CONCILIO VATICANO II, NOVUS ORDO, VETUS ORDO. GIOVANNI FORMICOLA RISPONDE A LUCA DEL POZZO.
Cari amici e nemici di Stilum Curiae, mai avrei pensato che l’articolo di Luca Del Pozzo avrebbe destato tanto interesse e dibattito. Ma invece è così. Ho ricevuto una lettera dell’avvocato Giovanni Formicola, che i lettori del blog già conoscono, che commenta l’articolo di Del Pozzo. E mi sembra interessante pubblicarlo, come abbiamo fatto in passato su altri argomenti che hanno provocato reazioni e opinioni contrastanti. Approfitto dell’occasione per dire ancora una volta che Stilum Curiae rispetta opinioni e posizioni dei suoi collaboratori. In altre parole: non tutto quello che scrivono i collaboratori del blog rispecchia in tutto, o in parte (e talvolta magari in parte anche assai piccola) quello che pensa il vostro titolare e moderatore. Ma ci mancherebbe che facendo questo lavoro proprio per garantire libertà di espressione in un regime di informazione sempre più omologata permettessi solo espressioni allineate…Non vi sembra? Buona lettura e discussione.
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Gentilissimo e caro Tosatti,
so di disturbarla di sabato santo, ma non posso fare a meno di scrivere due righe di replica al valoroso Luca Del Pozzo, e solo perché è persona stimabile e intelligente, per cui sono rimasto assai perplesso, per non dire deluso, dalle sue considerazioni che ho letto stamattina, intendendole – spero di sbagliarmi – come una sorta di “colpo al cerchio e alla botte” nel quadro di una teoria degli “opposti estremismi”, “novatori” e “tradizionalisti”, ecclesial-teologica.
“Opposti estremismi” che in realtà non esistono. Infatti, mai mi sono detto “tradizionalista”, perché in realtà la linea di divisione (sì divisione, cristicamente e cristianamente non solo lecita, ma necessaria) è tra cattolici ed eretici di vario tipo – consapevoli o meno, intenzionali o meno -, la cui pluralità è unificata dal modernismo (oggi si dice progressismo). Esso altro non è che attribuire storicisticamente al tempo (anche quello passato, non solo quello a venire), e quindi alle mentalità/sensibilità e ai costumi dominanti, in ultima analisi all’uomo che le interpreti, la funzione di fonte della fede, che prevale sulla Scrittura e sulla Tradizione, in quanto se ne fa criterio interpretativo e modificativo esclusivo. Ed anche perché il cattolicesimo è per essenza Tradizione e tradizioni (nulla ovviamente a che vedere con il “fissismo” idolatra delle forme storiche), nel duplice senso di “ciò ch’è trasmesso” e di “trasmissione” viventi, perché è dalla parte dell’essere e dell’immutabilità, immortalia et semper manentia che dominano il tempo e non “innescano processi”, ma li controllano e li giudicano. E quindi non c’è bisogno di farsi parte ipostatizzando in una posizione teologica quello ch’è già essenziale, con il solo risultato di dialettizzarlo e perciò relativizzarlo nel gioco delle parti “tradizione”-“progresso, novazione” per sua natura storicista.
Osservo anche che sarebbe non ingenuo, ma proprio stupido pensare che il 10 ottobre 1962 le cose stessero “a posto”. Se fossero state a posto, donde gli uomini e le tendenze che hanno “fatto” il Concilio, nel senso della narrativa dossettiana, della “Scuola di Bologna” e della “mafia di San Gallo”? Ma altrettanto deve dirsi, per le stesse ragioni, che non si può ritenere una cesura netta tra il Concilio e il “post-concilio” o “l’anti-spirito del Concilio”, nel senso della narrativa di “Rapporto sulla Fede”. Nessun protestantizzante, giansenista, modernista, ha mai potuto strumentalizzare Trento o il Vaticano I. Evidentemente il Vaticano II qualche crepa, spiraglio e persino fenditura deve averli aperti. No?
Ho scritto anche troppo, e troppo potrei e forse dovrei scrivere ancora, ma mi limito ad una brevissima chiosa per interpolazione delle considerazioni che più mi sembrano riflettere i luoghi comuni e i presupposti piuttosto psicologici che teorici dell’attuale status Ecclesiae e soprattutto del franceschismo militante.
L’ottimo Del Pozzo censura quelli che sono “convinti che sia sufficiente riportare le lancette dell’orologio alla Chiesa pre-conciliare affinché l’uomo contemporaneo, sazio e disperato (copyright card. Biffi), possa innamorarsi di Cristo con la messa tridentina (in latino, che la gente non capisce
[Nessuno però ha mai spiegato come e perché quelli che “non capivano”, in tempi di analfabetismo diffuso, anche correndo seri rischi quando e dove la Rivoluzione anti-cristiana cruenta si scatenava (due esempi per tutti, Messico e Spagna nella prima metà del XX secolo), riempissero le chiese, che invece sono svuotate e dismesse con progressione geometrica da quando “si capisce”. Ma sul punto, ed anche sul concetto di participatio actuosa temo che la produzione teologica e magisteriale di Ratzinger e di Benedetto XVI sia stata più e più volte dirimente, sgretolando questi luoghi comuni]),
il catechismo di S. Pio X (intellettualistico e nozionistico, per nulla biblico ed esistenziale),
[Questa mi pare enorme, ma proprio enorme, tanto che il “modello catechistico” di san Pio X è stato adottato per rendere fruibile il CCC. In ogni caso, “biblicismo” e “esistenzialismo”, anche al di là delle censure ecclesiali, sono evidentemente prospettive dannose, tanto ch’è proprio difficile sostenere che l’abbandono del “San Pio X” abbia anche solo in minima misura giovato alla catechesi e alla formazione cristiana e spirituale dei catecumeni]
la pastorale sacramentale (che presuppone una fede che spesso non c’è più)
[C’era forse la fede ai tempi apostolici? Eppure fu proprio la “pastorale sacramentale” – espressa con severità che oggi appare indigesta quasi a tutti -, insieme ovviamente con il sangue dei martiri e la santità manifesta di molti (non tutti, ovvio), a convertire il mondo]
e tutto l’armamentario delle pratiche di pietà e di una morale casuistica lontana anni luce dalla sensibilità contemporanea”.
[Ma la “sensibilità contemporanea” è criterio di giudizio o ciò che va giudicato? Ancora una volta, sul punto che cosa fecero i primi cristiani?, che proprio per questo venivano avversati come saevi solones, perseguitati come “nemici del genere umano” in quanto non vivevano secondo la visione orgiastica della “sensibilità contemporanea” e condannavano divorzio, adulterio, aborto, selezione eugenetica, sodomia, crapule varie, etc, tanto in voga ai loro tempi. E quanto alla “morale casuistica”, questa è tipica dei “novatori” modernisti – dice niente il “caso per caso”? – “gesuitica”, ma non autenticamente cattolica, e forse troppo poco contrastata nei manuali di morale in uso nei seminari e nella facoltà teologiche, quando i gesuiti comunque difendevano la fede e la sana dottrina e godevano d’un prestigio meritato, ma in nuce covavano questa degenerazione dell’insegnamento morale, che ha soppiantato il realismo alfonsiano.
Chiedo scusa per la prolissità e le auguro ancora una santa Pasqua di Risurrezione.
Saluti cari
in J. et M.
LUCA DEL POZZO: PERCHÈ BENEDETTO HA RAGIONE, E SBAGLIANO SIA I NOVATORI CHE I TRADIZIONALISTI.
Cari Stilumcuriali, Luca Del Pozzo ci ha scritto una riflessione molto ricca e interessante sulla situazione della fede e della Chiesa, partendo dal saggio di Benedetto XVI scritto per il summit vaticano sugli abusi. Buona lettura.
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Caro Tosatti,anche se si è detto e scritto molto sugli “Appunti” del Papa emerito in tema di abusi sessuali nella Chiesa, ci sono un paio di aspetti a mio avviso importanti e rivelatori di come stiamo (mal)messi, su cui vorrei sottoporle qualche considerazione. Il primo riguarda il tratto comune a molte, direi quasi tutte, delle critiche di stampo progressista – in alcuni casi sguaiate e irriverenti – che sono state rivolte a Benedetto XVI. Il fatto cioè che puntando il dito contro il ’68 Joseph Ratzinger non avrebbe visto, o voluto vedere la luna, ossia che la pedofilia nel clero c’era ben prima del ’68, e che quindi le cause del fenomeno vanno ricercate altrove (leggasi: nella Chiesa, nella sua dottrina, nelle sue strutture eccetera eccetera eccetera). Curiosamente (ma non troppo), in questa critica riecheggia lo stesso miope atteggiamento di chi, proprio negli anni in cui deflagrava la Rivoluzione sessuale, non s’accorse di ciò che stava accadendo. Non s’accorse cioè del “salto qualitativo” rappresentato dal ’68. Per cui è vero che, si prenda ad esempio la pornografia, essa c’era anche prima del ’68; ma mentre prima – questo il punto – era diffusa sottotraccia e socialmente condannata, dopo il ’68 la situazione si rovesciò (non a caso si parla di “rivoluzione” ) e ciò che era male divenne bene, o se non bene tout court in ogni caso venne meno lo stigma sociale. Un fenomeno, questo, che già all’epoca era stato messo a fuoco con straordinaria lungimiranza da Augusto Del Noce; in un articolo dell’aprile 1969 intitolato “Disgregazione: la «pornocrazia»e la morte degli ideali”, il fiosofo cattolico sottolineava che “quel che fino a ieri era considerato, non dirò come peccato dal punto di vista religioso, ma come vizio dal punto di vista laico, oggi è normale; la protesta è tenuta come espressione di anormalità”. Non solo. “Ma quel che pù stupisce – proseguiva Del Noce – è la timidezza con cui protesta la Chiesa cattolica. Siamo davanti a un rovesciamento totale che significa negazione della stessa dimensione religiosa; di più, bestemmia esplicita dei dogmi specificamente cattolici; e quel che vediamo sono soprattutto dei preti che reclamano il «diritto al sesso», dei teologi che raccomandano la «comprensionee l’ «apertura al mondo moderno», degli ecclesiastici preoccupati di avanzare ogni altro nel lodare i prodotti più blasfemi dell’industria culturale”. Non credo servano ulterori commenti, anche guardando all’attualità. E’ esattamente in questo contesto – ciò su cui si appunta giustamente l’analisi del Papa emerito – che anche la pedofilia è stata “sdoganata”. E’ vero, gli orchi e gli abusatori seriali tra le fila del clero c’erano anche prima del ’68. Ma intanto va detto che se questa piaga (sulla quale in ogni caso ci sarebbe molto da dire, con buona pace di certa narrativa mainstream) ha assunto le dimensioni che risultano dalle cronache di questi ultimi decenni ciò è accaduto – appunto – dopo e non prima il ’68; secondo, e cosa più importante: il dilagare del fenomeno è stato possbile perchè c’è stato, e c’è tuttora, un brodo di coltura che l’ha favorita e la favorice (leggere per credere “Unisex”, in particolare il capitolo 9 su “Ideologia gender e pedofilia, documentatissimo saggio scritto a quattro mani da Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta). Motivo per cui risulta sempre piuttosto indigesta l’ipocrisia laicista che vuole la pedofilia un orientamento sessuale come gli altri salvo poi stracciarsi le vesti quando questo orrendo peccato riguarda qualche uomo di Chiesa. Vengo ora al secondo aspetto che mi preme sottolineare, questa volta in merito ad una critica allo scritto di Benedetto XVI proveniente invece dai settori cosiddetti tradizionalisti. Gli appunti del Papa emerito sono stati infatti l’occasione per rintuzzare una polemica mai sopita nei confronti del Concilio Vaticano II, visto come l’origine del cedimento della Chiesa nei confronti del mondo e di tutto ciò che di male è venuto dopo. A ben vedere, è una critica che non sta in piedi. Checchè ne dicano i suoi detrattori il Vaticano II è stato e resta un evento straordinario in cui lo Spirito ha realmente parlato alla Chiesa suscitando un’azione di rinnovamento nella, non contro né oltre la tradizione – come ebbe a sottolineare proprio Benedetto XVI nel memorabile discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005 – che in parte recepì le istanze di rinnovamento biblico, liturgico e teologico degli anni precedenti, in parte ne suscitò di nuove.
Grazie al Vaticano II è stata rimessa al centro della vita dei fedeli la Parola di Dio (Dei Verbum); è stata varata una riforma liturgica (Sacrosanctum concilium) dove la Messa è non è più un assistere passivamente ad un rito, ma partecipazione attiva, personale e allo stesso tempo comunitaria al Mistero pasquale di Cristo, ovvero sacrificio, cioè morte, e Resurrezione, cioè vita (resurrezione senza la quale, vale la pena ricordarlo, l’intera impalcatura della fede cattolica crolla come un castello di carte); è stata riproposta, tornando alle fonti, un’ecclesiologia (Lumen Gentium) dove la Chiesa è Corpo di Cristo e popolo di Dio, all’interno della quale ciascun fedele, in virtù del battesimo, partecipa all’unico sacerdozio di Cristo, senza nulla togliere al sacerdozio ministeriale riservato esclusivamente ai presbiteri. Col risultato di mandare in soffitta la vecchia concezione verticistica e piramidale che vedeva il clero alla sommità, e di desacralizzare – ciò che per molti, allora come oggi, è il vero problema – la figura del prete, e di affermare al contempo il ruolo del laicato, non più mero ricettore o utente passivo, ma protagonista attivo. Un cambio di prospettiva che dopo oltre mezzo secolo una buona fetta del clero (e non solo) fa ancora fatica ad accettare, fermi come sono ad una visione del sacerdozio come potere e non come servizio. Tre riforme – biblica, liturgica, ecclesiologica – che non hanno scalfito di una virgola la Tradizione (altro sono “le” tradizioni, quelle sì suscettibili di cambiamenti), e che allo stesso tempo hanno posto le premesse perché il cristianesimo entrasse nella vita concreta, umana ed esistenziale, degli uomini e delle donne del suo e nostro tempo. E senza dimenticare che in quegli stessi anni lo Spirito che soffiava nella basilica di S. Pietro – sapendo già cosa sarebbe accaduto di lì a poco – era all’opera per suscitare quei carismi laicali dove molte delle istanze del Concilio trovarono attuazione, e che ebbero la missione di puntellare la Chiesa quando arrivò la tempesta. E’ vero, durante e dopo il Vaticano II ci furono sbandamenti, eccessi ed errori. Ma ciò non accadde a causadel Conciliobensì nonostanteil Concilio e sulla base di una precisa lettura del Vaticano II, facente capo prevalentemente alla Scuola di Bologna, che lo ha interpretato a mo’ di cesura col passato e l’inizio di una nuova era. Col risultato che che più d’uno si sentito autorizzato a vivere e pensare la Chiesa come se il Concilio fosse l’anno zero, in nome del quale si potevano (e forse si dovevano) mutuare acriticamente categorie e forme della modernità per apririsi al mondo e stare finalmente al passo con i tempi. Fu così che nacque il Vaticano secondo…me, secondo te, secondo noi. I risultati li conosciamo bene: crisi delle vocazioni e seminari svuotati; crisi del sacerdozio e conseguente abbandono dello stato clericale da parte di tantissimi preti, alcuni dei quali per stare vicino al popolo, come si diceva allora, smisero la talare per andare in fabbrica (sul punto, sarebbe interessante sapere quanti, dopo aver lasciato il sacerdozio, rimasero a fare l’operaio, ma questa è un’altra storia…); bizzarrie e amenità liturgiche di vario genere (messe beat, ecc.); smottamenti in campo morale – esemplare in tal senso la battaglia contro l’Humanae Vitae di S. Paolo VI – e dottrinale (come le varie teologie della liberazione e, più in generale, il tentativo, teorico e pratico, di tenere insieme Cristo e Marx, che in ambito politico sfociò in quel fenomeno devastante sotto tutti i profili che va sotto il nome di catto-comunismo, praticamente un ossimoro); e ancora, crisi del principio di autorità (le cui conseguenze, ad esempio nel campo educativo con l’esperienza di don Milani, sono sotto gli occhi di tutti). Ma un conto è denunciare gli errori, altro è buttare il bambino con l’acqua sporca, come fanno i nostalgici dei (presunti) bei tempi andati, convinti che sia sufficiente riportare le lancette dell’orologio alla Chiesa pre-conciliare affinché l’uomo contemporaneo, sazio e disperato (copyright card. Biffi), possa innamorarsi di Cristo con la messa tridentina (in latino, che la gente non capisce), il catechismo di S. Pio X (intellettualistico e nozionistico, per nulla biblico ed esistenziale), la pastorale sacramentale (che presuppone una fede che spesso non c’è più) e tutto l’armamentario delle pratiche di pietà e di una morale casuistica lontana anni luce dalla sensibilità contemporanea. O chi, partendo da una prospettiva opposta, vagheggia addirittura un Vaticano III per riprendere e sviluppare le istanze riformatrici all’insegna del vero “spirito” del Vaticano II, tradito soprattutto dai pontificati di S. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Il merito principale dello scritto del Papa emerito sta nell’aver rimesso al centro la domanda delle domande: “Quando il Figlio dell’Uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?” Alla fine, questo e solo questo è il problema. Problema che pone a sua volta una duplice questione: da un lato, il fine dell’azione ecclesiale, ovvero la coscienza di sé e della sua missione nel mondo che ha oggi la Chiesa; dall’altro, e strettamente congiunta con la prima, la questione circa il modo in cui la Chiesa interpreta la realtà contemporanea e, di conseguenza, i mezzi dell’azione pastorale. Ridotto all’osso, il refrain ricorrente – comune a tanta teologia contemporanea – è questo: le chiacchere stanno a zero, è con la realtà che dobbiamo fare i conti. E la realtà è che esiste, e non da oggi, una una spaccatura profonda tra ciò che la Chiesa dice e ciò che molti uomini e donne pensano (e soprattutto fanno).
Ora se questa è la situazione, dicono i novatori di ieri e di oggi, anziché domandarci il perché e il percome si sia arrivati a questo punto – un esercizio intellettuale magari interessante ma che ha un piccolo limite: in concreto non serve a nulla, dunque è inutile perdere tempo – dobbiamo piuttosto riflettere, interrogarci, scrutare i segni dei tempi per capire come colmare l’abisso, cioè come parlare in modo convincente di Gesù Cristo all’uomo contemporaneo. Il punto fermo di questo approccio è la presa d’atto che i tempi sono cambiati, e la Chiesa deve adeguarsi ai tempi andando incontro agli uomini e alle donne del suo tempo perchè è con questa umanità che dobbiamo sporcarci le mani. E se agli uomini e alle donne di oggi la fede e la morale cattolica, in tutte le loro declinazioni, stanno strette, innanzitutto il problema non è loro ma caso mai della Chiesa (laddove beninteso “problema” diventa sinonimo di “colpa”); secondo, e cosa più importante: se le cose stanno così, la Chiesa meglio farebbe a rimboccarsi le maniche per trovare il modo di non caricare sulla vita delle persone già provate da mille difficoltà fardelli che non possono portare. Insomma ciò che conta è seguire l’evoluzione, sapersi adattare alla scena cangiante del mondo, saper intercettare, assecondandole, le dinamiche di cambiamento della società. Ma – questo è il punto – sospendendo ogni giudizio sulla realtà. Anche sulla scia di una visione ecclesiologica secondo cui il cristiano, laico o ecclesiastico che sia, al pari di Cristo che, incarnandosi, è entrato nella realtà concreta degli uomini e con essa ha fatto i conti, è tenuto a sua volta a vivere nel mondo così come è (quasi come se il fatto dell’incarnazione sia più importante di Chi si è incarnato), l’analisi si riassume, ripeto, nella semplice “presa d’atto”: le cose stanno così e così, inutile stare a cincischiare se i tempi, il mondo e la società siano cambiati in bene o in male. E se per l’uomo contemporaneo – questo il passaggio successivo del ragionamento – l’asticella della dottrina e della morale è troppo alta, forse converrà riflettere se non sia il caso di abbassarla un po’, l’asticella, adattandola alla sua misura, se vogliamo davvero provare a recuperarlo o quanto meno a non perderlo del tutto.
Ma siamo proprio sicuri che sia questa la strada da percorrere? Non si corre seriamente il rischio che in questo modo ciascuno si sentirà legittimato a vivere come meglio crede, senza alcuna necessità di convertirsi e cambiare vita posto che la conversione è la dinamica essenziale della vita cristiana? Il testo di Benedetto XVI va dritto al cuore del problema: cosa vuole fare la Chiesa del terzo millennio: continuare nella missione che Cristo le ha affidato, che è quella di evangelizzare il mondo perché gli uomini si salvino abbandonando il peccato, o semplicemente accompagnare l’uomo lungo la sua strada affiancandolo nella sua fatica quotidiana ma senza disturbare troppo e sempre agendo con discrezione, quasi che essere cristiani o no sia tutto sommato indifferente?
E allora, per dirla con Pascal, bien penser pour bien agir. Se davvero la Chiesa vuole provare a sintonizzare di nuovo sul Vangelo gli uomini e le donne del nostro tempo bisogna innanzitutto andare al cuore del problema, che al di là e oltre tutte le possibili manchevolezze e debolezze della Chiesa e dei suoi membri, che pure ci sono ma che costituiscono solo un aspetto (e pure marginale) della questione, è proprio la fede, come ha ribadito sempre Benedetto XVI nel libro-intervista “Ultime conversazioni”. O meglio, il fatto che nella società occidentale ormai da oltre mezzo secolo è in atto una profonda crisi di fede, che S.Giovanni Paolo II stigmatizzò con due parole precise: “apostasia silenziosa”. Ora la cosa interessante è che, in effetti, tutti (o quasi) sembrano essere d’accordo sul fatto che sia proprio questo il problema numero uno. Ma se sulla messa a fuoco della “malattia” c’è (abbastanza) consenso, è sulla “cura” da intraprendere che invece sembra non esserci molta chiarezza.
Perchè se da un lato la parola d’ordine che risuona in ogni consesso convegno dibattito o tavola rotonda è ri-evangelizzare, è altrettanto evidente che sembra mancare una comune visione circa il il modo di intendere la parola “evangelizzazione”, con conseguenze piuttosto gravi quando dal piano teorico si passa a quello pratico. Per rispondere alle sfide attuali non c’è altra via che provare a riaccendere la fiamma della fede nel cuore degli uomini. La Chiesa ha già dove attingere, senza bisogno di inventarsi nulla ed anzi rifuggendo la tentazione, sempre alle porte, di cercare improbabili mediazioni o soluzioni pastorali che rischiano di confondere ciò che è il bene per le persone con quello che gli individui pensano essere il bene per se stessi o, ancora peggio, con ciò che l’opinione pubblica chiede. In ogni generazione contro la tentazione di Aronne di mettersi dalla parte del popolo, c’è bisogno di un Mosè che scelga di stare dalla parte di Dio, guidando il popolo non dove il popolo vuole andare né tanto meno dove vuole lui, ma dove Dio vuole. Nella consapevolezza che tanto grave è la malattia, tanto più forte e incisiva dev’essere la cura. Se è vero, come è vero, che la crisi attuale è primariamente crisi di fede, la cura non è né fare marcia indietro né vagheggiare balzi in avanti, ma riprendere le fila del Vaticano II, quello vero. A questo scopo, risulta di straordinaria attualità il volume “Alle fonti del rinnovamento”, scritto nel 1972, dunque a ridosso degli eventi conciliari, dall’allora cardinale di Cracovia e futuro pontefice, Karol Wojtyla. Si tratta, per sua stessa ammissione, di un vademecum con cui Wojtyla intendeva illustrare ai fedeli della sua diocesi i frutti dell’insegnamento conciliare. Cardine dell’analisi, la categoria di “arricchimento della fede”, intesa come “partecipazione sempre più piena alla verità divina”, quale postulato fondamentale dell’attuazione del Vaticano II che Wojtyla identifica con il rinnovamento conciliare, a sua volta inteso come una tappa storica dell’autorealizzazione della chiesa. Attuare il Vaticano II vuol dire, in tale ottica, tradurre in atteggiamenti concreti quello che il concilio ha detto, cioè vivere in prima persona quell’arricchimento sia come approfondimento dei contenuti della fede sia come arricchimento della vita del credente, in senso cioè soggettivo, umano, esistenziale. Il che vuol dire porre al centro di ogni pastorale l’annuncio del Vangelo, cercando di “accordare” le verità di sempre sulla lunghezza d’onda dell’uomo contemporaneo, in linea con quella “nuova evangelizzazione” da lui lanciata nel 1985 che non a caso è stata la bussola del suo pontificato e per la quale si spese in prima persona fino all’ultimo giorno della sua vita. Ciò che serve è tornare ad annunciare il Vangelo; con un linguaggio nuovo, più esistenziale, meno astratto e moralistico, ma lo stesso Vangelo di sempre, ovvero quelle poche parole racchiuse in quei quattro libriccini scritti da Marco, Matteo, Luca e Giovanni. Per rispondere alle sfide attuali la Chiesa ha già dove attingere, senza inventarsi nulla. E’ vero, i tempi sono cambiati, e la Chiesa deve stare al passo con i tempi. A patto però che questo non significhi adeguarsi allo spirito del tempo, né tanto meno alle mode o alle tendenze del momento. E avendo ben chiaro, come recita il Codice di Diritto Canonico, che la suprema lex della Chiesa è la salvezza delle anime. E’ per questo, non per altro, che Cristo ha patito quello che ha patito.
Luca Del Pozzo
Marco Tosatti
http://www.marcotosatti.com/2019/04/20/luca-del-pozzo-perche-benedetto-ha-ragione-e-sbagliano-sia-i-novatori-che-i-tradizionalisti/
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