Perché la Chiesa trionfò e perché sta naufragando. Il Cristianesimo è incompatibile con la modernità quanto duemila anni lo fu con il paganesimo? Quale fascino può esercitare una religione che ha smesso di credere in se stessa?
di Francesco Lamendola
Uno dei fenomeni storici più straordinari, e, per i credenti, il più straordinario di tutti, fu il modo in cui il messaggio cristiano “esplose” a partire dalla prima predicazione apostolica, arrivando a conquistare, nel giro di qualche decennio, le vaste e popolose città orientali dell’Impero romano; nel giro di neppure tre secoli, Roma e i vertici politici, economici e militari dell’Impero stesso; e nel giro di altri sette secoli, la quasi totalità dell’Europa, comprese molte popolazioni germaniche orientali e settentrionali, slave, ugro-finniche, giunte solo in un secondo o in un terzo tempo e rimaste finora quasi del tutto estranee alla civilizzazione greco-romana. Considerando la modestia degli inizi, un piccolo gruppo di persone senza istruzione e senza mezzi finanziari radunate attorno ad un singolo personaggio, la cui figura e la cui predicazione erano state interamente rigettate dai suoi stessi correligionari, il credente vede in quest’avventura straordinaria e unica al mondo la prova evidente che la Provvidenza divina ha ispirato, accompagnato e assistito la diffusione di quella nuova dottrina, la dottrina del Vangelo.
Il non credente, da parte sua, pur non condividendo, per ovvie ragioni, questa interpretazione, non può non restare colpito, e sia pure da un punto di vista laico e immanente, dalla forza e dalla straordinaria capacità di diffusione di quella dottrina, tanto più considerando che essa, unica fra tutte, non trovò tolleranza nel tollerantissimo Impero romano, venne trattata da religione nemica e subì prolungate persecuzioni, le quali, a tratti, raggiunsero uno straordinario livello d’intensità, brutalità e coordinazione, per iniziativa di magistrati pagani particolarmente zelanti e per volontà di alcuni imperatori che videro in essa una minaccia quanto mai grave all’ordine sociale costituito.
Il primo colpo al Cristianesimo è venuto dall’interno della stessa cultura cattolica, con l’umanesimo; il secondo, con la rivoluzione protestante!
Ora, capire le ragioni di quel successo straordinario può rivelarsi doppiamente utile, perché senza dubbio esse hanno a che fare con le ragioni per le quali, a partire dall’avvento della modernità, ma specialmente dalla metà del secolo scorso, è in atto un fenomeno di segno inverso: un ripiegamento, una ritirata progressiva e da un ultimo un vero e proprio crollo del cristianesimo e della sua struttura visibile, rappresentata specialmente dalla Chiesa cattolica – che, per i cattolici, è la sola legittima erede della Chiesa fondata da Gesù Cristo e affidata, quale primo pastore del gregge, al suo discepolo Simon Pietro (e chi non è d’accordo con quest’ultima proposizione, semplicemente non è cattolico: quindi, il signor Bergoglio e tutti i cardinali, i vescovi e i sacerdoti suoi seguaci non sono cattolici, anche se pretendono di esserlo). Una cosa balza all’occhio di chi studia il fenomeno della diffusione e del successo straordinario ottenuto dal cristianesimo nei primi secoli della Chiesa: che esso si diffuse inizialmente fra le classi più umili, poi penetrò nelle classi medie e solo da ultimo conquistò le classi dirigenti e il sostegno di alcuni intellettuali dal prestigio riconosciuto, come Ambrogio, Gerolamo e Agostino. Le élite, e specialmente le élite culturali, si sono “accorte” del cristianesimo solo dopo un paio di secoli che esso aveva messo le radici fra la gente del popolo, non nelle campagne, ma nell’ambiente urbano, partendo dalle città elleniche della Siria, dell’Asia Minore e della Grecia stessa; quanto alla élte politica, rappresentata principalmente dal Senato, si decise ad accettarlo e a puntare su di esso, nella crisi generale della società romana, solo tardi e in funzione strumentale, al tempo di Costantino e dei suoi successori. Insomma: nato in un ambiente semplice e piuttosto povero dal punto di vista culturale, propagato da persone di modesta estrazione sociale presso i contadini, i piccoli artigiani, i pastori e i pescatori di una piccola regione, la Galilea, di una piccola provincia, la Giudea, e rigettato sin dall’inizio dall’establishment di Gerusalemme, seguitò ad essere disprezzato a lungo dalla maggioranza degli intellettuali, sia giudei che pagani: la sua fu una conquista dal basso, che (con qualche eccezione) solo da ultimo giunse al vertice dello Stato romano. Questo fenomeno è insolito, infatti i successivi movimenti culturali e spirituali europei, ad esempio il luteranesimo o l’illuminismo, sono partiti al contrario dalle élite, per poi gradualmente espandersi nel corpo sociale, verso le classi popolari.
Il Cristianesimo è incompatibile con la modernità quanto duemila anni lo fu con il paganesimo?
Citiamo dal volume di un eminente studioso, Adalbert G. Hamman, La vita quotidiana dei primi cristiani (titolo originale: La vie quotidienne des premiers chrétiens (95-197), Paris, Hachette, 1971; traduzione dal francese di Adriana Crespi, Milano, Rizzoli, 1993, pp. 67-70):
Il cristianesimo, appena nato, dilagò come il fuoco nella landa. Se i poveri e gli umili ne costituivano la massa, come nella vita esso reclutò sin dalla prima ora discepoli appartenenti a ogni livello sociale. Simile interpenetrazione non fu meno notevole della espansione geografica: entrambe abbatterono le barriere sociali, etniche e culturali non grazie all’antagonismo ma grazie alla fraternità. (…)
Il filosofo greco Celso scherniva la nuova religione il cui fondatore traeva origina da una madre operaia, e i cui primi missionari erano poveri pescatori di Galilea. Alla stessa epoca i pagani si facevano beffa dei cristiani le cui comunità si componevamo per la gran parte di gente modesta.
Il Vangelo dicevano ironicamente, esercitava la sua seduzione solo “sui semplici, sui poveri, sugli schiavi, sulle donne e sui bimbi” Origene). Lo stesso Taziano tracciò il ritratto del cristiano del suo tomo: esso sfuggiva il potere e la ricchezza, e era anzitutto “povero e senza esigenze”.
Un’interpretazione del successo cristiano voleva scoprirvi la rivincita del proletariato sull’Impero capitalista. Bisogna guardarsi da generalizzazioni così tendenziose e da schematizzazioni smentite da un’analisi più rigorosa. San Paolo convertì il proconsole di Cipro, Sergio Paolo, a Tessalonica, e molte donne nobili, a Berea. Gli ebrei convertiti Aquilas e Priscilla possedevano una casa a Roma e un’altra a Efeso entrambe tanto vaste da accogliere la chiesa locale nel triclinio o nell’atrio. Sin dalle origini, la Chiesa convertì persone facoltose, a volte ricchissime, e a Corinto il tesoriere della città si unì alla comunità.
Meno di un secolo più tardi Plinio il Giovane, più obiettivo, forniva all’imperatore Traiano un’immagine più dettagliata delle comunità cristiane di Bitinia ove si incontravano fedeli di ogni età, giovani e vecchi, uomini e donne, schiavi e cittadini romani abitanti nelle città e nelle campagne, fermandosi soprattutto sul loro “grande numero” e la diversità della loro estrazione sociale.
Da ciò che sappiano delle comunità contemporanee di Cartagine, di Alessandria, di Roma e di Lione, possiamo concludere che questi raggruppamenti erano anch’essi molto eterogenei. La fede livellava le classi e aboliva le distinzioni sociali mentre la società romana non faceva che isolarsi ed elevare barriere. Maestri e schiavi, ricchi e poveri, patrizi e filosofi si unirono e si fusero in una comunione più profonda di quella del sangue o della cultura, venendo a congiungersi tutti in una elevazione comune e personale che permetteva loro di chiamarsi in tutta verità col nome di “fratello” e di “sorella”. Quello che di più impressionò i pagani fu la meravigliosa fusione di gente d’ogni condizione nella fraternità cristiana. Schiavi o cittadini avevano tutti un’anima di uomo libero e la consapevolezza di questa eguaglianza era tanto forte che nelle epigrafi cristiane non si alludeva mai allo stato servile. (…)
La comunità romana presentava l’aspetto di una parrocchia di grande città: la lana rozza del mantello degli artigiani sfiorava i tessuti preziosi delle matrone e dei notabili. Se gli stranieri e la gente di bassa estrazione erano stati i primi ad abbracciare il Vangelo, alla fine del I secolo, la corte imperiale aprì le porte al cristianesimo con il console Clemente e con Domitilla sua moglie. Al tempo di Commodo il facoltoso maestro di Callisto, il cristiano Carpoforo, apparteneva “alla casa di Cesare”. Ireneo afferma anche la presenza di un importante nucleo di fedeli alla corte imperiale, ove cavalieri e schiavi erano in stretto contatto.
Uno dei compagni di martirio del filosofo Giustino, Evelpisto, nella Cappadocia, fu schiavo a corte. La favorita dell’imperatore Commodo, Marcia, pur non essendo cristiana, fu in rapporto con la comunità di Roma. Al tempo di Settimio Severo la presenza cristiana alla corte imperiale era di dominio pubblico e Tertulliano fa in merito varie allusioni. È probabile che qualche cristiano facesse anche parte della guardia pretoriana. Al tempo di Marco Aurelio, il Vangelo annoverava le sue reclute nell’aristocrazia. Il martire Apollonio, che Gerolamo fa erroneamente senatore, apparteneva alla nobiltà. Molti membri della famiglia dei Pomponii furono cristiani, e sotto il regno di Comodo i Romani più distinti per nascita e per censo si unirono alla continuità cristiana con le loro famiglie e con i loro beni. Giustino riferisce la conversione di due sposi appartenenti alla società ricca di Roma, che conducevano un tenore di vita fastoso, ossequiati da numerosissima servitù.
Come è stato possibile che movimenti non già popolari, ma di élite, come quello dei philosophes adoratori della dea Ragione, o più di recente i marxisti, i positivisti, i neokantiani, gli psicanalisti, gli esistenzialisti, esercitassero una pressione così forte da presentarsi, di fatto, come una valida alternativa, ponendosi di fatto come un surrogato del cristianesimo, più adatto ai bisogni dell’uomo contemporaneo?
Dunque, il segreto del successo del cristianesimo, dal punto di vista sociale, fu la sua capacità di rivolgersi a tutte le classi e di offrire una visione condivisa che, pur non attaccando le differenze di censo o di cultura, implicitamente le smussava e finiva per renderle ininfluenti nel rapporto che si veniva a creare all’interno delle comunità. Quel che i neofiti trovavano in un simile ambiente erano il calore e la dolcezza di sentirsi accolti e accettati come persone, indipendentemente dall’età, dal sesso e dallo stato sociale: incredibile progresso rispetto a un ordine costituito che era interamente fondato sulle divisioni, sulle contrapposizioni e sulla rigida chiusura delle classi superiori nei confronti di quelle inferiori, per non parlare dell’esclusone degli schiavi dal concetto stesso di umanità. E questo calore, questa dolcezza, compensavano il senso di precarietà e di pericolo che avrebbero potuto venire dall’atteggiamento delle autorità verso la nuova religione, che poneva i suoi membri in una posizione difficile, esposti alle delazioni e incriminati non per dei reati specifici ma genericamente in quanto cristiani, oltre che per il rifiuto di celebrare sacrifici di fronte alla statua dell’imperatore. Dal punto di vista della dottrina e della morale, il successo del cristianesimo fu dovuto alla sua semplicità e profondità, al forte invito all’amore, alla benevolenza verso il prossimo e al perdono delle offese, e all’energico richiamo alla purezza dei costumi, il che, in un’epoca di straordinaria diffusione di stili di vita sempre più disordinati e ostentati, in gran parte di provenienza orientale, doveva esercitare un forte fascino sulle persone sensibili ai temi della purezza, della sobrietà, della continenza, della fedeltà coniugale, della santità della famiglie, temi che in parte preesistevano all’ondata di libertinismo che si stava abbattendo sul mondo tardo-antico, ma in parte erano nuovi, perché, pur richiamandosi alla legge morale naturale, di fatto nelle società tradizionali avevano trovato accoglienza solo in parte, e solo in certi ambiti sociali. Per esempio, se qualche isolato intellettuale pagano, come Seneca, aveva disapprovato i crudeli spettacoli del circo, la società romana, nel suo complesso, non se n’era mai scandalizzata, e ciò per la semplice ragione che essa, come già quella greca, della quale era l’erede in ogni senso, non aveva mai elaborato l’idea della persona, cioè della dignità e della sacralità dell’essere umano in quanto tale, indipendentemente dalla condizione giuridica e sociale. Un altro esempio è l’atteggiamento nei confronti del lavoro. Per i cristiani il lavoro, anche manuale, era qualcosa di nobile in se stesso: il padre di Gesù, e Gesù stesso, erano stati dei falegnami; i primi discepoli erano stati in gran parte dei pescatori; e i primi apostoli, come san Paolo, insistevano per mantenersi con il lavoro delle proprie mani, senza accettare l’ospitalità gratuita delle comunità presso le quali si fermavano qualche tempo a predicare, e questo proprio per sottolineare l’idea cristiana che il lavoro nobilita l’uomo e che in una società ordinata nessuno deve pretendere di farsi mantenere come un parassita. Ma una tale idea non aveva mai fatto parte dell’orizzonte mentale di un nobile greco o di un ricco romano: per essi il lavoro manuale è qualcosa di servile ed è riservato alle classi inferiori; l’uomo dabbene non si sporca le mani se non per quel lavoro cui si dedica per il proprio piacere.
Quale fascino potrebbe mai esercitare una religione che ha smesso di credere in se stessa, che non proclama più la sua verità e che, per non offendere o disturbare le altre “verità”, accetta di porsi come una fra le tante, che, in ultima analisi, dovrebbe esser preferita ad esse in base a motivazioni meramente emotive ed epidermiche?
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