Dalla dottrina all’anti-dottrina. I padri del deserto e l’attuale magistero
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Cari amici, il contributo che vi propongo oggi è piuttosto singolare. Non arriva da un docente, da un cattedratico, né da un teologo di professione. È invece il frutto delle riflessioni di un giovane laico che, innamorato degli insegnamenti dei Padri del deserto, ha deciso di metterli a confronto con l’attuale magistero ordinario del pontefice, al fine di rilevarne lo scostamento.
Il mittente ha deciso di firmarsi con il solo nome di battesimo, Davide, ma non per paura o per pusillanimità. Come spiega lui stesso, il vero motivo è il seguente: «Non ho ruoli ecclesiali da difendere da possibili ritorsioni e quindi, non avendo nulla da perdere, non lo faccio per viltà, per non vedermi mettermi alla gogna dai servi del sinedrio. La ragione è un’altra: conoscendo la mia miseria sono sicuro che proverei vanità e piacere nel vedermi riconosciuto come autore, pur estemporaneo, su un blog seguito come il suo. Mi sono vantato con la mia futura moglie, ed è già troppo. Dopo quello che ho ascoltato dai Padri del deserto sull’umiltà, sarei proprio uno stolto e un sordo a volermi far conoscere. Un altro meraviglioso libro di sapienza cristiana che leggo con gusto, l’Imitazione di Cristo, dice: “Se vuoi che ciò che tu sai od impari ti riesca giovevole, ama di vivere sconosciuto, e di essere stimato uomo dappoco”. Meglio quindi rimanere un comune cristiano sconosciuto. Molto meglio scomparire e far parlare i padri».
Il testo, che comprende anche un’analisi della lettera ai vescovi con le accuse di eresia rivolte al papa, è più lungo di quelli normalmente proposti dal blog, ma secondo me merita di essere letto con attenzione.
A.M.V.
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Sono un laico privo di titoli accademici che mi qualifichino come teologo o esegeta. Pur avendo alle spalle qualche studio di teologia e una breve permanenza vocazionale in un seminario diocesano, sono un semplice credente cattolico. Ciò che mi spinge a pubblicare questa riflessione, grazie all’ospitalità del sito di Aldo Maria Valli, destinatario originale dello scritto, è la passione: anzitutto passione per Cristo e la sua Chiesa, le cui ultime vicende e apparenti devianze mi stanno tormentando da un po’ di tempo a questa parte (e immagino di non essere il solo), e poi passione per i nostri Padri, della cui conoscenza io vorrei incoraggiare la diffusione: i Padri della Chiesa che ci hanno generato alla fede. Giganti sulle cui spalle noi, piccoli piccoli, sediamo.
Molti studiosi accreditati dal mainstream teologico gesuitico, a mio avviso, dimenticano un concetto fondamentale: che la fede l’abbiamo ricevuta e così come l’abbiamo ricevuta la dobbiamo tramandare. Ma essi, credendosi più grandi dei nostri Padri, arrivano a negare e confutare ciò che i Padri insegnano. Non reinterpretano nell’oggi i loro immortali insegnamenti, non traggono fuori tesori antichi e nuovi, ma gettano via il tesoro antico, ritenendolo inadeguato ai tempi odierni, quando invece è attualissimo.
Fra i Padri della nostra fede spiccano sicuramente i Padri (gli abba) del deserto, di cui mi sono “innamorato” e che sto meditando. Non posso che consigliare di attingere da questa fonte di acqua fresca per approfondire la fede autentica.
I Padri del deserto furono protagonisti di un’esperienza spirituale alle radici del monachesimo cristiano, sia eremitico che cenobitico, sia occidentale che orientale. Attivi per lo più nel IV secolo nell’area egiziana attorno a Scete, molti di essi sono venerati come santi dalle Chiese orientali ortodosse e alcuni anche dalla Chiesa latina (il più famoso è certamente Sant’Antonio abate, abba Antonio il grande, l’antesignano del monachesimo).
Questo per spiegare che i loro detti (chiamati apoftegmi, che significa sentenze) sono fonte sicura di acqua buona, dissetante e salubre. La loro esperienza spirituale ha costituito uno dei pilastri del cristianesimo antico e medievale. I vari abba erano come rami innestati in Cristo e come spugne intrise totalmente di Sacra Scrittura, che studiavano a memoria e ruminavano continuamente, in totale umiltà. Chi ne approfondisce la conoscenza scopre una Chiesa che, pur con le dovute differenze di epoca e di specificità di carisma, può parlare con franchezza e freschezza anche al cristiano laico del XXI secolo.
Eppure non vedo nessuno nella Chiesa di oggi partire con costanza e fedeltà dall’insegnamento dei Padri per parlare di Dio e della Chiesa. Questo mi ha spinto a farmi avanti per condividere ciò che reputo fondamentale per il cristiano. La riflessione ecclesiale non può prescindere dalle colonne che la sostengono. L’ultimo a partire dai grandi dottori della Chiesa fu papa Benedetto XVI, con la splendida serie di catechesi del mercoledì su di essi. Da allora un silenzio assordante.
E questo vuoto si è riempito con altre voci, nuove anti-dottrine, talvolta con silenzi che è sacrosanto dovere del cristiano vagliare con il discernimento degli spiriti. Non ci possiamo esimere dal fare un confronto fra quella saggezza cristiana e lo spettacolo insipiente che la Chiesa odierna ci propone attraverso alcuni suoi pastori e dottori, o presunti tali.
I lettori di questo blog conosceranno anche meglio di me la sfilza di nomi di coloro che sgomitano per servire il sinedrio.
Per questo vorrei proporre esempi tematici nei quali l’insegnamento del magistero attuale si discosta in maniera pericolosa dal deposito di fede che abbiamo ricevuto dai Padri della Chiesa, così come vissuto e testimoniato dalla declinazione specifica dei padri del deserto.
Questi sono i principali articoli di discostamento:
1 – Il nesso necessario fra misericordia verso il peccatore e giudizio del peccato.
2 – La connessione tra pedofilia nel clero e omosessualità.
3 – La dottrina dello straniero, che non è l’immigrazionismo.
4 – Il custodire il deposito dei Padri.
Ma prima di passare a sviluppare questi punti che ho rilevato meditando i testi dei Padri del deserto, vorrei approfondire la questione dello stato di accusa di eresia recentemente avanzato in prima battuta da alcuni studiosi nei confronti di papa Francesco.
Di questo documento, che in alcuni dettagli personalmente mi è parso debole ed attaccabile nelle argomentazioni, condivido le motivazioni generali e le preoccupazioni che lo hanno generato; il sorgere stesso di un documento del genere fa riflettere su quanto in là si sia spinta la confusione dottrinale alimentata dal presente pontificato.
La reazione all’accusa di eresia; come si comportavano i padri
Racconterò in una breve digressione il percorso di come ho vissuto personalmente questi anni di pontificato. All’elezione di papa Francesco esultai molto, lo dico sinceramente. Non certo perché ero contro Benedetto XVI, anzi. Da innamorato di san Francesco mi sentii pieno di gioia nel vederlo così chiamato in causa come ispiratore per la guida della Chiesa. Speravo in una primavera spirituale. Ma confesso altresì il peccato di non aver accompagnato con la preghiera questo pontificato fin dagli inizi. Col passare del tempo iniziavano ad accumularsi da parte del pontefice espressioni strane, ambigue, volutamente ambivalenti. E in seguito mai sufficientemente chiarite. Espressioni e insegnamenti che contraddicevano in modo palese il deposito di fede.
Sia perché non vuole giudicare nessuno anzitempo sia perché, diciamocelo, il cattolico è un poco papista per nascita, la mia prima reazione è stata quella di mettermi comunque dalla parte del papa. Così non prestai troppa attenzione ai vari segnali. Mi concentravo sul vedere gli aspetti belli di questo magistero e i buoni insegnamenti, che comunque vi sono. Posso testimoniare di aver ricevuto una grazia importante, per esempio, per merito di una pratica devozionale molto sponsorizzata da papa Francesco, la recita del rosario a “Maria che scioglie i nodi”. Perciò si potrà capire la mia difficoltà nel conciliare questi frutti buoni con insegnamenti non conformi a quanto trasmessomi nella fede. Forse alcuni hanno vissuto un percorso simile al mio.
Io penso che Bergoglio sia stato originariamente chiamato, come ogni cristiano, alla grandezza. Come Francesco d’Assisi. Come persino Lutero. Anche lui è stato voluto da Dio per la grandezza. Ma l’orgoglio umano, il peccato ostinato di presunzione, può guastare questa grandezza originaria prevista dal disegno di Dio per ogni uomo credente e redento da Cristo. La differenza fra un santo come Francesco e un eretico come Lutero forse si vede qui. Entrambi portatori di un’istanza di rinnovamento per la Chiesa, un desiderio di ritornare alla purezza evangelica, di una critica contro la stortura ecclesiale presente sotto i loro occhi; ma mentre uno portò avanti queste istanze senza giudizio, partendo dall’umiltà e dalla sottomissione alla successione apostolica, l’altro con orgoglio si oppose, e da questo orgoglio poi incominciarono a sgorgare le dottrine errate.
Mi chiedevo: sta forse accadendo qualcosa di simile con il papa attuale? La frequenza e pertinacia con cui il pontefice trasmetteva messaggi ambigui, relativisti, afferenti all’etica della situazione, e senza mai ritrattare, spingevano in tal senso. Anche il saggio Salomone alla fine dei suoi anni peccò di idolatria. Altri papi hanno insegnato cose errate poi bollate e ritrattate dai successori (per fortuna raramente). Quindi dicevo: è cosa che è già accaduta e ancora può accadere, e se così fosse non sarà comunque la fine della fede.
Papa Francesco è stato accusato di molte nefandezze dai detrattori, a volte forse in modo eccessivamente ingeneroso e prevenuto. Tuttavia la confusione originata dal suo magistero scritto non è mai stata chiarita, il che rivela un intento dottrinale volutamente relativizzabile.
Per questo ritengo prezioso il documento in cui si chiede ai vescovi di valutare l’ipotesi di eresia per papa Francesco. E questo invito non deve e non può passare sotto silenzio da parte del pontefice. Perché un credente cristiano può subire ogni insulto, può essere accusato di tutto, di ogni nefandezza possibile (meritata o immeritata lo sa solo Dio), ma non può tacere dinanzi all’accusa di eresia.
È un concetto, questo, spiegato in modo mirabile proprio da un Padre del deserto: Agatone. Voglio riportare per intero l’aneddoto raccontato nell’apoftegma 5 della serie alfabetica, perché è meraviglioso: «Si diceva che alcuni si recarono dal padre Agatone, poiché avevano sentito parlare del suo grande dono di discernimento. Per metterlo alla prova e vedere se si adirava, gli dicono: “Tu sei Agatone? Abbiamo sentito dire che sei fornicatore e superbo.” Risponde: “Sì, è vero”. “Tu sei Agatone, chiacchierone e pettegolo?”. “Lo sono”. Dicono di nuovo: “Tu sei Agatone, l’eretico?”. “Non sono eretico”, risponde. Lo pregarono: “Spiegaci perché, quando ti abbiamo accusato di cose tanto gravi, tu le hai accettate, e questa sola non l’hai sopportata”. Disse loro: “Delle prime io stesso mi accuso, ed è utile all’anima mia, ma l’eresia è separazione da Dio e io non voglio essere separato da Dio”. Udendo ciò, ammirarono il suo discernimento e se ne andarono edificati».
Allo stesso modo noi cattolici non piegati al mainstream ideologizzato abbiamo sentito critiche sul papa, o le pronunciamo noi stessi, si spera con intenti di correzione fraterna. Motivate o meno che siano le critiche, minimizzate o gonfiate, situate nella ragione oppure no, fa poca differenza. Perché è l’accusa di eresia che permetterà ora di vedere coi nostri occhi il colore della cartina di tornasole di questo pontificato. L’uomo del Signore, per umiltà o mortificazione, può accettare ogni critica, può replicare col silenzio a ogni accusa, ma non può tacere, neanche in un eccesso di umiltà, quando è considerato separato da Lui. Se lo Spirito di Cristo opera in lui, il papa ora non potrà tacere.
Ma ritengo sia necessario un passaggio: l’accusa di eresia , per avere valore, deve essere formalizzata da vescovi, da successori apostolici. Altrimenti potrebbe essere facilmente archiviata come ennesima boutade di un gruppo conservatore. I vescovi sono i successori designati dagli apostoli, custodi della fede dei Padri. Ai vescovi, dunque, spetta il compito di analizzare tale accusa e verificarne i contenuti, chiedendo nel caso alla sede petrina chiarimenti che possano evitare situazioni peggiori e diradare le ambiguità. Dobbiamo perciò accompagnarli con la preghiera perché abbiano coraggio.
Passo ora alle difformità dottrinali da me rilevate [i numeri degli apoftegmi che citerò sono da riferirsi alla serie alfabetica delle sentenze, che è la versione commercialmente più comune fra le edizioni sui padri del deserto]. Spero di trasmettere la passione e il gusto spirituale per questi saggi maestri, e perciò suggerisco e invito caldamente ad andarli a leggere e ruminarli al pari di come si dovrebbe fare con la Scrittura.
1 – Il nesso necessario fra misericordia verso il peccatore e giudizio del peccato
La percezione netta che si ha ascoltando le autorità della Chiesa è che il nuovo corso teologico pastorale voluto dal pontefice – e dagli alti prelati da lui scelti nei punti cardine ecclesiali – intenda porre fine alla categoria concettuale del giudizio sul mondo e sulla storia per introdurre in modo totalitario la categoria della misericordia e dei ponti verso le istanze e le realtà liquide del mondo attuale.
Per sviluppare questo punto prenderò a modello una dichiarazione, se vogliamo incauta, divenuta purtroppo assai famosa. Mi riferisco a quando papa Francesco si è astenuto dal giudicare la realtà gay, anche in relazione ad una domanda su uno scandalo vaticano (il famoso “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”). Apparentemente così dicendo ha esercitato una virtù cristiana, quella del non giudicare il prossimo, come testimoniano i Padri stessi in moltissime occasioni dei loro aneddoti di vita. La risposta data dal pontefice richiama in modo molto simile una bella frase di abba Giuseppe di Panefisi, che così diceva rivolgendosi ad abba Poemen: “Se vuoi trovare pace in qualsiasi luogo tu sia e in qualsiasi circostanza, dì: chi sono io? E non giudicare nessuno” (apoft. 2). Ora, generalmente non trovo corretto estrapolare frasi dette al volo (qui sarebbe da dire in volo) da un successore apostolico e giudicarle con severità. C’è il rischio di cadere proprio nel peccato di presunzione e giudizio, quando invece converrebbe mettersi all’ascolto di un pastore scelto da Dio. E infatti per circa tre, quattro anni mi sono astenuto dall’emettere giudizi personali sull’operato dei vertici della Chiesa. Ma il susseguirsi imperterrito, prolungato, di espressioni ambigue al limite e oltre il limite, di dichiarazioni e documenti che stridevano con quanto lo Spirito mi suggeriva conforme alla fede ricevuta e ascoltata dai grandi maestri della Chiesa, di silenzi incomprensibili, di mancanze di spiegazioni e chiarimenti, mi hanno sempre più agitato e inquietato. Penso sia una sensazione condivisa da altri credenti.
Questa angustia interiore mi ha portato ad analizzare i contenuti degli interventi che percepivo come problematici con l’intento di vivisezionarli, capirli, giustificarli o nel caso giudicarli. Sì, giudicarli. Perché il cristiano sicuramente non deve giudicare il prossimo, ma deve giudicare il mondo, cioè di ogni cosa arrivare a chiedersi: questo fatto, questo discorso, è per Dio o per il mondo? Ci porta a Lui o ci allontana? Ci parla di Lui o di Satana? È per il bene mio e altrui o no? San Paolo questa operazione la chiamava il “discernimento degli spiriti”. Secondo tale intendimento, a mio avviso, il cristiano deve giudicare il mondo.
Ora, riflettendo su quell’ espressione improvvida del papa, per via della similitudine con la frase ispirata dei Padri (che rilevai comunque non di primo acchito), non potevo non arrivare a pensare che lo stesso Spirito avesse animato e i Padri del deserto e il papa. E forse in parte fu così, chissà. Non penso che all’origine di quella dichiarazione ci fosse un intento errato. Ma la frase, lasciata così, non è conforme all’insegnamento dei padri come ci è stato tramandato, non perché errata ma perché manca di qualcosa, soprattutto se inserita in un contesto sociale odierno, nel quale uno dei più grandi mali è la deviazione etica generalizzata e ideologica.
Dunque come affrontavano la questione del giudizio i Padri? Essi insistevano tantissimo sull’astenersi dal giudicare il prossimo, perché il risultato della condanna e del giudizio era la perdita spirituale del fratello condannato e isolato dalla comunità.
A riguardo, Doroteo di Gaza (Insegnamento VI, 71) dice: “Non vi è dunque niente di più grave, niente di più pericoloso che giudicare e disprezzare il prossimo. Perché non giudichiamo piuttosto noi stessi e i nostri mali, che conosciamo con precisione e dei quali dobbiamo rendere conto a Dio? Perché usurpiamo il giudizio di Dio?”. Dello stesso avviso era Giovanni Nano, il quale considerava l’accusare se stessi un vero carico leggero evangelico, mentre il giustificarsi da sé era il fardello pesante. (apoft.21) Seguendo questo filone di pensiero comune a molti padri, si arriverà pian piano a creare una dottrina teologica implicita, quella del “fare lutto su di sé”, sui propri peccati.
Isacco di Tebe si lasciò istruire e rimproverare bonariamente da un angelo sul non giudicare nessuno prima che Dio abbia giudicato (apoft. 1) e in modo analogo anche Pafnuzio (apoft. 1).
Specialmente sul peccato di fornicazione, ben conoscendo la debole natura umana, i saggi del deserto insistevano sul mantenersi estranei dal giudicare il peccatore; lo si vede in Teodoto (apoft.2: “Infatti colui che ha detto: non fornicare, ha detto anche: non giudicare”), e in Mosè l’etiope, dove troviamo diversi splendidi apoftegmi su questo tema a lui particolarmente caro perché sperimentava su di sé il costante giudizio per il colore della pelle, raccontati con stupende e creative immagini (apoft. 2, 14, 18). Infine, l’astensione dal giudizio altrui è presentata come porta di ingresso del timor di Dio in noi (Euprepio, apoft.5).
Quello che a più riprese e con insistenza (da cui possiamo ricavare la certezza di dottrina sicura) insegnano i vari Padri è che le mancanze evidenti nei fratelli più deboli delle comunità cenobitiche dovevano essere corrette con soave magnanimità, con tatto, o con l’esempio silenzioso, con il farsi prossimo nella caduta. Concetti meravigliosi, questi, che però non hanno nulla a che vedere con l’indifferenza verso una determinata scelta morale e sessuale che si discosta dal progetto di Dio e che quindi allontana il peccatore da Dio stesso.
Un esempio fulgido di quanto dico è riportato nell’apoft. 7 relativo ad abba Bessarione, il quale esce di chiesa per mettersi in compagnia di un fratello peccatore ostracizzato. Ancora in abba Macario (apoft. 17) apprendiamo come debba essere esclusa in ogni modo l’ira dal rimprovero verso chi ha sbagliato. Il sunto di questi detti è che l’obiettivo primo di ogni parola o azione di correzione deve essere il guadagno spirituale del fratello, per salvarlo. Ma in nessun caso l’obiettivo dell’astensione dal giudizio è l’accettazione relativista di un (dis)ordine affettivo contrario e alternativo al disegno di Dio. Men che meno ne è la benedizione. Al contrario, è solo il modo di accostarsi al caduto. Ce lo mostra abba Poemen (apoft.23) quando insegna: “Se un uomo pecca e non lo nega, dicendo: ho peccato, non rimproverarlo; altrimenti gli mozzi l’ardore. Se invece gli dici: non scoraggiarti fratello, ma guardatene d’ora in poi, inciti la sua anima al pentimento”. Come appare diversa allora la frase del papa, come altre similari e peggiori di esponenti del clero gay-friendly (molti ultimamente), che detta così suona piuttosto come una pacca sulle spalle a chi pratica tranquillamente l’omosessualità senza rimorsi, come a dire: “Continua così, non ti preoccupare, a Dio va bene lo stesso”. Abba Poemen invece con le sue parole mira dichiaratamente al “pentimento”, concetto avulso dal clero gender-friendly d’oggi. Questi moderni pastori insegnano, sulla scia delle attuali scuole psicologiche ideologizzate, che bisogna accettarsi, assecondarsi, perché si arriva a dire che è Dio ad averti voluto così: quanta distanza dall’insegnamento e dalla dottrina dei nostri padri, i quali ci hanno insegnato a resistere a noi stessi, a fare “violenza” a noi stessi, cioè a quella parte di noi che è ancora sotto il giogo dell’uomo vecchio (si legga l’apoftegma 28 di Poemen).
Tutti questi insegnamenti che ci sono stati tramandati si situano in perfetta continuità con il tesoro evangelico e biblico. Se pensiamo ad esempio all’episodio dell’adultera perdonata (come alcuni liberi pensatori cattolici hanno già notato), vediamo come Gesù risolleva con dolcezza la donna peccatrice dalla condizione di condannata, ma non la congeda con un semplice e “bergogliano” “Va’, io non ti giudico”. Bensì, dopo aver detto “Nemmeno io ti condanno”, aggiunge: “Va’, e d’ora in poi non peccare più”.
Si riesce a capire che è proprio quell’aggiunta finale a fare la grande differenza? Le frasi del papa talvolta intrise di buonismo non sono del tutto errate. Anzi, hanno una meravigliosa ispirazione alle spalle, ma difettano in un punto decisivo: il pentimento va ricercato, il male va chiamato col suo nome, il peccato va nominato e confessato per dominarlo e superarlo, va cioè “giudicato”.
2 – La connessione tra pedofilia nel clero e omosessualità
Come ben rilevato e approfondito da quel saggio pastore profondamente radicato nella tradizione cattolica che è papa Benedetto, vi è una indiscutibile relazione fra queste due realtà. E la seconda è parte non esclusiva ma importante nelle cause della prima. L’ostinazione nel non voler riconoscere questo nesso da parte dei vertici della Chiesa puzza di ideologia. Basterebbe attingere alle tradizioni antiche per sapere che la prudenza nel coltivare relazioni con ragazzini e giovani, da parte di uomini dediti alla castità per il Regno, ha sempre fatto parte del bagaglio spirituale e formativo della Chiesa fin dalle origini. Nei padri del deserto questa prudenza era ripetuta all’inverosimile, tanto che può apparire ossessiva a noi moderni. Ma essi, ben conoscendo la miseria umana propria e altrui, mettevano in guardia in ogni modo dall’entrare in occasioni di inutili tentazioni o devianze. Nella loro saggezza umile avevano compreso che era meglio un eccesso di prudenza piuttosto di una inaspettata caduta rovinosa. Le testimonianze sono numerose, tutte incentrate attorno al tema degli avvertimenti sulla presenza di fanciulli nelle comunità per paura di degenerazioni omosessuali, anche solo nei pensieri.
Abba Isacco delle Celle (apoft. 5) arriva a dire che la presenza di bambini può essere origine della distruzione della vita monacale. Il monito di pericolo è contro la pedofilia omosessuale, non contro l’abuso di potere o il clericalismo, termine nemmeno esistente allora.
Abba Macario (apoft. 5) consiglia: “Quando vedrete i fanciulli (introdotti nelle comunità) prendete i mantelli e fuggite”.
Abba Carione, padre biologico del futuro abba Zaccaria, arriva ad affermare che il tenere presso di sé dei fanciulli, quand’anche per la tua maturità e forza non ti causasse una caduta, ti impedirebbe di fare dei progressi spirituali (apoft. 3). Lo stesso figlio Zaccaria, per non dare più adito al chiacchiericcio che si sollevava contro suo padre per il fatto che viveva con lui ancora ragazzino, decise di deturparsi l’aspetto. Oggi questo suona a noi come un eccesso. Ma nell’ottica evangelica di “cavarsi l’occhio che dà scandalo, che fa cadere” non lo è. È essere intrisi di Vangelo fin nel midollo, essere umilmente disposti a sacrificarsi pur di non alimentare scandali e non indurre nessuno in tentazione, cioè a ritenere se stessi un nulla in vista degli altri.
Padre Matoes suggerisce di non coltivare amicizie coi fanciulli (apoft. 11). Giovanni Nano suggeriva l’estrema prudenza anche nel conversare coi ragazzi, perché la tentazione è sempre in agguato e non bisogna presumere di sé (apoft. 4).
Padre Poemen usa termini molto duri: “Se hai una passione per un fanciullo e lo tieni (come discepolo presso di te), diventerai come un campo divorato dai vermi” (apoft. 176).
Ma la testimonianza che in assoluto fa più specie oggi, attualissima, è a mio modesto avviso quella di abbaMacario (apoft. 20), il quale, quando dice “Perché è impossibile che chi crede veramente e agisce con pietà cada nell’impurità delle passioni e nell’inganno dei demoni”, pone giustamente in connessione il peccato di impurità con la mancanza di fede! Un insegnamento che sentiamo risuonare con saggezza nelle parole di Benedetto XVI nel suo documento sul tema della pedofilia, documento snobbato dal recente vertice in Vaticano. Immergendosi nella Tradizione, il papa emerito ricerca nella crisi di fede moderna che ha contaminato la Chiesa le cause più profonde (non necessariamente le prime in ordine cronologico) della crisi degli abusi, una crisi di fornicazione degli uomini votati a Dio, fornicazione per lo più commessa verso fanciulli maschi.
Se la Chiesa avesse tenuto presente e vivo sotto gli occhi l’insegnamento prudenziale dei padri che ho citato, forse tutto questo scempio non ci sarebbe stato.
3 – La dottrina dello straniero, che non è l’immigrazionismo
È sotto gli occhi di tutti che uno dei punti cardine dell’attuale pontificato sia il tema dei migranti. Essi sono visti come incarnazioni del Cristo emigrante è perciò vanno accolti sempre, senza se e senza ma. Ovvero senza fare discernimento.
Ora, a parte la premessa che sarebbe doveroso fare su quanto sia esegeticamente corretto identificare Cristo come un migrante economico, costrutto interpretativo facilmente smontabile, ci si dovrebbe poi interrogare su quanto il fenomeno epocale dell’immigrazione di massa verso l’Occidente cristiano sia da assimilare invece ad una invasione culturale ben mirata, una nuova forma di guerra di religione che trova nella debolezza di fede e nell’anti-cultura dell’Europa atea una facile sponda per la conquista a basso prezzo.
Il cristiano di ogni tempo sa che il forestiero è sacro, perché alcuni “accolsero angeli senza saperlo”. Non intendo minimamente mettere in dubbio il fondamento biblico e patristico dell’accoglienza in quanto tale. Essa è un valore cristiano. Ma l’accoglienza e l’immigrazionismo ideologico sono due cose ben diverse, sia nell’origine che nel concetto. Nell’accoglienza si dona, e si gioisce nel dare il meglio di sé (cfr. Abramo in Genesi 18) allo sventurato che transita (che transita, si badi, non che sradica la tua tenda per piantare la sua). Nell’immigrazionismo si pretende con coercizione sociale che le masse operaie rinuncino a quel poco che è loro (mentre chi è in alto a pontificare e ammaestrare si guarda bene dal condividere il proprio stipendio faraonico pagato dagli stessi cittadini), mettendo sulle spalle altrui un fardello pesante. Nell’accoglienza si discutono i diritti e i doveri, c’è il rispetto reciproco (cfr. Genesi 21: Abimelec che vuole mettere dei paletti di rispetto e chiarire il rapporto con quell’Abramo da lui generosamente accolto, ma da cui era stato ingannato). Nell’immigrazionismo invece i doveri degli accolti non ci sono, e i diritti degli ospitanti sono negati o bollati come razzismo ed egoismo.
In tale orizzonte concettuale, come si collocano il magistero ordinario attuale e l’insegnamento dei padri?
Evidente è la deriva immigrazionista del pontificato attuale, le citazioni si sprecherebbero. Ma di diverso spessore e indirizzo sono gli insegnamenti e gli esempi dei Padri, da situare invece nel solco dell’accoglienza.
Innumerevoli sarebbero gli apoftegmi da citare per testimoniare come il tema dell’accoglienza fosse particolarmente caro ai vari abba del deserto. Quasi per ognuno di loro vi sono aneddoti a riguardo, dove ci viene testimoniato il loro ardente desiderio di sacrificare se stessi, venir meno alle proprie regole e abitudini pur di farsi incontro al fratello di fede ospitato, conoscente o forestiero che fosse. In alcuni casi gli accolti non erano nemmeno credenti, ma erano ladri conclamati. Troppo forte in loro era il desiderio di metter in pratica la frase del Verbo: “Se qualcuno ti chiede la tunica, tu dagli anche il mantello”.
Ma l’ardente desiderio di vivere il Vangelo nasceva dalla loro libertà, non da una coercizione imposta e non scelta. Spingendosi ancora più in là, i padri arrivarono a teorizzare (informalmente) e a metter in pratica una teologia profondissima, che è stata chiamata la dottrina dell’estraneità (la “Xeniteia”), o dello straniero, che molto si discosta dall’immigrazionismo della Chiesa di oggi. Secondo tale insegnamento, uno dei vertici dell’aspirazione spirituale del monaco era quello di “farsi straniero”, come ben insegnò Giovanni Climaco nella sua opera Scala del Paradiso: “Estraneità è abbandono di tutto ciò che è nella nostria patria, che ci ostacola nel perseguire la pietà” (III, 10) Il farsi straniero aveva un fondamento cristocentrico, in quanto Cristo uscì dai cieli, dal seno del Padre, facendosi straniero per noi.
Esempi di tale insegnamento vissuto li troviamo in abba Longino (Apoft. 1), in abba Andrea (apoft. 1), in abba Agatone (apoft. 1), tutti aneddoti illuminanti e fascinosi, da meglio approfondire. Poiché il farsi straniero dal mondo è tutto l’opposto del costruire ponti con esso, e farsi da esso influenzare per mutare l’insegnamento di fede.
C’è un detto davvero particolare che mette in evidenza la difformità della dottrina dei Padri rispetto all’insegnamento attuale. Mi riferisco all’apoftegma 1 di abba Giacomo. In esso Giacomo dice: “Piuttosto che ospitare, è meglio vivere come stranieri”. Frase non provocatoria, che non è un invito a tralasciare l’ospitalità ma a ribaltare la prospettiva del credente e a riordinare le giuste priorità di fede. L’affidamento totale a Dio che deve avere colui che vive da straniero nel mondo viene prima persino delle opere di carità.
Povero abba Giacomo, oggi non lo farebbero nemmeno entrare in Vaticano!
4 – Sul custodire il deposito dei padri
Un tema ultimamente poco avvezzo a risuonare sulle labbra di troppi uomini di Chiesa è la fedeltà e continuità alla tradizione, cioè il deposito di fede tramandato fino a noi da coloro che ci hanno preceduto e iniziato alla fede. Vescovi e teologi talvolta troppo concentrati a coniare neologismi e nuovi modi di intendere la vita cristiana (si veda la sinodalità), trascurano o velatamente sconfessano quel che è l’insieme degli insegnamenti dei Padri e della Scrittura in maniera subdola. Il grimaldello usato per far tacere la Tradizione è sempre il medesimo ma ha nomi di volta in volta cangianti: si fa chiamare “interpretazione”, “contestualizzazione”, “diversa situazione” (un esempio che si capirà al volo: “Al tempo di Gesù e Paolo non c’erano le relazioni omoaffettive stabili… se no non avrebbero parlato così”), o “esigenze pastorali”, ma ha un solo vero nome: relativismo.
Sia la Scrittura sia i detti dei padri del deserto vanno letti certamente con criteri ermeneutici intelligenti, secondo principi sanciti sapientemente dalla Chiesa nel corso dei secoli, alcuni dei quali ben riassunti nella costituzione apostolica Dei Verbum, la quale non a caso riprende l’insegnamento dei Dottori della Chiesa. Sappiamo perciò che la Scrittura va letta nella sua interezza, sappiamo che è incauto estrapolare una frase esortativa o parenetica dal suo contesto tematico, sappiamo che la storia va contestualizzata e che dobbiamo leggere la Parola con lo stesso Spirito con cui fu scritta, sappiamo che nell’esegesi il segreto è lasciare che sia la Parola a spiegare la Parola (soltanto Dio può spiegare bene Dio). Per questo è importante sottolineare le continuità, le citazioni, le ripetizioni. Similmente occorre procedere con i detti dei padri del deserto: quando un insegnamento è ripetuto da molti, possiamo accostarci ad esso con sicurezza. Alcune frasi forti e pittoresche sono da inserire in un contesto di ricerca religiosa particolare, nel concreto di vocazioni simili eppure multiformi, come multiforme è lo Spirito che le ispira. Ma pur con tutte queste sfaccettature poliedriche, il messaggio che rimane eterno per tutti è uno, perché uno è l’autore. I Padri hanno da dire qualcosa di importante anche a noi oggi, anche a noi non monaci, anche a noi europei e non orientali.
Per questo è importante custodire con fedeltà l’insegnamento e la dottrina dei Padri, tesori che non si possono liquidare con frasi sciocche del tipo “Eh ma a quei tempi non esistevano le coppie fedeli omoaffettive”, osservazioni che cancellano duemila anni e più di insegnamenti ribaditi e confermati, sanciti dalla Scrittura, dalla Parola stessa del nostro Creatore che va al di là del tempo e delle contestualizzazioni per stagliarsi nell’eternità: “Non avete letto che da principio Dio creò l’uomo e la donna?”.
Dai vari abba del deserto apprendiamo che la custodia dell’insegnamento delle proprie guide spirituali era considerata come fedeltà alla Rivelazione e alla Scrittura di cui l’insegnamento era un’estensione, un tramite efficace di continuità. Per Isidoro delle Celle, difatti, seguire i padri è vita (apoft. 11); seguire le proprie opinioni, invece, era per Isidoro di Scete lo spirito malvagio più terribile (apoft. 9).
Il grande padre Antonio diceva: “Qualunque cosa tu dica, basati sulla testimonianza delle Scritture” (apoft. 3). Quanto sarebbe bello se i pastori seguissero oggi questo insegnamento.
E infine troviamo in Mosè l’etiope (apoft. 9) un’interessante profezia sul destino dei monaci di Scete che mette in relazione la sopravvivenza della comunità credente con la custodia degli insegnamenti tramandati dai Padri della fede: “Se custodiamo i precetti dei nostri padri, vi garantisco davanti a Dio che i barbari non verranno qui; ma se non li custodiamo, questo luogo sarà devastato”. Un monito importante per l’Europa scristianizzata di oggi, già invasa da barbari pan-islamisti. E un monito ancor più importante per la Chiesa cattolica: tradire il deposito di fede conduce alla rovina.
Le generazioni tardive dei padri lamentavano un decadimento dei costumi delle comunità di fratelli, rispetto alle prime generazioni di anacoreti. Come Mosè l’etiope, così anche Macario l’egiziano lamentò il decadimento, citando proprio il rischio pedofilia nelle comunità come ultimo imbarbarimento spirituale prima del baratro (apoft. 5). E i barbari infatti alla fine vennero e depredarono le comunità di Scete e dei dintorni più volte, causando la dispersione dei monaci. L’epopea meravigliosa degli uomini che cercavano Dio nel deserto, nella solitudine e nell’umiltà andava così terminando il suo impulso originario e più autentico. Ma un resto di monaci diffusi da questa diaspora, proprio grazie alla fedeltà ai propri Padri e ai loro detti, perseverò nel custodire questi insegnamenti, cercando di mantenere viva l’esperienza di Scete e di portarla avanti nel tempo (mitigando la durezza originale dell’esperienza anacoretica, ma facendo sintesi degli insegnamenti migliori). Grazie alla loro fedeltà, il retaggio spirituale dei Padri rimane tuttora come una stella fulgida nel cielo della notte. Basta solo decidere di non coprirla con la mano. Vi è grande consolazione nel constatare che lungo la storia, al dilagare di ogni barbarie, c’è sempre un resto di Israele custodito nel palmo del Signore, che viene preservato dalla distruzione. La condizione richiesta è la fedeltà, sull’esempio virtuoso dei Recabiti elogiati da Dio nel libro del profeta Geremia (cap.35). L’imbarbarimento di questa civiltà occidentale al tramonto – e di quella parte di Chiesa collusa con essa che ha smarrito i padri – potrebbe anche portarla a essere spazzata via dalla storia, ma il resto fedele della Chiesa di Cristo continuerà a vivere.
Auguro a me per primo e ai lettori di questo sito la medesima fedeltà per poter appartenerea al resto di Israele.
Davide
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