una valutazione politica dell’islam, specialmente in Europa ma non solo, sia una questione chiaramente emergente e che tutti abbiamo sotto gli occhi, anche se non semnpre se ne parla adeguatamente.
Non avete avuto timore di disturbare qualcuno?
Certamente il tema è controverso e molto delicato. Nei precedenti Rapporti abbiamo trattato di immigrazioni e di Europa evitando anche allora impostazione politicamente corrette, così abbiamo fatto anche quest’anno, attenendoci al nostro lavoro senza paure.
La Chiesa cattolica propone accoglienza e dialogo con l’islam, appoggia la costruzione di moschee e sostiene che è una religione di pace. Voi invece lo considerate un problema politico. C’è un contrasto?
Nel nostro Rapporto abbiamo fatto un lavoro che nessuno di solito fa: valutare l’islam alla luce dei principi di organizzazione della comunità sociale e politica della Dottrina sociale della Chiesa. Una cosa è il dialogo interreligioso e altra cosa è considerare i contenuti di etica pubblica dell’islam. Del resto questa religione è direttamente e essenzialmente anche un progetto politico. Verificare se l’islam faccia proposte accettabili dalla Dottrina sociale della Chiesa è un servizio di verità per tutti, per la Chiesa che nell’incontro con le religioni deve tenere conto anche della propria Dottrina sociale, e per la politica dato che la Dottrina sociale esprime anche principi e valori naturali.
Con quale taglio avete analizzato l’islam politico?
Nel Rapporto ci sono quattro studi specialistici sull’islam, un’ampia Sintesi introduttiva e una mia Presentazione. Tutti questi contributi analizzano l’islam a partire dal volto di Dio secondo questa religione. C’è una coerenza interna nelle religioni. Tutto deriva da come si concepisce Dio, e ciò vale anche per l’islam. Tutto possiamo anche dire, dipende da come una religione rivelata concepisce la rivelazione.
E come concepisce Dio l’islam?
Dal Rapporto emerge che lo concepisce come volontà e onnipotenza, non come verità e essenza. Dio emana dei decreti ai quali chiede cieca e letterale obbedienza. Come disse Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006, il Dio dell’islam è oltre ogni categoria, non c’è una analogia col mondo fondata sulla verità, ma Dio avrebbe potuto darci anche i precetti contrari a quelli che ci ha dato. Questa impostazione non ha bisogno, quindi, del rapporto tra fede e ragione presente invece come essenziale nel cattolicesimo. L’islam non dice: in principio era il Logos, ma la Volontà
Anche l’islam però parla di creazione da parte di Dio e quindi anche l’islam troverà nel creato un ordine, una legge impressavi da Dio.
Certamente anche l’islam pensa che il mondo sia creazione divina. Però tale creazione è stata un atto di volontà svincolato da esigenze di verità, è stato un decreto divino e non l’espressione di un Logos. I precetti di ordine morale non derivano quindi da un ordine finalistico espresso dalla natura creata, ove ragione e rivelazione si possano incontrare, Non può esistere, in altre parole, un diritto naturale e una legge morale naturale. I precetti morali nascono da decisioni divine contenute nel Corano o nella vita (parole e gesti) di Maometto e chiedono di essere eseguiti in totale sottomissione. L’islam è una religione giuridica.
Da questa vostra analisi dell’islam quale nozione di legge è emersa?
La concezione islamica della legge deriva dai punti ora visti e, da ultimo, dalla visione di Dio. È molto difficile che l’islamico distingua tra la legge derivata dalla volontà di Dio e comunicata a Maometto, ossia la legge religiosa, e la legge stabilita dalla comunità politica o dallo Stato, o legge civile. Il nostro Rapporto tra l’altro ricorda che è in atto da tempo un processo di costituzionalizzazione, ossia di inserimento nel testo della Carta costituzionale, della charia, o legge islamica, in molti Paesi arabi. Del resto, se la legge è un decreto della volontà divina non può conoscere, come si diceva, la mediazione del diritto naturale e razionale che invece nella tradizione cristiana ha da un lato messo in relazione ragione e rivelazione e dall’altro ha garantito la reciproca legittima autonomia.
Molti parlano oggi di un islam moderato e di uno radicale. Si tratta di una distinzione valida?
Il nostro Rapporto ritiene che se guardiamo le persone dei credenti nella religione islamica la distinzione abbia senso. Ci sono quelle più aperte e disponibili e quelle meno. Se però ci concentriamo sulla coerenza interna alla religione islamica a partire dalla visione di Dio, tale distinzione si indebolisce. Non dimentichiamo che i decreti divini, ossia la legge islamica, costituiscono la umma, la comunità musulmana con caratteri di esclusività assoluta e di conquista. Il diritto islamico contiene la distinzione musulmano / non musulmano come categorie antropologiche, e la umma ha carattere universale, deve cioè diffondersi, anche per conquista, in tutto il mondo. Se si considerano questi aspetti la distinzione da lei segnalata può esserci in situazioni contingenti ma non corrisponde all’essenza dell’islam.
Talvolta i cattolici pensano che i musulmani possano convergere con loro nella difesa della vita e della famiglia in opposizione a leggi e politiche contrarie. Questa aspettativa ha un fondamento?
Il dialogo con i musulmani su questi punti va portato avanti, ma tenendo conto di due aspetti. Il primo è che su queste stesse tematiche l’islam la pensa spesso diversamente dal cattolico. Ciò capita per esempio sul rapporto tra uomo e donna dentro la vita familiare. In secondo luogo va tenuto presente che i motivi di fondo sono diversi. Una cosa è impegnarsi contro l’aborto perché è un male sia agli occhi della ragione naturale sia agli occhi della rivelazione, altra cosa è impegnarvisi perché così ha decretato Dio con un atto di volontà.
I Rapporti annuali dell’Osservatorio compiono dieci anni, un traguardo significativo. Qual è il suo bilancio?
Siamo partiti dieci anni fa con il primo Rapporto che aveva a tema la crisi finanziaria. In seguito abbiamo continuato a parlare dei maggiori problemi emergenti alla luce della Dottrina sociale della Chiesa. Siamo stati fedeli all’impegno di mostrare la fecondità di quest’ultima e la capacità della fede cattolica di fare cultura, cultura cattolica. Siamo quindi contenti di aver fatto la cosa per cui il nostro Osservatorio è nato.
Giuseppe Tires
- L'ISLAM POLITICO VISTO DALLA DOTTRINA SOCIALE , di Giampaolo Crepaldi
- NASCITE SEMPRE PIÙ GIÙ, L'IMMIGRAZIONE NON È LA RISPOSTA, di Riccardo Cascioli
http://www.lanuovabq.it/it/crepaldi-siamo-realisti-lislam-e-un-problema-politico
I ribelli colpiscono con i missili al cloro i civili di Aleppo, ma stavolta nessuno s’indigna
di Gian Micalessin
Stavolta nessuno indagherà, nessuno condannerà e nessuno, tantomeno, bombarderà. A differenza di quelli messi a segno a Ghouta nel 2013, a Khan Shaykun nel 2017 o a Douma nell'aprile 2018 l'attacco chimico lanciato sabato notte nella zona di al-Khalidiya, un quartiere sul versante occidentale di Aleppo, non indigna, né scandalizza nessuno. Anche perché stavolta a venir colpita non è una zona controllata dai ribelli, ma una città completamente pacificata dove la popolazione civile è stata restituita da quasi due anni all'autorità del governo di Damasco. A spazzar via l'atmosfera di precaria tranquillità che si respira ad Aleppo è bastata una salva di missili partiti dalle zone della provincia di Idlib, l'ultima roccaforte jihadista nella parte nord occidentale del paese.
I missili non sono una grande novità. I civili di Aleppo ci hanno fatto il callo. Sanno che di tanto in tanto i ribelli, nonostante le trattative per arrivare ad una loro evacuazione pacifica da quei territori, non resistono alla tentazione di punire una città colpevole di aver resistito per anni all' assedio jihadista.
Nessuno però si aspettava un attacco chimico in piena regola. Un attacco messo a segno colpendo Aleppo con delle testate al cloro. Quell'attacco, stando a fonti d'informazioni siriane, ha causato l'intossicazione di almeno 41 persone mentre i contaminati sarebbero oltre un centinaio. Secondo la testimonianza di un medico dell'ospedale di Aleppo trasmessa dalla televisione di stato almeno due persone restano in conduzioni critiche mentre quasi tutto gli altri soffrono di difficoltà respiratorie e ridotte capacità visive. L'attacco viene segnalato anche da Rami Abdurrahman, il titolare di quel discusso "Osservatorio Siriano per i Diritti Umani" basato in Gran Bretagna considerato, sin dal 2011, il portavoce delle fazioni ribelli.
Stavolta neppure l'assai poco imparziale "Osservatorio Siriano" se la sente di negare l'attacco ad una città dove da due anni non c'è più la guerra. Una città dove, invece di combattere, si cerca di ricostruire. Proprio per questo l'utilizzo delle testate al cloro è sicuramente più proditorio e più vigliacco. Eppure nessuno sembra volersi sbilanciare. Certo stavolta è un po' difficile ripetere le litanie del passato quando ogni responsabilità veniva fatta cadere sul governo di Bashar Assad e sui suoi alleati russi. Stavolta anche il più scatenato sostenitore della causa ribelle ha qualche difficoltà nell'accusare il "dittatore" di aver colpito con le armi chimiche quei cittadini di Aleppo che non solo si sono opposti per anni all'assedio dei ribelli, ma stanno salutando il ritorno di migliaia di profughi rientrati nelle zone controllate dal governo. Ed ancor più difficile è ribaltare la verità sostenendo, come fecero alla vigilia dei bombardamenti dello scorso aprile Emmanuel Macron e Theresa May, di aver in mano le prove certe della colpevolezza del regime.
Stavolta l'unica cosa sicura e certa è che nessuno verrà né accusato, né punito. Perché se s'incominciasse ad indagare anche le certezze del passato incomincerebbero a traballare. E l'intero castello di carte costruito sugli attacchi chimici attribuiti al governo siriano e ai suoi alleati rischierebbe di crollare.
De Mistura interrompe la moderatrice: “Basta chiamarlo regime. Quello siriano è il governo riconosciuto dalle Nazioni Unite”
Intervenendo al Panel sulla Siria durante i lavori del Med organizzati da Ispi e Farnesina, l’inviato speciale delle Nazioni Unite Staffan De Mistura ha interrotto in modo alquanto brusco essendo un diplomatico la moderatrice della sessione dei lavori, Maha Yahya del Carnegie Institute. A quest’ultima che continuava a definire “regime” il governo di Damasco, De Mistura prende la parola. “Molti lo definiscono regime. Io sono il primo ad aver avuto tanti problemi e disappunti con il governo della Siria. Ma lo definisco governo. E’ il governo riconosciuto alle Nazioni Unite, siede nell’Assemblea generale e quando si discute al Consiglio di Sicurezza del paese, la Siria è rappresentata dal suo governo. Quindi io le consiglio di chiamarlo governo”.
Poco diplomatico e proprio per questo molto interessante. Quindi lasciamo parlare le immagini:
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