Il martirio di Alfie Evans, il bambino di Liverpool, si è concluso un anno esatto fa, al termine di una estenuante agonia collettiva. Perché Alfie non moriva neanche se lo ammazzavano. Per “vincerlo” è stato necessario prolungare a dismisura un assedio imponente, disporre un immane spiegamento di militari in assetto da guerra, togliergli ogni sostegno fisico e persino spirituale (ricorderete l’agguato a don Gabriele che gli faceva da angelo custode), alla fine organizzare un blitz notturno. Tutto questo per un bambino malato aggrappato alla vita, alla sua mamma e al suo papà: straordinaria triade sopravvissuta nel tempo che ha cancellato Dio. Eppure, sconfitto, egli ha vinto, si è guadagnato la palma della vittoria ed è volato nella gloria dei martiri innocenti.
A perdere siamo stati tutti noi, abitanti straniti di un mondo terminale, ostaggio delle tecnocrazie gonfie del proprio delirio di onnipotenza. Non siamo riusciti a difendere un cucciolo indifeso dalle grinfie degli uomini neri che lo volevano morto, troppo forti erano le forze oscure che muovevano il loro intento.
Non dimenticheremo mai quei giorni, interminabili, vissuti col fiato sospeso e il telefono sempre acceso, tra preghiere, lacrime e qualche speranza, in quella bolla di follia disumana che fino all’ultimo si sperava di riuscire a far scoppiare, per tornare a riveder le stelle.
Ma le stelle non sono più sopra di noi. Alfie, con il suo sacrificio, ci ha svelato lo scenario apocalittico che fa da orrido sfondo alle nostre esistenze: ha messo in fila le sagome sinistre degli assassini che si aggirano in cerca di sangue innocente da immolare ai propri idoli infernali. Immondi, questi assassini indossano tonache e zucchetti di ogni colore, camici e parrucche, e sono mossi tutti dagli stessi fili.
Attoniti e raggelati dal macabro spettacolo allestito sotto i riflettori, abbiamo avuto la prova provata, talmente lampante da risultare sfacciata, che gli orchi più efferati agiscono travisati dietro le divise che all’uomo comune dovrebbero apparire le più rassicuranti, un po’ come insegne luminose messe a segnalare la bontà del ruolo che identificano: quella del chierico di ogni ordine e grado, del giudice, del medico, del poliziotto.
Dove ci ripariamo, dunque, quando chi dovrebbe proteggerci, curarci, salvarci, tutelarci diventa il nostro carnefice? Sotto quale tetto, dentro quale abbraccio? Come ci consoliamo se le storie – le nostre storie – non finiscono più con i buoni che vincono sui cattivi? Cosa raccontiamo ai nostri figli ai quali consegniamo un mondo capovolto, in cui i deboli vengono soppressi perché non c’è posto per chi non è all’altezza degli standard di qualità fissati dall’arbitrio del despota di turno? Devono convincersi tutti, questi figli, che gli esseri umani è meglio ordinarli in fabbrica, dove vengono prodotti a norma, geneticamente programmati senza malattie negli alambicchi sterili del laboratorio, mentre intanto, col miraggio del super baby, qualcuno, giocando a essere dio, amministra il rubinetto della vita e quello della morte altrui? È questo il nuovo orizzonte?
Avevamo promesso in tanti di non dimenticarci della storia del bambino di Liverpool, cittadino italiano e figlio adottivo dell’Italia per bene, che coi suoi genitori ha dato tanto fastidio al potere civile e religioso da spogliarlo davanti al mondo intero: il potere, pur bardato dei suoi grotteschi paramenti di scena, in quei giorni di aprile è apparso nudo, indecente, osceno. Un bambino l’ha costretto a mostrare tutte le sue vergogne.
Mentre Alfie veniva ammazzato, nell’epicentro del male – un tempo cuore dell’impero e della cristianità – si trovavano a raccolta i protagonisti del crimine infame, per celebrare i loro riti blasfemi e danzare una lugubre danza: tutti i papaveri della neochiesa e del suo contorno mondano affluivano in gran pompa nella Cappella Sistina, il tempio da dove escono i papi, per assistere a uno Stabat Mater capovolto. Beffarda ironia di una sorte non casuale. E il primate di Inghilterra, recandosi al gran ballo, ribadiva che “è molto difficile agire nel miglior interesse di un bambino quando questo non è sempre quello che i genitori desiderano, ed è per questo che un tribunale deve decidere quello che è meglio non per i genitori, ma per il bambino”. E i suoi colleghi intorno annuivano, cardinali, arcivescovi, sottosegretari di Stato e funzionari vaticani, bestie assortite.
Non dimentichiamolo. Alfie ci ha fatto vedere dove risiede il male. Non andiamo a cercarlo altrove. Ha escrescenze periferiche, agenzie sparse in ogni branca delle istituzioni, magnati che lo finanziano e lo promuovono senza tregua. Ma il male vero abita a Roma.
Oggi, aprile 2019, Alfie si chiama Vincent e domani avrà un nome italiano. A noi non resta che supplicare pietà. E inginocchiarci al Dio della vita, che presto venga a salvarci.
– di Elisabetta Frezza
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