ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 8 febbraio 2019

Dio restò muto…?

DOV'ERA DIO AD AUSCHWITZ ?


Si può ancora parlare di Dio e "fare filosofia" dopo Auschwitz? chiedeva Hans Jonas. Un esempio di "non filosofia", quando la filosofia prende congedo e subentra la "storiografia": la quantità non è mai una categoria filosofica 
di Francesco Lamendola  

 0 OH GOOD CRISTOS

Dov’era Dio, ad Auschwitz? Si può ancora scrivere una poesia o parlare dei fiori, dopo Auschwitz?, chiedeva Theodor W. Adorno; e rispondeva: no, sarebbe una barbarie. E fare filosofia, fare teologia, si può?, chiedeva Hans Jonas. Soffermiamoci su questa seconda domanda; lasciamo stare i fiori e le poesie, e parliamo di ricerca filosofica.

Scriveva Hans Jonas (1903-1993), discepolo di Heidegger, nel suo libro Il concetto di Dio dopo Auschwitz (Genova, Il Melangolo, 1997, pp. pp. 20-35):
Chi accetta il fallimento nel dominio del sapere filosofico, rinuncia, è vero, e a priori, allo scopo di conoscere razionalmente Dio, ma deve comunque riflettere e meditare poiché le cose in questione rivendicano pur sempre un senso e un significato. D’altra parte l’affermazione che nella teologia filosofica non vi è né senso né significato, può essere facilmente respinta come un sillogismo tautologico del tutto simile a un concetto vizioso. E ciò in quanto, avendo definito in anticipo come “senso” unicamente ciò che si può verificare mediante dati sensibili, tale affermazione identifica ciò che non ha senso con ciò che è possibile conoscere. A questo atto di forza per definizione, deve obbedire solo chi l’ha accettato. Si può perciò lavorare sul concetto di Dio, anche se non vi è nessuna prova dell’esistenza di Dio. (…)
In questo contesto si impone la domanda: che cosa ha aggiunto Auschwitz a ciò che da sempre siamo in grado di sapere sulle proporzioni delle cose spaventose e terribili che gli uomini sono capaci di commettere verso loro simili? A ciò che da sempre hanno commesso? E che cosa in particolare, che noi ebrei non abbiamo conosciuto in una storia millenaria di sofferenze e di dolori, patrimonio essenziale della nostra memoria collettiva? (…)
Questo doloroso inasprimento della domanda di Giobbe – cui non sfugge il nostri problema – poteva essere inizialmente chiarito dai profeti biblici – ricorrendo ancora una volta all’alleanza: il popolo che l’aveva stipulata con Dio, era diventato infedele. Ma nei lunghi secoli di fedeltà che seguirono, nessuna colpa poteva essere invocata per giustificare il dolore; si ricorse allora all’idea di testimonianza, categoria sorta originariamente nell’età dei Maccabei e che i posteri hanno ereditato col concetto di martirio. Secondo questa idea proprio gli innocenti e i giusti sono chiamati a sopportare lo scandalo del male. (…)
Nulla di tutto ciò può essere di una qualche utilità per comprendere l’evento che ha nome Auschwitz. Non vi è più posto per fedeltà o infedeltà, fede o agnosticismo, colpa e pena, o per termini come testimonianza, prova, e speranza di salvezza e neppure  per forza e debolezza, eroismo o viltà, resistenza o rassegnazione.
Di tutto ciò non sapeva nulla Auschwitz che divorò bambini che non possedevano ancora l’uso della parola e ai quali questa opportunità non fu neppure concessa. Chi vi morì, non fu assassinato per la fede che professava e neppure a causa di essa o di qualche convinzione personale.  Coloro che vi morirono, furono innanzitutto privati della loro umanità in uno stato di estrema umiliazione e indigenza; nessun barlume di dignità umana fu lasciato a chi era destinato alla soluzione finale – nulla di tutto ciò era riconoscibile negli scheletrici fantasmi sopravvissuti nei Lager liberati. E tuttavia - paradosso dei paradossi – fu proprio l’antico popolo dell’alleanza – alleanza a cui nessuno di quanti presero parte allo sterminio, assassinati e martiri, più credeva -, fu proprio questo popolo e non un altro ad affrontare il destino dell’annientamento totale con il falso pretesto della razza il più mostruoso capovolgimento della elezione in maledizione che rese ridicolo ogni tentativo di attribuirvi un senso. Quindi un qualche nesso sussiste – del tipo più perverso – con coloro che cercarono Dio e coi profeti, i cui discendenti furono tratti dalla dispersione e riuniti nell’unità di una morte comune. Dio permise che ciò accadesse. Ma quale Dio poteva permetterlo? (…)

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Hans Jonas

Come ho cercato di dimostrare, Auschwitz rappresenta quindi per l’esperienza ebraica della storia una realtà assolutamente nuova e inedita, che non può essere compresa e pensata con le categorie teologiche tradizionali. Quindi chi non intende rinunciare sic et simpliciter al concetto di Dio (e il filosofo può legittimamente rivendicare il diritto a non rinunciarvi), deve pensare questo concetto in modo del tutto nuovo e cercare una nuova risposta all’antico interrogativo di Giobbe. (…)
Strettamente connessa con i concetti di un Dio sofferente e di un Dio diveniente è l’idea di un Dio CHE SI PRENDE CURA, di un Dio che non è lontano e distante e chiuso in se stesso, ma coinvolto in ciò di cui si preoccupa. (…) E con ciò ci avviciniamo al punto veramente critico del nostro avventuroso tentativo di proporre una teologia speculativa: questo non è un Dio onnipotente? (...)
Tuttavia questo non può bastare, poiché di fronte alle cose veramente inaudite che, nel creato, alcune creature, fatte a sua somiglianza, hanno fatto ad altre creature innocenti, ci si dovrebbe aspettare che il Dio, somma bontà, venga meno alla regola che si è imposto di trattenere in sé la propria potenza e intervenga con un miracolo di salvezza. Ma questo miracolo non c’è stato; durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz Dio restò muto

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Lasciando che altri facciano la tragica contabilità dei massacri e dei genocidi; ci limitiamo a osservare che la quantità non è mai una categoria filosofica !

Con tutto il dovuto rispetto per la sofferenza di quanti morirono ad Auschwitz, e che qui non è in discussione, questa pagina di prosa è, dal punto di vista speculativo, un esempio di non filosofia. Non c’è nulla, neppure una frase, neppure un rigo, che abbia una qualità filosofica: è tutto giocato sul terreno della emotività. E tale terreno, con tutto rispetto per quelli che soffrirono e morirono, non ha niente a che fare con la filosofia, né con la teologia, come qui il Nostro vorrebbe far credere. In fondo, il suo atteggiamento è il corrispettivo ebraico dell’illuminista Voltaire, che nel Candido, o dell’ottimismo, si fa beffe dell’idea di un Dio che provvede al bene degli esseri umani, perché nel 1755 Lisbona venne rasa al suolo da un terremoto che provocò migliaia di morti. Erano del tutto sbagliate le premesse filosofiche di Voltaire, come abbiamo già osservato in precedenti lavori, così come sono del tutto sbagliate quelle di Hans Jonas, il quale crede di fare filosofia o teologia, ma fa solamente della retorica, nel senso letterario e tecnico dell’espressione.
La premessa concettuale è un non significato. Egli dice che anche chi accetta “il fallimento”, termine che, in filosofia, non significa proprio nulla, è chiamato comunque a riflettere e meditare, il che non è fare filosofia, ma chiacchiera da bar; poiché le cose in questione rivendicano pur sempre un senso e un significato. Ora, fare filosofia non è accettare che le cose “rivendichino” un significato, ma individuare il loro significato. Le cose non rivendicano niente di niente; le cose sono solo cose: a dar loro un significato è chiamata la filosofia, se lo può, e non viceversa, a vedersi imporre da esse la ricerca del significato. Se non lo può, allora la filosofia si arrende, rinuncia a se stessa. Ma se è questo il concetto di “fallimento”, allora cade anche la necessità di trovare un significato: è più coerente e più onesto dire che un significato non c’è, o che non è alla portata delle possibilità umane. D’altra parte, Jonas concede che il “senso” delle cose non può essere circoscritto all’osservazione dei dati sensibili. Questo dovrebbe far cadere tutto il suo successivo argomentare: che senso ha avuto Auschwitz, visto che Dio lo ha permesso? Perché i disegni di Dio, e quello che ha un senso dalla prospettiva di Dio, non è, per definizione, osservabile o misurabile da parte dell’uomo. Ma il punto debole di tutta la sua impostazione sta proprio qui: in quanto egli rivendica che, all’interno della tradizione teologica giudaica (e questo, di nuovo, non è fare filosofia: perché fare filosofia è ragionare in universale, non in questo o quel contesto culturale e in questa o quella tradizione teologica) l’uomo può conoscer qualcosa di Dio, sia pur limitatamente e imperfettamente. Si faccia attenzione a questo concetto: esso equivale a porre la questione della conoscenza del divino in una dimensione quantitativa. Infatti, solo per questa via Jonas può porre la domanda: dov’era Dio all’epoca di Auschwitz?, perché Auschwitz, come lui intende questo concetto, è un fatto storico più grave di altri fatti storici, ma solo sul piano quantitativo, in quanto l’atrocità dell’uomo contro l’uomo, l’ingiustizia della persecuzione degli innocenti, non sono per niente fatti nuovi o particolarmente insoliti nella storia. Va da sé che, una volta portata la riflessione filosofica su questo piano, la filosofia prende congedo: non ha più nulla da fare. Subentra la storiografia. E se la storiografia, poniamo, dimostrasse, un domani, che non furono sei milioni gli ebrei che perirono ad Auschwitz e negli altri lager, tutta l’impostazione di Jonas verrebbe meno. Tuttavia, noi non vogliamo portarci su questo terreno; vogliano restare, al contrario, per quanto possibile, sul terreno filosofico, che è quello in cui si pensano gli universali e non i particolari. La domanda, quindi, è come mai Dio abbia potuto permettere una cosa come Auschwitz; e, visto che l’ha permessa, se per caso ciò non sia la prova che Dio non esiste; oppure, in subordine, che Dio non possa più esser pensato come veniva pensato prima, cioè come misericordioso e al tempo stesso come onnipotente. Se è misericordioso, infatti, perché ha permesso Auschwitz? Forse perché non è onnipotente? Altrimenti, resta solo l’ipotesi che non sia compassionevole.

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La filosofia è pensare in universale, non pensare secondo le categorie di un certo popolo o di una certa tradizione religiosa.

Si può ancora parlare di Dio, dopo Auschwitz?

di Francesco Lamendola
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Eleison Comments DCIII
“HOLOCAUSTIANITY”

Pazienza, cari amici, la Verità richiede tempo
Per confutare la Olo-causa, vero crimine del pensiero.

“Olocaustianità”
Molti cattolici sembrano pensare che il cosiddetto “Olocausto” non abbia a che vedere con la religione. Si sbagliano di grosso. Ecco due paragrafi (leggermente modificati) del bel tributo reso al compianto Professore Robert Faurisson da Jérôme Bourbon, bravo direttore dell’eccellente settimanale parigino, Rivarol:—

Non solo il Professore Faurisson, con le sue ricerche e la sua famosa frase di 60 parole, ha minacciato i fondamenti ideologici dell’ordine mondiale uscito dalla Seconda Guerra Mondiale, ma ha anche messo in discussione la religione, o contro-religione, dell’“Olocaustianità”. 
Questa è una vera e propria religione, che esige rispetto e sottomissione. Il suo falso dio richiede l’omaggio di adorazione, con l’incenso che bruci continuamente davanti a sé, la fiamma da accendere come allo Yad Vashem, con fiori da offrire, e lamenti rivolti al Cielo, come nei pellegrinaggi e nelle processioni ad Auschwitz e altrove, con la gente che deve battersi il petto, gridando “Mai più”.

L’“Olocaustianità”, insegnata dalla scuola elementare fino alla fine dei propri giorni, dalla televisione, dal cinema e da ogni forma di intrattenimento, non fa altro che scimmiottare tutte le caratteristiche della religione cattolica. Ha i suoi martiri (i Sei Milioni), i suoi Santi (Elie Wiesel, Anna Frank), i suoi miracoli (i sopravvissuti all’Olocausto), i suoi stigmatizzati (i detenuti tatuati), i suoi pellegrinaggi (ad Auschwitz, ecc.), i suoi templi e cattedrali (i musei e i memoriali dell’“Olocausto”), i suoi oboli con i quali ottenere il perdono (gli interminabili pagamenti in riparazione, a Israele e ai sopravvissuti dell’“Olocausto”), le sue reliquie (denti, capelli, scarpe, ecc. dei detenuti nei campi), le sue vite dei Santi (i libri di Elie Wiesel, Anna Frank, ecc.), le sue camere di tortura (le camere a gas), il suo Vangelo (il verdetto del tribunale militare di Norimberga del dopoguerra), i suoi Sommi Sacerdoti e i suoi Pontefici (Simon Wiesenthal), la sua Inquisizione (tribunali civili antirevisionisti), le sue leggi contro la blasfemia (che vietano severamente qualsiasi interrogativo sull’“Olocausto”), la sua Città Santa (la Gerusalemme moderna), i suoi predicatori e i suoi guardiani (tutti gli istruttori e le associazioni politiche, dei media, della religione, dei sindacati, dello sport e dell’economia), le sue Congregazioni Religiose (il Congresso Mondiale Ebraico, il B’nai B’rith, l’AIPAC, ecc., ecc.), il suo Inferno (per tutti i nazionalisti – eccetto gli Israeliani! –, per tutti i revisionisti, per tutti i credenti nel deicidio e nel Nuovo Testamento che sostituisce il Vecchio, etc.), e i suoi fedeli (quasi tutta l’umanità).

Tuttavia, non solo l’“Olocaustianità” scimmiotta il cristianesimo, ma addirittura lo capovolge: invece dell’amore, predica l’odio; invece della verità, le menzogne; invece del perdono, la vendetta talmudica; invece del rispetto per gli anziani, la caccia alle vecchie guardie dei campi; invece dello spirito di povertà, l’ottenimento dei pagamenti di riparazione; invece dell’umiltà, la spinta a dominare; invece della condivisione, la ricerca del guadagno personale; invece della carità, il ricatto; invece del rispetto per gli altri, il linciaggio; invece della quiete e della discrezione, la pubblicità e le chiassose accuse nei media; invece della sconfinata giustizia di Dio, la sfacciata ingiustizia dei conquistatori che si pongono come giudici dei vinti, e così via.

Ed allora, ecco qui un sonetto per onorare ciò che ha fatto il Prof. Faurisson per scrollare questa scimmia dalle spalle dell’umanità:

“La Verità è potente e prevarrà”, dicono tutti.
“Ah, no!” risponde una razza, “la Verità la facciamo noi”.
“Siamo noi la razza eletta, al di sopra degli uomini tutti,
Ed è la nostra verità che devono accettare gli inferiori, che siete voi!”.
E da come questa razza ha rimodellato le due Guerre Mondiali,
è nata tutta una mitologia.
Che impone le camere dell’orrore alle menti deboli
Inventandosi un dio a cui tutti devono latria.
Eppure un fragile Francese ha sfidato le menzogne razziste.
“Fateci vedere una tale reale camera – una sola!”
Ma non c’erano da mostrare immagini realiste.
Con rabbia i razzisti capirono che la Verità vinceva da sola.
Professore, lei non ha creduto in Dio,
Ma Egli l’ha usata per dar forza a tutte le razze.

Kyrie eleison.

Commenti settimanali di

di S. Ecc. Mons. Richard Williamson
Vescovo della Fraternità Sacerdotale San Pio X


  2 febbraio 2019
Pubblichiamo il commento di S. Ecc. Mons. Richard Willamson. Relativo al vero volto del mito dell'“Olocausto”.

Questi “Commenti” sono reperibili tramite il seguente accesso controllato:
http://stmarcelinitiative.com/eleison-comments/iscrizione-eleison-comments/?lang=it


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