Scegliere di morire ?
In questi giorni si è riacceso il “dibattito” sulla possibilità “legale” di scegliere di morire. Pareri pro e contro l’eutanasia e il suicidio assistito, addirittura proposte di “legge” per giungere finalmente ad una regolamentazione della volontà di morire; con i “dovuti limiti”, però, e in base al “rispetto della persona” e al “rispetto per la libera volontà”!!!
Quindi, si può scegliere di morire, così dicono. Ma c’è subito una piccola obiezione: se una persona non può scegliere di nascere, com’è possibile che possa scegliere di morire? La più elementare delle logiche e il minimo di buon senso impongono che i due atti principali dell’esistenza debbano essere correlati: come ho voluto nascere, così non voglio più vivere. Ma è vero?
Non è vero: non si sceglie di nascere, quindi la vita che viviamo non ci appartiene, non rientra nella nostra disponibilità. La vita la conduciamo, subendola e godendola, ma non ci è dato sopprimerla, perché essa è il frutto di una volontà che non è la nostra, e che non potrebbe neanche esserlo, dato che prima di nascere non potevamo neanche avere la volontà di farlo.
E la verità oggettiva rimane: la vita non ci appartiene, non possiamo disporne a piacimento.
Si potrebbe obiettare che ci sono circostanze e situazioni in cui vivere equivale a soffrire, e non tutti sono disposti ad accettare la vita quando è intrisa di sofferenza. Tuttavia, mentre la vita è un dato oggettivo, la sofferenza è un dato soggettivo, quindi non possono essere trattati allo stesso modo, in base alla nostra volontà.
Cos’è infatti la sofferenza? Mentre la vita è un dato comune a tutti, la sofferenza è un dato che varia anche parecchio da persona a persona ed è legato a condizioni d’esistenza, costumi, educazione, concezioni sociali e religiose.
Per esempio: cos’è la sofferenza per un eschimese? Essere esposto a temperature tropicali; e cos’è la sofferenza per un africano? Essere esposto a temperature polari. Né all’eschimese basterebbe spogliarsi o all’africano coprirsi di pelli. E ancora: cos’è la sofferenza per un cenobita dalla vita estremamente frugale? Essere costretto a mangiare una grande quantità di cibo; e cos’è la sofferenza per chi consuma abitualmente cinque pasti abbondanti al giorno? Essere costretto a mangiare un po’ di pane e bere un po’ d’acqua.
E ancora: cos’è la sofferenza per un ragazzo cresciuto nel benessere? Non avere più la possibilità di ottenere le tante cose a cui è abituato; e cos’è la sofferenza per un ragazzo che è cresciuto dovendo lottare per ottenere il minimo soddisfacimento dei bisogni? Trovarsi ad avere tutto a disposizione ma poterne godere solo una parte.
Si dirà: ma quando si parla di eutanasia e suicidio assistito, si tratta di sofferenze fisiche insopportabili, che non possono essere accettate nell’ottica di una vita dignitosa. Ma la vita si vive dignitosamente solo se la si accetta per quella che essa è oggettivamente: tale che se comporta gioie, si gioisce, e se comporta dolori, si soffre. Anche qui: non si possono scegliere le gioie e i dolori, né, come si pretende oggi in questo mondo sottosopra, si può scegliere solo di gioire e si può evitare di soffrire; solo la deformazione mentale moderna muove le persone a cercare e a pretendere solo il bello e il piacevole, e la conseguenza è sotto gli occhi di tutti: una sempre più diffusa “angoscia esistenziale”.
E qui appare l’altro aspetto del problema della sofferenza: si può soffrire fisicamente e si può soffrire psichicamente, e oggi questa seconda sofferenza è molto più diffusa della prima, al punto che per una sofferenza fisica si può andare in ospedale e per una sofferenza psichica si può arrivare fino al suicidio.
E’ quello che è accaduto in Olanda alla ragazzina di 17 anni affetta da grave depressione, che ha creduto bene di suicidarsi facendosi assistere da un medico. E si dice che questo le è stato reso possibile dalla legislazione vigente in quel paese, dove sono “legali” sia l’eutanasia sia il suicidio assistito.
Ma è proprio così? A noi pare proprio di no: poiché la cosa raccapricciante è stata resa possibile innanzi tutto dalla forma mentale moderna, secondo la quale la vita sarebbe come un affare; e gli affari si fanno per guadagnare e così poterne fare di altri. Una mentalità mercantile che vede l’uomo, assurdamente, come un oggetto da valorizzare e mai come una persona da accudire. Nessuno ha voluto accudire la ragazzina depressa, e tutti si sono prestati per convenire che non poteva vivere se non ne aveva più voglia; si afferma infatti: che valore ha una vita che non ci piace?
Non abbiamo il cattivo gusto di scendere nei particolari della vicenda, ma non possiamo evitare di considerare che in Olanda muoiono 5 persone al giorno per suicidio, mentre il numero dei suicidii è considerevole in tutto il mondo occidentale, e questo nonostante il benessere… o forse proprio per il benessere.
Fin qui non abbiamo richiamato la morale cristiana e i Comandamenti di Dio, in base ai quali il suicidio è peggio dell’omicidio, perché il “Non uccidere” riguarda la soppressione di un uomo per mano d’uomo, quindi anche di sé stessi. E questo è talmente vero che un tempo – in cui il cervello non era ridotto in poltiglia e la pratica religiosa era una cosa seria – il suicida non riceveva i conforti religiosi e non veniva seppellito nello stesso cimitero con gli altri morti.
E a chi avesse dei pruriti areligiosi, ricordiamo che già Dante, nella sua Commedia, mette i suicidi nell’Inferno; e li colloca nel girone più basso di quello degli omicidi, per indicare che i violenti contro sé stessi sono peggio puniti dai violenti contro il prossimo, giusto l’insegnamento del Signore che dice che bisogna amare il prossimo come se stessi; da cui si deduce facilmente che, per amore di Dio, il principale amore è quello per sé stessi e solo dopo viene l’amore per il prossimo.
San Tommaso spiega che «l’uccisione di se stessi è contro l’inclinazione naturale, e contro la carità con la quale uno deve amare se stesso. E quindi il suicidio è sempre peccato mortale, essendo incompatibile con la legge naturale e con la carità. […] la vita è un dono divino, che rimane in potere di colui il quale “fa vivere e fa morire”. Perciò chi priva se stesso della vita pecca contro Dio … Infatti a Dio soltanto appartiene il giudizio di vita e di morte, secondo le parole della Scrittura: “Sono io a far morire e far vivere”» (Summa theologiae, II-II, 64, 5).
Circa la motivazione, oggi che si insegna che la sofferenza non sarebbe accettabile, occorre ricordare che non esiste ambito dell’esistenza in cui non alberghi la sofferenza, e molto semplicemente perché essa è parte della vita stessa; la stessa nascita è un insieme di sofferenze: la madre prova dolore a metter al mondo un figlio, e il figlio appena nato non emette un vagito di gioia, ma uno strillo di dolore. E questo sempre a prescindere dall’insegnamento cristiano, in base al quale la sofferenza è la conseguenza del peccato originale e connota fin dall’inizio la vita del primo uomo e della prima donna mandati a vivere nel mondo dopo essere stati cacciati dal Paradiso Terrestre (Cfr. Genesi III, 11-19). E ancora più esplicito è il testo del Salve Regina, dove la vita sulla terra è detta un “esilio” e la terra stessa una “valle di lacrime”.
Quindi, la motivazione della sofferenza che diventerebbe inaccettabile non è ben fondata: sia perché l’inaccettabilità è un dato soggettivo e non può mai trasformarsi in un dato oggettivo, sia perché esiste l’imperativo morale che vieta all’uomo di togliersi la vita, imperativo senza il quale l’esistenza umana scade ad un livello inferiore all’esistenza animale.
Infatti, l’idea corrente della “legittimità” dell’eutanasia e del suicidio assistito non costituisce un punto d’arrivo, ma è un punto di partenza che apre la strada ad ogni possibile motivazione: da quella individuale e soggettiva, che può indurre l’uomo a togliersi la vita per qualsiasi motivo da lui solo ritenuto giustificato; a quella sociale e utilitaristica, che può considerare l’uomo non più idoneo a vivere come membro attivo della società o come membro di una famiglia per la quale è diventato solo un peso e un impedimento; senza contare che in quest’ultimo caso possono entrare in giuoco le sofferenze dei vari componenti della stessa famiglia, le quali, nella stessa ottica soggettiva, finiranno con l’avere un peso non indifferente, sia per l’ulteriore valutazione soggettiva della sofferenza del malato, sia per la soggettiva inaccettabilità delle sofferenze e degli scompensi che gravano sui soggetti coinvolti.
Insomma, accettata la “legittimità” della soppressione della vita di un malato, si innesca un processo che comporta mali ancora peggiori del male del suicidio e della mancata cura del malato sofferente.
E’ per questo che si rimane sconcertati nel leggere il tweet di Papa Francesco relativo al caso della ragazza olandese che ha scelto di morire.
«L’eutanasia e il suicidio assistito sono una sconfitta per tutti. La risposta a cui siamo chiamati è non abbandonare mai chi soffre, non arrendersi, ma prendersi cura e amare per ridare la speranza»
5 giugno 2019 –
5 giugno 2019 –
Papa Francesco fa bene a ricordare che bisogna prendersi cura di chi soffre, ma fa male a non ricordare che scegliere di morire equivale ad offendere Dio, commettendo un peccato mortale, e che coloro che collaborano alla scelta di togliersi la vita, sia con una “legge” sia con l’assistenza medica, commettono lo stesso peccato; senza contare che una volta resa “legittima” la scelta di morire, non si realizza solo la complicità nel peccato mortale, ma si attua una sorta di istigazione al suicidio, considerato soggettivamente ancora più lecito in quanto ammesso dalla società.
Attenzione! Una volta legittimato il suicidio sulla base di giustificazioni soggettive, come si potrà impedire che si passi alla legittimazione dell’omicidio basato sempre su giustificazioni simili e parimenti soggettive?
Un paradosso? Forse. Ma non è forse un paradosso che la società moderna ritenga legittima l’uccisione di un bambino non ancora nato, con l’aborto? E non è paradossale che questa stessa società provveda ad “assistere” la scelta di suicidarsi, dopo non aver provveduto ad “assistere” l’aspirante suicida perché desista dal suo malsano proposito?
Il meno che si possa dire è che oggi viviamo in un mondo che diventa sempre più anomalo e che sulla base delle sue anomalie ha la pretesa di riparare gli effetti causati dalle anomalie stesse!
di Belvecchio
Dichiarazione dell’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi a seguito della morte di Noa Pothoven.
La tragica conclusione della vicenda terrena della giovane olandese Noa Pothoven è l’indubitabile segno dell’avanzata feroce della cultura della morte nelle nostre società, che si sviluppa sul dogma dell’autodeterminazione psicologica, principio dottrinale assoluto della nuova religione della disperazione. La società e lo Stato inducono alla disperazione, insegnando che tutto può essere vero e giusto se è voluto dal soggetto e che niente è vero e giusto in sé, niente vale la pena, e poi eliminano i disperati con la motivazione di ottemperare ai loro desideri. Il principio di autodeterminazione assoluta non è naturale, è indotto dall’ideologia della morte, e poi ad esso ci si appella come se fosse un principio naturale per infliggere la morte ai disperati, o per indurli a morire, o astenendosi dall’aiutarli a vivere.
Stando alle notizie finora emerse, strutture sanitarie private hanno collaborato alla morte di Noa, assistendo il suo suicidio per renderlo meno doloroso in fase terminale. Quelle strutture hanno di fatto preso parte alla sua morte: la collaborazione al suicidio moralmente si configura come partecipazione ad un omicidio. Non ci sono, allo stato attuale, prove di intervento in questo senso da parte di strutture sanitarie pubbliche, anche se per lo Stato si configura almeno La colpa dell’omissione ed anche se il clima eutanasico favorito dalla legge ha fatto certamente la propria parte.
Da molto tempo gli Stati si mettono a disposizione per l’uccisione nel ventre materno dei bambini innocenti cui viene impedito di nascere. Da molto tempo lo Stato olandese dà la propria collaborazione a chi chiede di essere ucciso in virtù della legge sull’eutanasia. I dati, che sanno essere spietati nella loro nudità, ci dicono che la pratica è in aumento vertiginoso e che le motivazioni per l’eutanasia possono ormai essere anche molto deboli e, ciononostante, venire soddisfatte. Il caso Noa non è un evento nuovo e inaspettato. Sconvolgente, certo, ma non inaspettato per chi segua lo sviluppo della lotta tra cultura della vita e cultura della morte nei Paesi della post-umanità. E siccome alla ragazza era stata negata l’eutanasia per legge, ecco i fautori della morte a chiederne la liberalizzazione più completa. Tutte cose, purtroppo, già viste.
La morte di Noa, tuttavia, colpisce: per la giovane età, per la sua debolezza che implicitamente chiedeva aiuto, per la sostituzione di questo aiuto umano, morale, materiale e spirituale, con la spinta ad uscire da questo mondo, per lo stato di perversione delle leggi e del “sistema” socio-sanitario nel suo complesso. Noa è l’ultimo e più recente caso di un mondo che, sconvolto, si scuote dal suo colpevole torpore … oppure è il primo caso del mondo invivibile che ci aspetta in futuro? Molte volte in passato si è detto che certe soglie di non ritorno erano state superate … e purtroppo la storia successiva ha confermato queste previsioni. Molte volte si era detto che, superato quel punto, altri punti sarebbero stati superati in seguito, perché anche la cultura della morte ha una sua logica interna. In molti di quei casi, però, abbiamo continuato a camminare in avanti senza prestare troppa attenzione alle sconvolgenti novità cui, pian piano, ci si abituava.
Dare la morte e darsi la morte sempre più sono intesi come diritti e siccome lo Stato garantisce i diritti, lo Stato dà la morte, quando questa sia voluta da un soggetto, oppure non si impegna ad aiutarlo a conservarsi in vita. Se ci sforziamo di non nascondere la realtà, la morte di Noa è l’ulteriore tassello che prefigura questo torbido futuro: il male democraticamente celebrato, contemplato per legge, pianificato, come si pianifica la soddisfazione di un diritto.
La domanda su come siamo potuti arrivare a questo punto dovrebbe interrogare tutte le coscienze. Gli esiti della storia sono sempre effetti di lunghi processi che richiamano a delle responsabilità. Abbiamo tollerato troppo. Ci siamo impegnati troppo poco. Abbiamo pensato che la cultura del dialogo potesse coprire la lotta tra il bene e il male che sempre ha caratterizzato la storia umana. Abbiamo sofisticato sulle forme della lotta da farsi più che sui contenuti. Abbiamo diviso il fronte della vita per motivi marginali. Abbiamo ampliato e diluito la nostra attenzione al tema della vita, perdendo di vista le tematiche bioetiche e biopolitiche, che invece rimangono prioritarie. Abbiamo eliminato alcuni temi dalla predicazione ecclesiastica, ritenendoli troppo duri per l’uomo di oggi. Siamo stati presi da una pastorale conciliante anche circa l’inconcilibile. Su certi temi non siamo più stati capaci di aggiungerci a chi scendeva nella pubblica piazza.
Con Noa la deriva antropologica ha fatto un ulteriore passo in avanti. Però la deriva antropologica rimanda ad un’altra deriva, ben più importante: la deriva teologica. L’uomo non spiega mai completamente se stesso, sia nel bene che nel male. Al congedo da Dio delle nostre società non può che derivare il congedo dall’uomo. Bisogna chiedersi se a questo proposito non stiamo sbagliando indirizzo: troppo spesso i cristiani guardiamo all’uomo per trovarvi Dio, anziché guardare a Dio per trovarvi l’uomo.
+ Giampaolo Crepaldi
Vescovo di Trieste e Presidente dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân.
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