L’ANALISI
Quella frase problematica della Dichiarazione di Abu Dhabi
Il passaggio della “Dichiarazione di Abu Dhabi”, firmata dal Grande Imam e da Papa Francesco, in cui si dice che la Sapienza divina ha voluto il pluralismo religioso è il più problematico per la Dottrina sociale della Chiesa. La pluralità delle religioni non è infatti una situazione perfetta, bensì conseguenza del peccato originale. Se si perdesse di vista che il Vangelo è l’unica soluzione alla questione sociale, anche l’unicità di Cristo Salvatore non verrebbe più compresa.
Per “Dichiarazione di Abu Dhabi” si intende quella firmata congiuntamente dal Grande Imam di al-Azhar e da Papa Francesco e riguardante le religioni e la pace. Questo in generale. In particolare, per “Dichiarazione di Abu Dhabi” (o Documento sulla fratellanza umana) si intende la sottoscrizione di una frase specifica del suddetto documento, quella che dice che Dio ha voluto la pluralità delle religioni allo stesso modo di come ha voluto gli uomini di pelle bianca o nera. Questo passaggio è infatti il più problematico dell’intera Dichiarazione e come tale è passato alla cronaca. Da allora le discussioni a questo proposito non sono più finite. Vale la pena allora riflettere anche sulla possibile conseguenza di quella frase - se confermata - sulla Dottrina sociale della Chiesa.
La pluralità di religioni è spiegabile come conseguenza del peccato originale e come situazione dell’umanità decaduta. Non si tratta di una situazione di perfezione ma di imperfezione. Gli elementi positivi presenti nelle diverse tradizioni religiose sono dovuti agli aspetti della natura umana che esse in qualche modo contengono. Gli eventuali “semi del Verbo” presenti nelle altre religioni riguardano elementi di morale naturale che esse mantengono in sé, nonostante le deformazioni religiose. Esse possono contenere elementi di verità umana. Non si può quindi dire che tutte le religioni sono “preparazioni” a Cristo. Si deve invece dire che a partire da Cristo - vero Dio e vero uomo - si possono e si devono valutare le altre religioni.
Tutte le religioni hanno alla base una fede. Ma non bisogna confondere “fede” con “credenza”. La fede è adesione dell’intelligenza a dei contenuti di verità in quanto rivelati. La credenza è invece un atto soggettivo fiduciale, privo di contenuti e di verità. Ogni qual volta la fede rinuncia a essere conoscenza della verità diventa semplice credenza. Per questo diventa fondamentale il rapporto della fede con la verità della ragione. Se la fede non è conoscenza della verità - e può esserlo solo in continuità con la conoscenza della verità della ragione - scade a credenza, a rapporto fiduciale immotivato, a fideismo di cui non si riesce a dare ragione. Ciò accade, in diverse forme, anche nelle religioni che possiamo chiamare tradizionali, ma si esaspera nelle “nuove religioni”. La “religione di Satana”, di recente conio, ne è un esempio lampante: credenza ma non fede.
Ora, la Dottrina sociale della Chiesa è fondata sul primo significato di fede, appena visto, e assegna al cristianesimo una esclusività non solo per la salvezza eterna ma anche per il bene terreno. Essendo che la fede cristiana sposa la Verità nel suo senso più assoluto, ossia quello del Logos Divino, non può accettare altre forme di salvezza, né in ordine alla vita eterna né in ordine alla giustizia terrena. Sulla base di questa pretesa, la fede cattolica è in grado di stabilire una continuità organica tra l’organizzazione di questa vita in comune tra gli uomini (la società) e la prossima vita nella gloria. Le due rappresentano un’unica vocazione alla salvezza, che riceveranno - pur nella debita distinzione - dalla stessa fonte, ossia da Dio, che è Signore del cielo e della terra.
Fin dalla Rerum Novarum di Leone XIII si dice che “non c’è soluzione alla questione sociale fuori del Vangelo”. L’espressione “fuori del Vangelo” non si riferisce solo alle ideologie e alle politiche umane, ma anche alle altre religioni diverse da quella vera. Le altre religioni hanno tutte, direttamente o indirettamente, una loro dimensione sociale e politica. Anche quelle che dicessero di non averne, ne avrebbero nella forma di non averne. Anche l’assenza è una forma di presenza. Tale loro dimensione sociale e politica è accettabile per gli aspetti di morale naturale eventualmente in esse presenti, non è accettabile però per tutte e in generale. Ne consegue che la stessa ragione politica ha l’obbligo di esaminare le varie religioni, vagliare se contengono elementi di morale naturale e in ciò tollerarle, vedere però anche se le loro convinzioni religiose deturpano gli elementi di morale naturale deformandoli in senso contrario al bene dell’uomo. Per fare questo, però, la ragione politica non basta a se stessa. Ha bisogno del legame con la religione vera, perché la ragione politica può incartocciarsi e sbagliare se non è guidata dalle verità rivelate da Dio sia di ordine naturale (la legge naturale) che soprannaturale (le leggi divine positive) e destinate a sopperire alle debolezze della ragione.
Ora, tutto questo quadro, qui sinteticamente presentato, cadrebbe se Dio volesse il pluralismo religioso in quanto tale e, quindi, volesse nella storia umana la presenza di tutte le religioni, considerando questa situazione non come imperfetta ma come perfetta. Lasciamo stare la facile obiezione: “anche la religione di Satana”.
Anche attenendosi alle religioni cosiddette tradizionali e non allargando lo sguardo alle strampalate credenze del giorno d’oggi, la cosa non permetterebbe alla Dottrina sociale della Chiesa di impostare in modo consono i suoi rapporti con il mondo e con le altre religioni. Tolta la pretesa del Vangelo di essere “l’unica” soluzione alla questione sociale, cadrebbe la ragion d’essere della Dottrina sociale della Chiesa. O, se si vuole, essa diventerebbe un’opinione tra le altre, una proposta su cui discutere, e Cristo e Maometto sarebbero ugualmente importanti per risolvere i problemi di giustizia e di pace. Se così fosse, bisognerebbe però tenere conto di un’altra conseguenza: se Cristo perdesse la sua unicità per la soluzione della “questione sociale” e la vita potesse svolgersi come se Egli non fosse o come se Egli fosse uguale a tanti altri fondatori religiosi, alla lunga anche la Sua unicità per la vita eterna si disperderebbe nell’insignificanza.
Stefano Fontana
http://www.lanuovabq.it/it/quella-frase-problematica-della-dichiarazione-di-abu-dhabi
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